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LE POLITICHE CULTURALI DAI PARTITI AL GOVERNO

LE POLITICHE CULTURAL

2.3.2 LE POLITICHE CULTURALI DAI PARTITI AL GOVERNO

La politica culturale, nel secondo dopoguerra, in Italia, piuttosto che dallo Stato, è stata pensata, organizzata, gestita dai partiti. E segnatamente dai due partiti maggiori, la democrazia cristiana e il partito comunista, che disponevano dell’organizzazione capillare sul territorio che rendesse possibile una simile impresa. Il partito comunista la curava attraverso le sue sezioni, prima, e poi attraverso la rete delle case del popolo, ma anche mediante organismi molto vicini al PCI, quali l’ARCI (che organizzava tante cose, dalle sale da biliardo al cine-forum), la FGCI (la federazione dei giovani comunisti) e la stessa CGIL. La DC la curava attraverso le parrocchie, e le organizzazioni religiose come l’Azione Cattolica. Se si parla, per quegli anni, di due grandi filoni culturali dominanti, quello cattolico e quello comunista, lo si deve proprio al lavoro certosino e capillare di questa organizzazione sul territorio, che, trascendendo dagli aspetti specificamente religiosi e politici, punta a fornire ai suoi aderenti un universo di pensiero di riferimento, ad assisterli con libri e film, prediche e lezioni, fino a curare il loro tempo libero. Gli altri partiti, le altre organizzazioni, non hanno sistemi organizzativi paragonabili, e dunque la loro influenza culturale è minoritaria.

È nota la centralità che il partito comunista annette alla questione culturale. Da Gramsci in poi, la formazione del popolo, e la presa di coscienza, attraverso studi e approfondimenti, della realtà storico-sociale, sono ritenuti elementi salienti del processo di emancipazione del proletariato in vista della rivoluzione, componenti indispensabili che devono precedere l’azione politica vera e propria. Che il popolo sia stato tenuto in condizioni di ignoranza non è casuale, ma è parte di una strategia, propria della

Allora, l’opera di formazione culturale diviene essenziale, e determina il cambiamento. Semmai, su questa impostazione di fondo si innesta una polemica, dura e sostanzialmente irrisolta, sul ruolo dell’intellettuale: se questi debba essere “organico”, ossia svolgere un ruolo nobile ma semplicemente strumentale, per condurre le masse all’emancipazione secondo tempi e percorsi già definiti e sostanzialmente guidati dal partito; oppure se egli sia “libero”, e possa mettere a disposizione del popolo il suo ingegno e la sua creatività senza doversi attenere a percorsi prestabiliti. Tutta la questione del "realismo socialista”, dell’imposizione dell’arte di Stato fino alla persecuzione dei dissidenti e ai Gulag, si genera da questa contraddizione; ma anche, in Italia, la linea di Togliatti e una serie progressiva di intellettuali dissidenti che escono o vengono cacciati dal PCI (1).

Sono due, comunque, gli “avversari” che la politica culturale del PCI riconosce e addita ai suoi adepti: l’americanismo e la cultura cattolica. E lo fa tuttavia in maniera indiretta, suggerendo un modo proprio e alternativo di stare insieme, un sistema di valori aggreganti, lasciando in secondo piano la comunicazione diretta, la trasmissione della propria ideologia: le case del popolo negli anni sessanta sono luoghi in cui si balla e si gioca a carte, e in cui solo ogni tanto si organizzano dibattiti politici (2).

Il blocco Democrazia Cristiana – Chiesa cattolica risponde con un sistema organizzativo meno rumoroso, più discreto, ma ancor più capillare, che propugna valori in larga parte contrapposti. Il comunismo viene identificato con il Male, si attribuisce al PCI una volontà di distruggere la chiesa e di vietarne il culto, oltre che di privare le famiglie dei beni faticosamente accumulati, e di imporre un libertinismo sessuale. Anche in questo caso, più che la propaganda diretta funziona la pretesa di “occupare le menti” dei suoi adepti, organizzando il tempo libero e alternando con equilibrio preghiera e gite, lezioni e spettacoli. “Attraverso le direttive

papali in materia di audiovisivi: cinema, radio, televisione, e attraverso le varie forme di censura praticate ai vari livelli in armonia con quelle direttive, la cultura cattolica riuscì a stabilire una propria egemonia su larghi settori del paese” (3).

Dunque, due egemonie, specularmente alla guerra fredda in atto nel mondo, si contrappongono in Italia e si contrastano fra di loro dividendosi gli adepti; fino a quando, all’inizio degli anni settanta, una serie di fattori fanno crollare questa impostazione, e portano all’affermazione di modelli di politica culturale più liberi e che, invece che imporre modelli e sistemi di pensiero, si pongono nell’ottica di spingere le persone a sviluppare autonomamente le proprie potenzialità, stimolando spirito critico e partecipazione (4).

Quanto al governo, il pregiudizio negativo nei confronti del ministero della cultura popolare dell’epoca fascista ha condizionato le scelte, al punto che per decenni non è esistito in Italia un ministro della cultura, e si è preferito abbinare i beni culturali e lo spettacolo al turismo, piuttosto che all’istruzione e alla ricerca scientifica. Insomma lo Stato ha preferito disinteressarsi delle politiche culturali, per pagare pegno rispetto a quegli anni caratterizzati da un interventismo dirigista, propagandistico e demagogico. Di questo atteggiamento si sono avvantaggiati i partiti, che nelle politiche culturali hanno potuto fare la parte del leone. A partire dagli anni settanta, tuttavia, l’impegno in prima persona del governo nei confronti delle politiche culturali cresce costantemente, anche se, come si vedrà, soffrirà di una agguerrita competizione da parte degli enti locali. Va precisato inoltre che, se il governo centrale si occupa poco delle politiche di intervento culturale, non trascura invece il suo ruolo nelle politiche culturali di “conservazione”. Dunque controlla e organizza tutto il settore dei beni artistici, storici e architettonici: dai musei alle pinacoteche, dalle

questo fine destina una piccola parte del bilancio dello Stato, e un certo numero di pubblici impiegati.

Note

1) Cfr. C. Salinari, Due interventi di politica culturale, Matera, 1988. 2) G. Bechelloni, Politica culturale e regioni, Milano, 1972, p. 42. 3) Ivi, p. 45.

2.3.3 LE POLITICHE CULTURALI