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POLITICHE PUBBLICHE E POLITICHE CULTURALI Una politica pubblica è il prodotto dell’attività di un’autorità provvista d

LE POLITICHE CULTURAL

2.1.1 POLITICHE PUBBLICHE E POLITICHE CULTURALI Una politica pubblica è il prodotto dell’attività di un’autorità provvista d

potere pubblico e di legittimità istituzionale. Riguarda le azioni e le inazioni di una pubblica autorità, al cospetto di problemi di propria competenza.

Si presenta sotto forma di un insieme di prassi e direttive che promanano da uno o più attori pubblici.

È in sostanza un programma di governo, in un dato settore della società o in un dato spazio geografico.

Ogni concreto intervento pubblico si presume generatore di una alterazione allo stato naturale delle cose in una società, e può accompagnarsi ad uno o più effetti, o impatti(1).

Le politiche pubbliche muovono dai bisogni della gente, dai problemi di questo o quel settore, cui cercano di dare una risposta.

Gruppi di interesse e partiti politici se ne fanno interpreti, e interpellano in proposito l’autorità di governo.

Non sempre però accade davvero così: in qualche misura è vero anche il contrario, ossia che il potere politico determina, o contribuisce a determinare, i bisogni (indotti) della gente, in base a valutazioni che puntano essenzialmente alla sua auto-conservazione.

Un imprenditore politico si mobilita in funzione di scopi che variano. Cobb e Elder, superando la visione monolitica dei paradigmi marxisti (secondo cui il comportamento riflette automaticamente l’interesse di classe) e neo- liberali (per i quali il comportamento risponde prima di tutto ad una logica utilitaristica), propongono una identificazione di questi scopi più articolata e complessa. Li catalogano in quattro tipi diversi, ciascuno dei quali induce un particolare processo d’azione: uno scopo correttivo (l’imprenditore si

trarre un profitto personale in quanto imprenditore politico), uno scopo di miglioramento (il suo scopo è puro, vuole evitare squilibri, o minacce che tornino a detrimento di un’intera collettività; oppure far trionfare una ideologia o un’utopia), uno scopo di reazione circostanziale (quando avvenimenti esterni, magari una campagna di stampa, oppure un accadimento naturale, esercitino una pressione che va risolta) (2).

All’interno delle politiche pubbliche, le politiche culturali, che stanno conquistando uno spazio crescente, riguardano la tutela del patrimonio collettivo storico-artistico, la promozione della conoscenza nella società, la produzione, la distribuzione e il consumo di prodotti culturali. E, in generale, la risposta alle istanze di cultura che provengono dai cittadini. Si coglie, a tal proposito, una evoluzione che investe tutti i diritti umani: Marshall, sviluppando il concetto di cittadinanza, ne ricostruisce l’evoluzione storica attribuendo l’avvento dei diritti civili al XVIII secolo, quello dei diritti politici al XIX, quello dei diritti sociali al XX secolo: la cittadinanza, a suo parere, si riempie di contenuto e specifica la categoria di cittadino distinguendola da quello di suddito, nella misura in cui include tutti e tre questi tipi di diritti (3).

Nella lettura di Marshall, i vari diritti vengono progressivamente conquistati, ridimensionando di volta in volta l’assolutismo del potere, al termine di una “battaglia” fra il sovrano e i cittadini, che si conclude con una trattativa e una ridefinizione dei reciproci diritti e doveri. Contro il sovrano agisce l’effetto contemporaneo di una rivolta sociale e di una spinta culturale: da un lato le classi sociali emergenti rivendicano condizioni di vita, e di sviluppo economico, migliori e più razionali; dall’altro l’evoluzione del pensiero spinge per portare la legislazione materiale in linea con la maturazione delle acquisizioni teoriche, col sentire delle avanguardie intellettuali che interpretano, o presumono di interpretare, una sensibilità generale.

Quanto ai diritti sociali di cittadinanza, la loro affermazione organica in Europa si ha tra gli ultimi vent’anni dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una volta ancora, il loro riconoscimento è frutto di una partita di dare e avere. Il ragionamento che ne sta all’origine è molto semplice: come è possibile essere cittadini a tutti gli effetti, con tanto di titolarità teorica di diritti civili e politici, se, in caso di indigenza, infortuni o gravi malattie, si è abbandonati senza risorse alla propria sorte? (4)

L’affermazione dei diritti sociali avviene, nei paesi occidentali, dopo i diritti civili e i diritti politici, ma non è ovunque così. In alcuni paesi del “terzo mondo” i diritti sociali hanno preceduto quelli civili e politici, che magari non sono stati nemmeno riconosciuti pienamente. Intanto si vanno affermando quegli altri diritti (alla tutela dell’ambiente, alla salute, alla protezione degli animali, alla cultura) che alcuni politologi chiamano di “quarta generazione”(5), mentre io, rifacendomi alla terminologia predominante fra i costituzionalisti, chiamerò di “terza generazione”. I giuristi, infatti, accomunano i diritti civili a quelli politici. A prescindere dalla querelle enumeratoria, va rilevato come il concetto di cittadinanza resti sostanzialmente aperto, e si riempia di contenuto nel tempo includendo una serie crescente di diritti.

