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LE POLITICHE CULTURALI DALLA DITTATURA ALLA DEMOCRAZIA

LE POLITICHE CULTURAL

2.3.1 LE POLITICHE CULTURALI DALLA DITTATURA ALLA DEMOCRAZIA

Il regime fascista attribuì grande importanza alle politiche culturali. Prova evidente è la creazione di un apposito ministero, il Ministero della Cultura Popolare, quel Minculpop che resterà nel dibattito politico nel tempo, quale esempio nefasto di controllo, strumentalizzazione e riduzione monolitica del mondo della cultura, delle arti e della comunicazione.

Sta di fatto che la dittatura fascista riteneva essenziale alla sua conservazione la diffusione penetrante e pervasiva di un universo di valori, uno schema di comportamenti, un insieme di stili, di riti e di forme che garantissero la popolarità del regime e la sua capacità di durare nel tempo. Istituito nel 1935, il ministero della cultura popolare piuttosto che come un settore dello Stato volto a promuovere e a diffondere cultura, si presenta come un gigantesco ufficio stampa del duce. “Ogni suo storico discorso provocava la mobilitazione totale del Ministero e della stampa: le note di servizio diventavano concitate e perentorie, imponevano un’eco di parecchi giorni” (1). Se nel 1925 era stata abolita la libertà di stampa, col

Minculpop si perfezionava il meccanismo, controllando minuziosamente

tutti gli organi di stampa e trasformandoli in casse di risonanza del regime. L’apparato ministeriale è automaticamente parte dell’apparato repressivo dello Stato, la cultura viene a identificarsi con la propaganda.

Questo ruolo delle politiche culturali e del relativo apparato burocratico rientra in quella che è stata rilevata come evoluzione del fascismo dall’anarchia sistematica alla dittatura totalitaria (2). Se in un primo tempo la cultura fascista tende a identificarsi con Marinetti e D’Annunzio, con spirito modernista e amore anarcoide per le trasgressioni, in una fase

della società, fin nei ranghi giovanili, fino nel mondo dello sport e della scuola. “Libro e moschetto” diventa la parola d’ordine, e ci si avvicina molto di più al modello tradizionale delle dittature, imperniato su un controllo burocratico-militare totalizzante del territorio e dei suoi abitanti. La politica culturale fascista si caratterizza dunque per un atteggiamento interventista e regolarizzatore. Il diritto corporativo disciplina materie di cui lo Stato giolittiano si disinteressava, se non per quanto concerne l’imposizione fiscale: dal teatro al cinema, dalla musica alla danza sorgono norme e commissioni, che precisano, orientano, limitano (3).

Indicativa della nuova politica è l’evoluzione dell’istituto della censura. Fino agli anni ’30 il controllo sugli spettacoli era esercitato localmente dalle prefetture. Nel 1931 il controllo viene centralizzato, con la creazione di un ufficio centrale alle dirette dipendenze del ministero dell’interno (4). Nel 1937 la competenza passa al ministero della cultura popolare. Il regime istituì una censura unica allo scopo di razionalizzare gli indirizzi della propria politica culturale e di esercitare un controllo più penetrante sui mezzi di comunicazione. In dieci anni l’ufficio censura, diretto da Leopoldo Zurlo, esaminò 18.000 testi teatrali di autori italiani. La sentenza poteva assumere aspetti diversi: oltre alla semplice autorizzazione e al semplice divieto, sovente si concedevano autorizzazioni parziali, condizionate all’eliminazione o alla sostituzione di parti di testo con altre, evidentemente edulcorate e più gradite al regime. In sostanza fra autori e censori si aprivano vere e proprie trattative che, nel cercare punti di compromesso fra le volontà politiche e le ambizioni artistiche dei drammaturghi, di fatto costituivano un’opportunità di esercitare sulla categoria una forma continua di influenza e di controllo. C’era una grande quantità di temi che ogni testo teatrale non poteva neanche sfiorare, se non in termini di compiacente adulazione: la guerra, la patria, la figura del duce, la romanità, la bonifica, l’italianità, la sacralizzazione dell’istituto

familiare, la supremazia dello Stato, la superiorità dell’interesse nazionale sulle aspirazioni individuali. Per questa via, si imponeva un preciso messaggio di catechizzazione etico-politica, e si combattevano tutte le tendenze culturali diverse e discordanti.

Anche in campo cinematografico il fascismo operò in maniera sostanziale e rigorosa, intuendo subito l’alto grado di pericolosità che preveniva da quel nuovo mezzo di comunicazione così idoneo ad affascinare e suggestionare le folle. Il regime esercitò sul cinema un controllo censorio preventivo, impedendo del tutto la realizzazione di produzioni cinematografiche che non superassero il vaglio dell’apposita commissione (istituita prima presso il ministero degli interni, e poi presso il ministero della cultura popolare). Il fascismo predispose un sistema che garantiva l’utilizzazione del cinema in modo omogeneo agli indirizzi politici dominanti, ricorrendo anche alle leve del sostegno economico e del protezionismo a favore delle opere prodotte in Italia. La commissione, peraltro, era composta da esperti, da “madri di famiglia” e da rappresentanti del partito nazionale fascista. Il regio decreto n. 3287 del 24 settembre 1923 prescriveva che doveva essere negato il nulla osta per esportare all’estero quei film che “contenessero scene, fatti o soggetti capaci di compromettere gli interessi economici e politici, il decoro e il prestigio della nazione, delle istituzioni o delle autorità pubbliche, dei funzionari e agenti della forza pubblica, del regio esercito e della regia armata o ingenerare, all’estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese, oppure turbare i buoni rapporti internazionali”.

La legge n. 1121 del 16 giugno 1927, poi, a scanso di equivoci, sosteneva che qualsiasi film poteva essere vietato anche qualora non presentasse “sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica”. Per questa via il regime concedeva ai suoi tutori

poteva venire vietato, bastava affermare che fosse carente sul piano artistico.

Dall’infausto regime si uscì con un bagno di sangue. Le illusioni e le megalomanie del fascismo restarono sepolte sotto le macerie della seconda guerra mondiale.

La nuova Italia democratica riconobbe come suo compito essenziale quello di “defascistizzare” il paese. Dal punto di vista culturale, lo fece soprattutto rinnovando e ammodernando i programmi scolastici di insegnamento che erano infarciti di retorica nazionalista.

Il ministero della cultura popolare, invece, fu vissuto come una ferita della ragione, come una colpa di cui l’establishment culturale italiano si era macchiato. Peraltro non mancarono le polemiche su una classe intellettuale giudicata troppo debole, quando non connivente, con il regime dittatoriale. La conseguenza fu un forte orientamento nel senso della deregulation : il ministero della cultura popolare fu abolito e per parlare di un ministro della cultura (e non, più anonimamente, del turismo e dello spettacolo) in Italia sarebbero dovuti passare diversi decenni.

Note

1: L. Bortone, Il ministero della cultura popolare e la stampa asservita, “Il Ponte”, ottobre 1952, p. 1393.

2: cfr. A. Saitta, Dal fascismo alla resistenza, Firenze, 1961, p. 18 ss. 3: M. Gallina, Organizzare teatro, cit., p. 28.

2.3.2 LE POLITICHE CULTURALI