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LE POLITICHE CULTURALI DALLE ISTITUZIONI CENTRAL

LE POLITICHE CULTURAL

2.3.3 LE POLITICHE CULTURALI DALLE ISTITUZIONI CENTRAL

AGLI ENTI LOCALI

Il ruolo culturale che nel secondo dopoguerra era stato svolto dai due maggiori partiti, dalla fine degli anni settanta viene assunto in parte dagli enti locali, in parte dall’associazionismo culturale che è figlio sia dell’”immaginazione al potere” sia dell’”autogestione”, ossia delle parole d’ordine del Sessantotto.

Cos’era successo ? Intanto si era sviluppato, a livello internazionale, quel movimento di contestazione, essenzialmente giovanile ma frutto anche di elaborazioni teoriche (soprattutto la Scuola di Francoforte) che si identifica col Sessantotto, e che, nell’assegnare centralità all’azione culturale, tuttavia la sganciava da ideologie rigide e la riconduceva a una libera ricerca di valori umani universali. I giovani che si appropriavano della musica e del cinema, dell’università e delle piazze, erano marxisti ma non riconoscevano l’egemonia del PCI, erano spirituali ma non riconoscevano l’egemonia della Chiesa. E propugnavano soprattutto una rivoluzione culturale, al punto che l’autorevole gruppo di Potere Operaio sosteneva che bisognava “non prendere il potere”, ma far crescere una consapevolezza diffusa del tutto diversa, che in un certo senso portasse allo sgretolamento dell’idea di potere piuttosto che ad una sua trasmissione. Lo stesso slogan- manifesto del Sessantotto, “l’immaginazione al potere”, riassume una diversa idea della politica ma anche una diversa idea della cultura, che si nutra di se stessa e non di partiti o di idee politiche, che trovi in se stessa la sua significazione e la sua giustificazione. Alla pressione del “movimento”, poi, si aggiunge l’elaborazione di gruppi di artisti ed intellettuali, segnatamente delle cosiddette “seconde avanguardie del

Quel” in Francia. Dal “Living theatre” agli altri gruppi di teatro

sperimentale. Fino alle avanguardie nel cinema (Godard, ad esempio) e nella musica. Tutti costoro rivendicano la loro autonomia, il diritto a creare svincolati da ogni imposizione ideologica così come da ogni censura statale, e il ripensamento radicale della loro attività culturale, a partire dallo stesso codice di comunicazione.

Secondo elemento da considerare è il cambiamento di strategia politica del PCI, a sua volta conseguenza dell’evoluzione della situazione internazionale. La svolta di Berlinguer affranca il PCI dalla dipendenza ideologica (e in parte anche economica) dal PCUS e dall’Unione Sovietica, inseguendo una “terza via”, un modello politico-economico che sia diverso da quello capitalista ma anche da quello del socialismo reale, e dunque attenua l’anti-americanismo e modera il filo-sovietismo. E poi, con il “compromesso storico”, ossia offrendo una alleanza alla Democrazia Cristiana, esce dalla logica della contrapposizione frontale fra cultura cattolica e cultura comunista. Il sistema della “guerra fredda” in Italia, dunque, perde significato.

Terzo elemento è la spinta del decentramento amministrativo in Italia, che trova una prima importante affermazione nell’istituzione delle Regioni, e si sviluppa ancor più negli anni successivi, coinvolgendo Province e Comuni. Questi soggetti, nuovi o rilanciati, se nella gestione di altri settori incontrano un ostacolo pressoché insormontabile nella riserva di funzioni che si attribuisce lo Stato, trovano invece terreno libero, e fertile, nel settore delle politiche culturali. “L’istituzione delle Regioni sviluppa il dibattito sulle politiche culturali” (1).

La situazione negli anni settanta, dunque, diventa assai più fluida e, dalle due politiche culturali contrapposte, si passa a una condizione assai più complessa, in cui coesistono spinte culturali variegate e talora magmatiche,

mentre cresce rapidamente la presenza e il protagonismo di alcuni enti pubblici territoriali.

