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CULTURA D’ELITE E SUBCULTURE; LA POP CULTURE E I CULTURAL STUDIES

Articolo 14 Ogni popolo ha diritto alle proprie ricchezze artistiche, storiche e culturali Articolo 15 Ogni popolo ha diritto a che non gli sia imposta una cultura ad esso

1.5. CULTURA D’ELITE E SUBCULTURE; LA POP CULTURE E I CULTURAL STUDIES

Il problema del rapporto con la società acquista un’importanza più rilevante quando ci si colloca dal punto di vista del significato “parziale” del concetto di cultura. In questo caso il contributo del marxismo appare particolarmente significativo, ancorché esso si sia manifestato più a livello di analisi concreta che in sede puramente teorica. Nel periodo tra le due guerre, e poi a partire dagli anni Cinquanta, l’interesse per i ceti intellettuali e la loro funzione storica ha proposto al pensiero marxista la considerazione della cultura e dei rapporti tra cultura e classi sociali. Il problema dei rapporti tra cultura e società è così venuto a configurarsi nella veste specifica di un’analisi della stratificazione sociale dei fenomeni culturali e quindi della loro origine di classe. A tale scopo riveste particolare importanza la distinzione formulata da Gramsci nei Quaderni

dal carcere (1), tra ceti egemonici e ceti subalterni, considerati portatori di

tradizioni culturali differenti. Il rapporto di dominio-subordinazione esistente tra le diverse classi sociali – con la polarizzazione dicotomica che la struttura di classe comporta, secondo lo schema marxiano – viene assunto come base per la spiegazione delle diversità culturali che si riscontrano all’interno di una società. Da una parte i ceti egemonici appaiono portatori di una cultura “superiore”, fondata sul possesso di determinati strumenti di elaborazione concettuale; dall’altra i ceti subalterni appaiono i portatori di un’altra cultura, cioè di una cultura “inferiore” che si oppone alla penetrazione dei modelli proposti dai ceti egemonici. Anche Lombardi Satriani ha riscontrato queste caratteristiche

Nella cultura popolare calabrese è dato rintracciare alcune tecniche di ricomposizione simbolica e difesa contro le spinte disgregatrici e contro il dominio esercitato sulla classi subalterne (2).

Un’impostazione di questo genere riconosce quindi la capacità di produzione culturale anche ai ceti che non sono élite; e alle manifestazioni espressive e comunicative di tutte quelle categorie sociali tradizionalmente escluse da tutta, o da alcuni livelli, della cultura “alta”, concede uno statuto e una dignità di “cultura”. Lungo questa strada l’idea unitaria, e necessariamente assolutistica e totalizzante, di cultura, si sfalda: al suo posto ora subentrano “le culture”, che potranno essere diverse, più o meno valide, più o meno qualificate, più o meno sofisticate, ma comunque tutte ugualmente come culture vengono riconosciute e apprezzate. Ed è attraverso questa “falla”, irreparabilmente aperta nella concezione della cultura “una e indivisibile”, che si inoltra e si fa spazio il filone dei

Cultural Studies, che si afferma in Gran Bretagna a partire dal 1960 e poi

emerge negli Stati Uniti nel 1980, ma anche, seppure con sostanziali modifiche metodologiche e soprattutto teoriche, si espande in anni recenti in paesi non anglosassoni, dalla Germania all’Italia.

I Cultural Studies lavorano proprio sulle differenze fra culture, a partire da quella tradizionalmente ispirata da Marx, fra classi, fra borghesia e proletariato, fra cultura borghese e cultura popolare, per approdare a studi e configurazioni di altre “categorie”, dalle donne ai gay, dagli indigeni agli immigrati. Naturalmente la definizione di cultura cui fanno riferimento i

Cultural Studies è ulteriormente modificata, e guarda essenzialmente a

quell’universo di comportamenti quotidiani e valori riconosciuti come tali che, nell’ambito di un insieme di persone, consentono di costruirne e renderne percepibile, all’interno e all’esterno, una identità. Ci si rifà essenzialmente al whole way of life di cui parlava Raymond Williams, alla

cultura come intero stile di vita, come modalità di interpretazione delle nostre esperienze comuni (3).

Partiti dallo studio della letteratura e della lingua, i ricercatori di questo filone presto estendevano il campo della loro osservazione a tutti quei modi di essere, quegli atteggiamenti, quei comportamenti della vita quotidiana che consentono di soppesare, cogliere e identificare la cultura popolare. E da qui alle culture delle minoranze, di quelle categorie sociali le cui specificità si riflettono, e sono riflesse, dal loro patrimonio culturale.

