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L’INDUSTRIA CULTURALE E GLI APPARATI IDEOLOGICI DI STATO

Articolo 14 Ogni popolo ha diritto alle proprie ricchezze artistiche, storiche e culturali Articolo 15 Ogni popolo ha diritto a che non gli sia imposta una cultura ad esso

1.6. L’INDUSTRIA CULTURALE E GLI APPARATI IDEOLOGICI DI STATO

Possiamo finalmente accostarci al concetto di “industria culturale”, che è in qualche modo il punto finale della parabola che collega gli studi antropologici sulle specificità dei comportamenti umani, con la modernità. Elaborato da M. Horkheimer e Th. W. Adorno nella Dialettica

dell’Illuminismo, largamente impiegato dallo stesso Adorno, da Marcuse e

da Morin, il concetto di industria culturale si collega alla critica della dialettica dell’illuminismo come capovolgimento del progresso in regresso, e quindi a una valutazione negativa della ragione tecnico - scientifica: esso designa una situazione in cui l’individuo, reso impotente dalle forze economiche che dominano la società contemporanea, è ridotto a essere generico, mentre la cultura diventa merce, ossia oggetto di consumo (1). L’impersonalità dell’individuo e l’oggettività del prodotto culturale sono così le due facce di un’unica medaglia, i due aspetti del prevalere incontrastato di una cultura di massa integrata nel meccanismo della società. La critica della cultura sviluppata su questa base si risolve perciò nel vagheggiamento retrospettivo di una cultura non di massa ma di élite, patrimonio esclusivo di certo ceto di intellettuali la cui attività era – o sembrava essere – indipendente da esigenze economico-produttive. È significativo che, nel saggio Remarks on a redefinition of a culture(2), Marcuse non soltanto riprenda la distinzione tra cultura e civiltà in termini di antitesi tra dominio dei valori e sfera del progresso tecnico-scientifico, ma la faccia coincidere con la distinzione tra cultura di élite e cultura di massa: mentre la scienza è democraticamente partecipabile da tutti i membri di una società a causa del suo carattere strumentale e impersonale, la cultura presuppone un movimento di ritiro che è riservato a un’élite intellettuale (e sociale).

Gramsci parla di egemonia per definire l’ideologia dominante: l’egemonia è un’ideologia e una cultura onnipervasiva, con struttura coerente, esplicitamente o implicitamente funzionale agli interessi di una classe o ad un’élite dominante. Lungo questo percorso si muove Althusser, che considera l’ideologia un’entità che non ha storia, essa “è dotata di una struttura e di un funzionamento tali da farne una realtà non-storica, cioè onnistorica”, in quanto questa struttura ha una forma immutabile al di là del tempo (3). L’ideologia dominante non viene imposta con la coercizione, ma attraverso meccanismi non sempre palesi e consci. Per molti storici marxisti, tra cui Althusser, la società capitalista, per sopravvivere, ha bisogno di riprodurre sia il suo modo di produzione, che i suoi rapporti sociali: bisogna riprodurre la forza lavoro e altri mezzi di produzione ma anche fornire agli individui (proletari) “atteggiamenti di sottomissione all’ordine costituito”. In breve, l’ideologia dominante ha bisogno della legittimazione e del consenso della classe operaia. Per Althusser, lo stato capitalista ottiene questo, attraverso gli "apparati ideologici di Stato" che sono tutte le istituzioni socializzanti: la scuola, la famiglia, la chiesa e, ovviamente, i mass media. Secondo Althusser, gli "apparati ideologici di Stato", insieme agli "apparati repressivi” (esercito, polizia, tribunali), consentono l’inculcazione dell’ideologia dominante, la sopravvivenza e la riproduzione dello stato capitalista. Quindi, lo stato capitalista, per riprodursi, si serve non solo della forza ("apparati repressivi") ma anche del potere ideologico ("apparati ideologici"): ogni stato funziona con “una mescolanza di repressione e ideologia”. I mass media, come apparati ideologici, facilitano il compito, fornendo la visione

del mondo della classe dominante. Per i teorici dell’ideologia dominante, le

idee e credenze della classe dominante sono più forti e coerenti di quelle della classe subordinata; in questo modo, "l’ideologia dominante" penetra e

capitalista che funziona contro gli interessi degli operai. In breve, la classe operaia (e oggi, genericamente, le fasce sociali a reddito medio-basso) subisce una sorta di "lavaggio del cervello" collettivo da parte della classe dominante anche grazie all’uso dei mass media.