Le Regioni, nei primi anni della loro esistenza, compiono scelte differenziate. La Lombardia punta alle biblioteche, impegnandosi a ristrutturare quelle esistenti e a promuoverne di nuove. La Toscana sceglie un intervento più indiretto, decidendo di sostenere la rete dell’associazionismo culturale esistente sul territorio. Le Regioni del Sud creano (o in alcuni casi rilevano) i Centri Servizi Culturali, piccole strutture che svolgono funzione di centro di promozione culturale multidisciplinare (hanno una biblioteca, proiettano film con successivo dibattito, organizzano mostre) e sono avanguardie pionieristiche in territori che in questi ambiti lamentano un forte ritardo (2) . E i Comuni iniziano ad attivarsi sul piano culturale, promuovendo iniziative disparate secondo metodi di approccio anche molto diversi, dall’organizzazione diretta di eventi all’offerta di spazi per attività autogestite. Mancando una legislazione statale specifica, e mancando ancora un coordinamento da parte della Regione, si procede, da parte di Province e Comuni, con “progetti speciali”.

Fino alla fine degli anni sessanta la politica culturale degli enti locali era inesistente: se si vanno ad esaminare i bilanci dei Comuni, per la cultura troviamo solo espressioni tradizionali: la sagra, la banda musicale, la biblioteca fatiscente. Gli assessorati alla cultura nascono nel 1970-1971, e nel giro di quindici anni diventeranno assessorati centrali dell’azione di governo dell’ente locale (3).

Ovviamente, per farsi spazio, le emergenti velleità di politica culturale degli enti locali dovevano conquistarne su quelle che, si diceva, erano le due potenze egemoni della politica culturale in Italia, la chiesa cattolica (soprattutto nel nord-est e a sud) e il partito comunista (soprattutto in Italia

Ancora nella seconda metà degli anni Sessanta il quasi monopolio della politica culturale da parte delle organizzazioni cattoliche era un tratto distintivo della società civile padovana. In questo periodo è infatti possibile delineare con chiarezza la persistenza di una precisa divisione dei compiti tra Comune ed organizzazioni cattoliche cui veniva naturalmente delegata la gestione della politica culturale e sociale(4).

La spesa culturale cresce tra il 1975 e il 1977. Ciò è dovuto in parte all’avvento delle giunte di sinistra, in buona misura guidate dal PCI che riconosceva grande importanza alle politiche culturali, “ ma è anche vero che si era fatta avvertire una crescita della domanda. È perfino banale ricordare oggi che a tale crescita stavano da tempo contribuendo i profondi mutamenti della società italiana, quali l’innalzamento degli standard di vita, l’aumento della scolarizzazione, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, l’affermazione dell’industria culturale” (5).

Dal 1975 al 1983 la spesa dei Comuni per la cultura sale ancora vistosamente: a Roma passa da 5 a 27 miliardi, a Firenze da 5 a 14 miliardi(6). Ancora una volta, non si può trascurare il rilievo, per questo dato, che assume la formazione di diverse nuove giunte di sinistra in Comuni italiani grandi e piccoli, ma assai importante è quella spinta che viene dal basso, dai movimenti politico-culturali, dai circoli degli artisti e dell’estrema sinistra che spesso, più che essere serviti da quelle giunte, le condizionano e ne determinano alcune tendenze. “Senza il clima della prima metà degli anni 70 non sarebbero probabilmente nati, in maniera tanto diffusa, gruppi di base, circoli di quartiere, cooperative librarie, centri di animazione, teatri di base, nuovi cineclub, radio locali, e tutto quel tessuto variegato di associazioni dove sono confluiti protagonisti e seguaci di passate lotte politiche “ (7).

L’esito più visibile e chiacchierato della politica culturale degli enti locali di quegli anni passa sotto il nome di “effimero”, e l’invenzione ne viene

attribuita a Renato Nicolini, assessore alla cultura del Comune di Roma nella seconda metà degli anni settanta. Si concretizza in “estati romane” che tendono a trasformare, per uno-due mesi, tutta la città in un enorme palcoscenico, in cui si realizza una programmazione fitta e volutamente caotica, per accumulo di “materiali” di spettacolo molto diversi fra loro. Dalle rassegne cinematografiche di Massenzio, con proiezioni all’aria aperta fino a tarda notte di film che nell’insieme danno la sensazione del

pastiche linguistico, ai festival internazionali dei poeti che si tengono a

Castelporziano o a Villa Borghese. “La cultura come gioco, la morte dell’arte, il piacere del mordi e fuggi, del puro consumo, la destrutturazione dei linguaggi, il postmoderno” (8).