Alla crescita dei diritti di cittadinanza corrisponde una simmetrica evoluzione delle forme di Stato. L’affermazione dei diritti civili e politici è legata allo Stato liberale, che progressivamente evolve in liberal- democratico.

All’affermazione dei diritti sociali è legato lo Stato che, in genere, viene definito tout-court “Stato sociale” (6).

L’affermazione dei diritti di terza generazione, per la natura di questi diritti che, come si vedrà in seguito, si manifestano come “diritti dei popoli” piuttosto che come diritti individuali, è legata alla società della

indipendenza che trova un sostanziale confine negli interessi degli altri popoli, che vengono espressi attraverso gli organismi sovranazionali, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e anche, in parte, organismi internazionali regionali come l’Unione Europea (7). All’interno di un mondo in cui i tradizionali confini, per l’evoluzione tecnologica, non sono più realmente difendibili, le spinte sociali e delle avanguardie intellettuali puntano a far riconoscere quelle nuove categorie di diritti a tutta l’umanità, a prescindere dalle appartenenze nazionali, e a costringere gli Stati nazionali a porre in essere comportamenti idonei a rendere effettivo il godimento di quei diritti.

I fenomeni, peraltro, non sono quasi mai unidimensionali, e sovente si registrano azioni e accadimenti in controtendenza. Così non si può trascurare che la società globalizzata, accanto a spinte (ultimamente espresse dal movimento new-global) verso l’estensione dei diritti alla salute, all’ambiente e alla cultura a tutti gli abitanti della terra in qualsiasi nazione essi si trovino a vivere, ne registra altre che tendono a comprimere una significativa parte di quei diritti sociali acquisiti in occidente da oltre cento anni (8). Le aziende multinazionali tendono a trasferire le loro sedi di lavoro (dalle officine ai call-center) negli Stati in cui possono reclutare mano d’opera a condizioni economicamente più convenienti. E queste condizioni, in genere, sacrificano una serie di diritti acquisiti dei lavoratori (il limite di otto ore al giorno di lavoro, le ferie retribuite, le assenze per malattia, le assicurazioni contro gli infortuni). È il modello neo-liberista, che negli ultimi decenni si è imposto ovunque. E che, in una spirale di inseguimento frenetico dei maggiori vantaggi economici, investe progressivamente anche gli abitanti delle nazioni più ricche, in numero crescente costretti, per sfuggire alla disoccupazione, ad accettare contratti di lavoro sempre più precari e meno tutelati, e condizioni e luoghi di svolgimento del lavoro sempre più incerti e insicuri.(9)

Dunque, se da un lato in questi anni assistiamo alla massima espansione dei diritti umani e alla loro maturazione in fattispecie sempre più mature, dall’altro il modello economico dominante sospinge al ridimensionamento dei diritti a partire da quelli di più antica affermazione. In questa contraddizione si può cogliere anche un atteggiarsi della battaglia in corso, fra politica ed economia, per la conquista del potere supremo:

La supremazia che la politica reclama ha peraltro un fondamento preciso. Mentre l’economia ed il mercato ispirano azioni e comportamenti a un sostanziale criterio di valorizzazione del capitale – un criterio, quindi, di responsabilizzazione parziale nei confronti dell’interesse collettivo -, il potere politico trova la sua ragion d’essere in una legittimazione superiore (sia essa di tipo tradizionale o democratica) e persegue esplicitamente il fine del bene comune (10).

La prospettiva delle politiche pubbliche è utile per raggiungere una adeguata comprensione e rappresentazione dei meccanismi delle istituzioni pubbliche, al loro interno e nei rapporti con l’esterno, della formazione della volontà, dell’elaborazione delle strategie di intervento, del perseguimento dei risultati. Va tuttavia tenuto presente che nelle politiche culturali, se un ruolo fondamentale spetta alle istituzioni pubbliche, centrali e locali (negli equilibri che vedremo più avanti), ruoli assai importanti rivestono da un lato i “privati”, ossia l’imprenditoria culturale (sia per quanto attiene la produzione di prodotti culturali, che la sponsorizzazione di iniziative culturali), dall’altro l’associazionismo, le professionalità della cultura e dello spettacolo, gli artisti e gli intellettuali.

Note

1: cfr. P. Gibert, Fonction publique à statut et innovation, citato in Y. Meny e J.C. Thoenig, Le

politiche pubbliche, Bologna, 1996, p. 38 ss.

2: cfr. R. Cobb e C.D. Elder, Participation in American Politics, Boston, 1972. 3: cfr. T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Torino, 1976 (ed. or. 1974), p.24.

4: R. Segatori, politica, stato e cittadinanza, in A. Costabile, P. Fantozzi, P. Turi, Manuale di

sociologia politica, Roma, 2006, p. 77.

5: Così, G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna, 1992, p. 45. Così anche Segatori, Op. Cit., p. 78.

6: cfr. R. Titmuss, Social policy. An introduction, Londra, 1974.

7: cfr. R. Robertson, Globalizzazione: teoria sociale e cultura globale, Trieste, 1999 (ed. or. 1992).

8: cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, 1999 (ed. or. 1997), p.22.

9: R. Segatori, Op. Cit., p.89. 10: Ivi, p.88.