La Scuola di Francoforte ha a lungo studiato queste tematiche, ritenendole centrali nella sua lettura complessiva della società. La civiltà industriale, tendendo a includere nel suo sistema ogni tratto dell’esistenza umana, tutti gli uomini e ogni istante di vita di ogni uomo, presto si occupa di organizzare e gestire anche il tempo libero, anche il tempo in cui i lavoratori si muovono fuori dalle fabbriche propriamente dette: nasce così l’industria culturale. Di conseguenza anche attività e manifestazioni della creatività individuale che, tradizionalmente, si proponevano in termini di spontaneità e di liberalità, vengono inglobate nel rigido schema della società industriale, della produzione e del consumo. Se la cultura diventa merce, l’industria si occupa di realizzare le tecniche per serializzarla, per incorporarla in singoli oggetti, riproducibili indefinitamente, che si possano assoggettare ad un prezzo, vendere e distruggere. Ecco che l’opera d’arte non viene più percepita come creazione astratta e immateriale, ma viene colta nelle sue trasformazioni industriali che la rendono quantificabile e smerciabile. Se pensiamo a un romanzo, dovremmo riferirci all’opera di ingegno di uno scrittore, a un’entità incorporea e astratta; ma invece ormai pensiamo esclusivamente alla sua riduzione in copie stampate e rilegate, alle sue edizioni: è diventata un prodotto industriale, l’industria ha sostanzialmente spossessato l’artista.

Attraverso questa organizzazione, il prodotto dell’industria culturale si presenta come anello finale di una catena che rimanda al potere economico-politico, alla gestione della società, che usa questi strumenti per affermarsi o per consolidarsi o per riposizionarsi.

I prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in uno stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia. Da ogni film sonoro, da ogni trasmissione radio, si può desumere ciò che non si potrebbe ascrivere ad effetto di nessuno di essi preso singolarmente, ma solo di tutti quanti insieme nella società. Immancabilmente, senza eccezione, ogni singola manifestazione dell’industria culturale torna a fare degli uomini ciò che li ha già resi l’industria culturale intera (4).

Sorgono, o si affinano, degli apparati destinati proprio a gestire, controllare o influenzare l’industria culturale. Oggi sarebbe impensabile un governo di una nazione che non sia dotato di un suo apparato che influenzi la cultura di massa, che diffonda e renda credibili messaggi e informazioni. Ma anche una forza di opposizione, se vuole avere qualche chance di sfondare e di conquistare la maggioranza in un paese, deve dotarsi di un apparato che intervenga sulla cultura (basti pensare al PCI del secondo dopoguerra, e al formidabile e penetrante sistema culturale che aveva messo in piedi, dalle sezioni di partito alle case del popolo). Diversamente si pongono, questi apparati, a seconda che siano traduzione di un potere democratico o di un regime assolutistico: più morbidi e insinuanti nel primo caso, più plateali e sfrontati nel secondo. Viene subito alla mente l’apparato di cui si era dotato il fascismo in Italia, dal Minculpop ai microfoni dell’EIAR: quel sistema puntava a fare breccia sulle menti e sui cuori, intervenendo nelle lezioni di insegnamento scolastico ma anche nella produzione di romanzi, nella realizzazione di film, nella composizione di canzoni. Questi regimi, solitamente, si dotano anche di uffici di censura: ossia di burocrazie che visionano preventivamente ogni produzione della creatività individuale, e vietano la diffusione di tutto quanto appaia loro confliggente col modello culturale monolitico che si vuole imporre e consolidare.

Nei sistemi democratici esistono ugualmente apparati deputati a controllare la diffusione della cultura; ma, non facendo blocco unico con gli apparati di polizia, devono ricorrere a strumenti più sofisticati. Dalla propaganda diretta si passa a forme di condizionamento e di suggestione collettiva più complesse e raffinate, piuttosto che imporre comportamenti vengono suggeriti, creando modelli di riferimento e indicandoli ossessivamente come gli unici adatti a condurci alla felicità, o almeno ad essere socialmente accettati. Sarebbe stata impossibile, ad esempio, in Italia, l’ascesa al potere di un partito che qualche mese prima non esisteva affatto (“Forza Italia” nel 1994) senza il lavoro preparatorio effettuato per anni dalle televisioni di Silvio Berlusconi, mediante varietà, telefilm, pubblicità, mediante una enorme quantità di messaggi che hanno raggiunto quotidianamente milioni di Italiani predisponendoli alla ricezione di un finale messaggio politico che poggiava su un immaginario condiviso, su un sistema di riferimenti simbolici e persino su linguaggi ormai fatti propri e consolidati.