Se l’avvento dell’effimero viene da alcuni celebrato come un grande elemento di novità nella dimensione sociale urbana, per altri rappresenta l’antico che, mimetizzandosi, ritorna:

L’integrazione politica nella subcultura bianca aveva infatti a lungo poggiato su una legittimazione diffusa, su una delega il cui fondamento di tipo tradizionale era rappresentato dalla religione, intesa nelle sue forme istituzionali. Il disgregarsi della subcultura e delle sue capacità integrative, di cui istituzioni, associazioni e gruppi culturali cattolici costituivano uno dei vettori fondamentali, rimetterà decisamente in discussione la filosofia per anni sottesa alla gestione della politica culturale in ambito cittadino. Non è certo casuale a tal riguardo la stretta interconnessione individuabile tra la logica dell’effimero e quella del voto d’opinione; con l’attenuarsi del voto d’appartenenza, legato ad un’identità mediata dalla rete culturale cattolica, lo scambio simbolico tra le componenti del sistema subculturale non è più condizione sufficiente all’integrazione politica. Ne consegue la necessità per il sistema politico locale di fornire prestazioni utili all’acquisizione di un consenso specifico; la politica dell’effimero diviene così, nel cuore della subcultura bianca, un equivalente funzionale di quelle forme simboliche di politica culturale legate, come si è visto, prevalentemente ad una dimensione espressiva (9).

Quali che siano le valutazioni di merito sul fenomeno, sta di fatto che le politiche culturali degli enti locali attirano su di sé discussione, attenzione e centralità. “Di colpo diventano importanti gli assessorati alla cultura”(10). E la continua crescita della spesa degli enti locali alla voce “cultura” finisce col sollevare polemiche :

In vista delle elezioni amministrative del 1985 furono fatte sulla stampa illazioni a proposito di grandi cifre di bilancio e sollevate critiche sull’opportunità di questo tipo di spesa, specialmente riguardo il cosiddetto effimero al quale specialmente veniva imputato lo spreco del denaro pubblico (11).

Le scelte politiche degli enti locali, e le quantità di denaro pubblico impiegate per quelle, comunque, sono sensibilmente diverse nelle varie realtà geografiche italiane. Nelle Regioni “rosse” si nota un dibattito tutto a sinistra, fra i partiti della sinistra storica pienamente calati nella dimensione dell’effimero e la nuova sinistra che rivendica un ancoraggio delle politiche culturali alla lotta alle povertà e all’emancipazione delle classi sociali oppresse:

L’ipotesi che ha preso corpo nel corso del lavoro e che emerge dai risultati che qui presentiamo, è che ci sia stata in effetti una frattura piuttosto netta tra la domanda culturale espressa dal sociale e le scelte dell’istituzione. Una frattura che quasi sempre è parsa essere causata da una ostilità sorda, da una incomprensione degli amministratori locali nei riguardi dell’esistenza stessa di un certo tipo di aggregazione e di crescita della domanda culturale (12).

L’Italia meridionale, invece, sembra riflettere anche nelle politiche culturali dei suoi Comuni, quelle peculiarità di rapporto fra politica e vita sociale, per cui l’esponente politico appare assai più un feudatario che non un rappresentante, e le sue scelte si improntano a logiche clientelari piuttosto che a istanze portate avanti da gruppi o associazioni. Persino il

sociologo trova difficoltà ad analizzare il fenomeno: Arculeo, che nel 1986 provò a condurre ad Acireale un’inchiesta sulle politiche culturali comunali in parallelo a quanto facevano dei suoi colleghi a Padova e ad Empoli, concluse che : “Al sud è difficile ricostruire le iniziative culturali, sembrano quasi non lasciare traccia, volutamente lasciate nel vago” (13). Se il notabilato è duro a morire e la scelta delle iniziative culturali pare seguire la logica delle elargizioni del politico di turno agli amici fedeli, c’è da dire che, seppure con un certo ritardo, la new wave delle politiche culturali comunali conquista pure il sud, magari privilegiando alcune città e rinunciando a penetrare i territori interni più restii e sonnolenti. Così a Cosenza Giorgio Manacorda (assessore alla cultura della giunta di sinistra, dal 1976 al 1980) porta due rassegne del teatro italiano di post-avanguardia e altrettanti convegni, peraltro confrontandosi non senza asprezze con un vivace movimento culturale di base, che aveva prodotto cooperative di sperimentazione teatrale, cine-forum, laboratori di poesia e circoli culturali. Così Renato Nicolini, qualche anno dopo le Estati Romane, andava a fare l’assessore alla cultura a Napoli, per trapiantare là il suo