La cultura è qui definita espressamente come modo di vivere che si esprime tanto attraverso le istituzioni e il comportamento nel quotidiano, quanto attraverso l’arte e la letteratura (…) L’analisi della cultura diventa analisi sociale (4).

Se lo schema marxiano classico scindeva la presunta unitarietà della cultura in un rigido dualismo, da una parte la cultura dell’élite al potere, dall’altra la cultura del popolo, negli ultimi anni le culture considerate non sono più due, ma tante. E si pone semmai il problema di una frammentazione eccessiva, di una polverizzazione dell’antica “cultura” in tante, infinite subculture. Il tratto distintivo non è più la classe sociale, ma le generazioni, il sesso, le religioni, le nazionalità, infine le identità locali. Si parla di una cultura rap e di una cultura hip-hop, di una dark e un’altra

funky; ma anche di una della East Coast e un’altra della West Coast, e

infine di una diversa, specifica, pressoché per ogni quartiere delle odierne metropoli.

Lo studio di ciascuna di queste subculture, peraltro, presenta notevoli difficoltà; anche dovute al fatto che, servendo queste a consentire una autodefinizione identitaria per i singoli soggetti che vi aderiscono o si

fungibilità non ne vanifichi la valenza su quel piano. Ognuna ha un suo slang e dei suoi rituali, nonché dei segni esteriori di riconoscimento. Peraltro questi studi non hanno soltanto una importanza teorica: la loro efficacia sul campo è data poi dalla capacità di conoscere i problemi e le pericolosità sociali che maturano all’interno di singole subculture (dal razzismo alla violenza di banda), e di saper suggerire antidoti e possibilità di ricomposizione.

Per i propugnatori dei cultural studies, la cultura si riproduce nella vita dei soggetti concreti, e da questi viene costantemente riformulata e innovata. Così concepita, la cultura è patrimonio di ogni gruppo sociale, e si apre la possibilità di considerare oggetti propri di una sociologia della cultura non solo le "visioni del mondo" espresse dalla filosofia, dalle religioni o da certi insiemi di norme o valori, ma anche ciò che si esprime negli stili di convivialità o nei gusti alimentari, in film popolari e in riviste, nel giocare a calcio o nell'ascoltare musica insieme (5).

Interessati a studiare fenomeni che difficilmente le statistiche ufficiali censiscono, gli studiosi di Birmingham sono innovativi nei propri metodi di ricerca. Infatti, prediligono strumenti come l'osservazione partecipante o il resoconto etnografico. Ciò è evidente soprattutto a partire dalla fine degli anni settanta, quando l'interesse di questi autori si concentra sul ruolo dei media nella vita quotidiana e sugli stili di consumo che ad essi sono associati.

Questi approfondimenti li conducono a negare l'idea che quella attuale sia una società omogenea e "di massa": sia nel senso che le differenziazioni permangono (o se ne creano di nuove), sia e soprattutto nel senso che i destinatari della pubblicità, dell'informazione e di ogni altro prodotto dell'industria culturale non costituiscono "masse" passive, ma "pubblici" attivi e capaci di interpretare e combinare in modi diversi la varietà di messaggi a cui sono esposti.

Il punto è che il consumo dei media è un processo attraverso cui individui e gruppi trasformano determinate offerte in risorse per la propria vita. È una parte della vita quotidiana. L'ambiente complessivo dei soggetti ne è modificato, ma i media stessi acquistano un senso che va al di là del mero significato dei testi che veicolano (6).

Questa capacità di cogliere la cultura in senso dinamico, e di scorgervi tensioni e conflitti, fermenti e contraddizioni, mi appare un suggerimento particolarmente interessante. Unitamente alla diligenza di calare il discorso sulla cultura nell’osservazione dei comportamenti quotidiani, dando così, peraltro, senso e motivazione alla riflessione sulle politiche culturali, e sulla loro straordinaria capacità di incidere da un lato sui movimenti globali, ma dall’altro sulle singole esistenze individuali.

Note

1: A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, 2001.

2: L.M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Un villaggio nella memoria, Roma, 1987, p. 31. Si veda anche L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Napoli, 1974.

3: cfr. C. Lutter e M. Reisenleitner, Cultural Studies. Una introduzione, Milano, 2004, p. 6. 4: Ivi, p. 21.

5: Il Center for Contemporary Cultural Studies venne fondato a Birmingham nel 1964. Il suo primo direttore fu Richard Hoggart. Al suo fianco, vanno ricordati Raymond Williams, Edward Palmer Thompson e, di poco più giovane, Stuart Hall.

1.6.L’INDUSTRIA CULTURALE E GLI APPARATI