Più complesso è invece definire i confini di questi apparati. Che variano a seconda della diversa intensità di spirito democratico incarnata da un sistema. L’apparato scolastico, ad esempio, quanto più uno Stato è liberale, tanto più presenta ai suoi studenti ventagli ampi di conoscenze e di prospettive, stimolandoli a dotarsi di strumenti critici; mentre nei sistemi totalitari l’apparato scolastico è obbligato a catechizzare e indottrinare. E l’accesa discussione che si trascina da anni in Italia su modi, forme e funzioni del servizio pubblico televisivo verte proprio su queste opzioni di fondo: da una televisione di Stato asservita ai partiti, ossia anello di trasmissione della cultura di chi detiene il potere, a una televisione che incarni la sua funzione pubblica in termini di utilità collettiva, di accesso aperto alle voci più diverse e minoritarie provenienti dalla stratificazione sociale, e in ultima analisi di realizzazione del “diritto alla cultura”. I

confini si ridefiniscono, Stato per Stato, lungo un segmento che ha ad un estremo lo Stato totalitario, e all’altro lo Stato liberale-libertario. Nello Stato totalitario puro i docenti e i giornalisti, come anche registi cinematografici e drammaturghi, sono funzionari di Stato, elementi dell’apparato ideologico. Nello Stato liberale puro, al contrario, docenti e giornalisti sono liberi professionisti.

La società dello spettacolo, scritto nel 1967, agli albori dell'era televisiva,

ha intuito che il mondo reale si sarebbe trasformato in immagini, che lo spettacolo sarebbe diventato "la principale produzione della società attuale". Comunismo e capitalismo, per Debord, erano solo due forme diverse di regime politico, uno basato sullo "spettacolare concentrato", proprio delle società totalitarie, e l'altro sullo "spettacolare diffuso" del consumismo. Ma anche questa bipolarità è stata sorpassata, come ha riconosciuto Debord nei Commentari alla società dello spettacolo, scritti nel 1988: siamo entrati nell'epoca dello "spettacolare integrato": è la fine della storia, il “crimine perfetto" che ha soppresso la realtà.

La rivoluzione è morta mentre lo spettacolo è diventato l’episteme del nostro tempo. Lo spettacolo ha vinto perché è in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria. Non possono esserci spettacoli ‘contro’. Da tempo le avanguardie non hanno più senso. Da tempo il dissenso non può far altro che figurare nei sondaggi, alla casella

No (5).

Lo spettacolo non è che l’ultima proiezione della merce, privata del suo valore intrinseco e ridotta a puro valore di scambio. Esso è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Il mondo reale si è trasformato in immagini. Le immagini diventano reali. La realtà

sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale.

Dal materialismo degli anni Sessanta siamo giunti alla completa smaterializzazione di oggi: in cui anche la realtà è virtuale, e quindi, spettacolare.

Nel 1988, si diceva, Debord scrive i Commentari alla società dello spettacolo (6) con cui porta avanti e conclude le argomentazione affrontate nella sua opera. In questo libro Debord identifica due forme di spettacolo, legate a due forme di regime politico: lo spettacolo concentrato, proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo spettacolo diffuso, proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo. Lo spettacolo integrato, poi, si afferma come fusione delle due forme. Nulla sfugge allo spettacolo integrato. Esso si mescola completamente alla realtà senza lasciare zone d’ombra. È, per intenderci, quanto accadde di recente quando, mentre si svolgeva la finale del festival di Sanremo, giungeva a Ciampino la salma del povero Calipari ucciso in Iraq, e Raiuno alternava i collegamenti fra le due cose al punto che il telespettatore aveva la sensazione che tutto stesse accadendo nello stesso posto, e che fra i due eventi (uno tristissimo e l’altro allegrissimo, uno reale e l’altro inventato) non vi fosse alcuna differenza.

Note

1) Cfr. M. Horkheimer e T.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, 1997, p. 14 ss. 2) H. Marcuse, Remarks on a redefinition of culture, in “Daedalus”, Boston, winter 1965. 3) L. Althusser, Lo stato e i suoi apparati, Roma, 1997, p. 47 ss.

4) Ivi, p.134.

5) G. Debord, La società dello spettacolo, Roma, 2001, p. 31 ss. 6) G. Debord, Commentari alla società dello spettacolo, Milano, 1990.

1.7 PER UNA CONCEZIONE DINAMICA DELLA CULTURA