effimero. E una certa spinta, a sud, la diedero le Regioni, che erano i nuovi

soggetti che scendevano in campo anche nelle politiche culturali, fra gli enti locali. “Le Regioni nel mezzogiorno cominciano a legiferare in materia culturale nei primi anni 80, dopo 10 anni di immobilismo, cercando di assumere il coordinamento delle iniziative culturali" (14). La crescita d’importanza delle Regioni, peraltro, coincide con un dibattito su pregi e difetti del decentramento che si sviluppa a livello nazionale. La corrente federalista punta ad attribuire alle Regioni il maggior numero di competenze, e in materia culturale vorrebbe consegnarle una competenza esclusiva. Incontra però una forte dose di resistenze, da quanti ritengono che il sistema centralizzato garantisce assai di più l’autonomia della cultura

delle competenze, smarrirebbero la loro speciale considerazione. Analizzando, poi, come le Regioni spendono i soldi in campo culturale, chiare perplessità sorgono riguardo all’eccessiva discrezionalità e alla scarsa trasparenza di molte spese. C’è però un motivo a loro favore: “la crescente aspirazione alla diversità culturale, e, se si preferisce, l’attaccamento sempre più geloso alla propria identità culturale e alle proprie radici locali, che trova appunto nella dimensione regionale un momento naturale di coagulo” (15).

Inoltre, le Regioni, o almeno alcune di esse, mostrano una capacità di visione della politica culturale più ampia, più volta a perseguire finalità di lungo periodo e meno occasionale, riguardo a quanto fanno i Comuni. E dunque anche a intravedere nell’azione culturale una strategia, che, sganciandola dall’opportunità contingente, vuole diventare intervento strutturale sull’individuo e sul sociale, vuole collegarsi a un “disegno” che persegua un mondo più giusto e una emancipazione progressiva dei cittadini, attraverso lo sviluppo dei suoi diritti e la piena realizzazione della loro partecipazione alla vita pubblica. Insomma, si guarda all’iniziativa culturale come anello della catena del diritto alla cultura. È il caso della Regione Emilia Romagna, che nel suo Statuto, all’art. 3, reca:

“ La Regione opera per rendere effettivo il diritto all’istruzione e alla cultura fino ai più alti livelli, per tutti i cittadini”.

Da questo versante, il discorso sulle politiche degli enti locali va a ricollegarsi con quanto si muove e si dibatte fra le nazioni e soprattutto all’interno degli enti sovranazionali.

Note

1) G. Damiano, Progetti giovani: enti locali e nuove generazioni, Milano, 1984, p. 38. 2) Ivi, p. 40.

3) M. Caciagli, Introduzione, in A. Arculeo, C. Baccetti, A. Colasio, Governo locale,

associazionismo e politica culturale, Padova, 1986, p. 1.

4) A. Colasio, Padova, mondo cattolico, nuovo associazionismo e governo locale, op. cit., p. 37.

5) M. Caciagli, Op. cit., p. 4.

6) M. Salvati e L. Zannino, La cultura degli enti locali (1975-85), Milano, 1978, p. 79. 7) M. Caciagli, Op. cit., p. 4.

8) E. Forcella, Introduzione, in La cultura degli enti locali (1975-1985), cit., p. 9. 9) A. Colasio, Op. cit., p. 94.

10) M. Salvati e L. Zannino. Op. Cit., p. 18. 11) M. Caciagli, Op. Cit., p. 2.

12) C. Baccetti, Empoli. Nuova domanda culturale e istituzioni in una zona rossa, cit., p. 175.

13) A. Arculeo, Spontaneismo giovanile e tradizionalismo nella provincia meridionale, in

Governo locale, associazionismo e politica culturale, cit., p. 251.

14) M. Salvati e L. Zannino, Op. Cit., p. 144.

2.3.4 LA PROGETTAZIONE CULTURALE