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3. LA SOCIETAS LUOGO DI RIPARAZIONE E SOLIDARIETA’

3.2 D EMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE SOCIALE

Il nostro lavoro, partito dalle teorie socio-politiche su cui si poggia l’idea del nostro attuale ordinamento istituzionale, è proseguito con l’analisi critica del concetto di sanzione, parte fondamentale della norma e quindi della convivenza civile (nel senso di comunione di civitas). Dalla critica della pena detentiva si è dunque focalizzata l’attenzione sull’ipotesi/possibilità di trovare una strada alternativa–complementare–sussidiaria alla giustizia giurisdizionalizzata, una strada che riconduca la giustizia (tra le parti) nell’alveo di una partecipazione più diffusa e sentita. Ora ci troviamo a fare i conti con un salto ardito, ma non per questo illogico o stravagante: la possibilità di fondare, sull’esempio partecipativo delle giustizie riparative, un senso di cittadinanza “preventiva”, in cui la socializzazione e la condivisione non sono confinate al solo momento della

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Tesi di dottorato in Scienze sociali, indirizzo Scienze della governance e sistemi complessi. XXVI ciclo. Università degli studi di Sassari

risoluzione dei conflitti, ma possono precedere tale momento, diventando cifra relazionale che garantisca ai consociati benessere, percezione di sicurezza e aspettativa di cooperazione nel bisogno.

Si tratta, dunque, di rioccupare porzioni di vita consociativa con un senso di una partecipazione diffusa, in cui gli individui, lontani dall’ignoranza (non sapere), sperimentano in via diretta una conoscenza, non tecnica ma almeno informativa, che non è più funzionale solo al mero esercizio del voto (ma è democratico un governo eletto da persone che ignorano?), quanto piuttosto capace di tradursi in azione diretta per lo sviluppo di vere democrazie locali.

É, in fondo, un altro modo di pensare la democrazia, lontano dagli intendimenti attuali in cui la marginalità popolare (del popolo) è lo stratagemma su cui si impianta un governo effettivamente oligarchico, mascherato da democrazia elettiva rappresentativa.

Nel suo illuminante saggio “La democrazia degli antichi e dei moderni”, Moses Finley (1972) espone questa idea con dovizia di considerazioni storiche, culturali e antropologiche. Per questo autore, a fondamento di ogni studio politologico deve esserci la domanda “chi decide e in che modo?”. Rifacendosi agli albori della democrazia ateniese (non dimentichiamolo, alla base anche delle teorie politiche di Thomas Hobbes, su cui abbiamo dissertato nel primo capitolo), Finley mostra come ad Atene democrazia (potere del/nel popolo) e isegoria (diritto universale di parlare nell’Assemblea) coincidessero, al punto da permettere ad ogni cittadino (maschio, le conquiste egalitarie tra sessi dovranno aspettare duemila anni e attraversare molte forme di governo e molte altre finte democrazie) di sviluppare la concreta possibilità di diventare un giorno presidente della Assemblea.

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Non sfugga un’ulteriore questione al riguardo: il fattore temporale nell’antica Grecia assumeva un ruolo decisamente più sostanziale rispetto a quanto non avvenga e sia avvenuto nei nostri contesti di attualità. Ad Atene le cariche politiche erano ad orologeria, con ricambi frequenti e con una distribuzione orizzontale delle responsabilità (molte) e dei (privilegi (pochi) tra tutti i consociati, con poco influenti sacche di esclusione. Oggi le nostre istituzioni sono spesso abitate da uomini e donne che si incardinano nelle funzioni politiche, confondendosi in esse. E tale sistema assume contorni tanto più allarmanti quanto più la base elettorale accetta culturalmente questa dimensione, assegnandole anche un nome, quello di “classe politica” che da solo spiega il ripiegamento oligarchico di cui si è fatto cenno all’inizio.

Correndo il rischio di una apologia dei tempi ellenici, vogliamo qui sottolineare il tratto qualificante della forma di governo ateniese. Quella era una democrazia diretta, non rappresentativa, in questo senso: ogni cittadino poteva partecipare all’Assemblea sovrana e, ad eccezione di alcuni addetti (schiavi di proprietà dello Stato che curavano le registrazioni indispensabili, come copie di trattati e di leggi, etc.), non esisteva alcuna forma di burocrazia. Il governo era “del popolo” nel senso più letterale dell’espressione. L’Assemblea, che aveva la parola definitiva sulla guerra e sulla pace, sulla finanza, sui trattati, sulla legislazione, sulle opere pubbliche, in breve sull’intera gamma dell’attività governativa, era una riunione di massa all’aperto di tutte quelle migliaia di cittadini di età superiore a 18 anni che in un dato giorno desideravano parteciparvi. L’Assemblea si riuniva frequentemente nel corso dell’anno, almeno quaranta volte, e di norma raggiungeva la decisione sull’argomento all’ordine del giorno con un dibattito che si concludeva nell’arco di una sola giornata, con possibilità aperta a chiunque di salire sulla tribuna ed esporre il proprio pensiero nel merito.

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Si potrebbe dire che oggi il rinnovato interesse per le autonomie locali, per il decentramento e per la localizzazione dei bisogni e degli interessi sono tutti movimenti che vanno nella direzione di una apertura al consesso/consenso popolare. Ma la vera differenza tra Atene antica e i nostri tempi risiede nel fatto che l’Assemblea ateniese era la titolare delle linee di indirizzo politico della Polis, mentre oggi le linee generali della politica sono ancora dettate dalla ristretta cerchia dei politici professionisti, la cui pervicacia nel mantenimento della “carica” richiama l’inamovibilità dei vescovi del Concilio Vaticano II e contribuisce in maniera corposa allo scollamento tra la ricerca del benessere collettivo e il raggiungimento dei benefici di pochi.3

Come dunque recuperare la possibilità di democrazie diffuse, anche partendo da esperienze locali, per poi giungere ad una contaminazione globale?

L’utopia di una partecipazione generalista, dati i numeri attuali a fronte di un corpus civile (demos) – quale quello dell’Atene antica – decisamente più ristretto – può trovare una efficace mediazione nel tentativo di costruire esperienze di collettività anche svincolate dalla necessità conciliativa (come accade nelle giustizie riparative) e capaci di realizzare forme di autogoverno che - pur nei confini della legislazione nazionale, e quindi evitando le sacche dell’autarchia – portino i cittadini a vivere reali esperienze di cittadinanza attiva e consapevole, affiancata da strategie di mutuo consenso e vicendevole controllo sociale, più efficace perché scaturente dai medesimi soggetti, titolari ad un tempo del diritto di espressione e del dovere di sovrintendere alla buona riuscita del sistema.

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Il tentativo da tempo in atto nel nostro paese di ridurre il numero dei componenti del Parlamento, giustificando tale scelta con il bisogno di ridurre i costi della politica, appare francamente privo di fondamento democratico, laddove il restringimento del numero dei rappresentanti elettivi determinerebbe un ulteriore affievolimento del mandato popolare e indirizzerebbe la politica verso una progressiva scelta di aristocrazie potendosi i costi abbattere con ben altre scelte di tipo qualitativo, le quali sempre l’antica Atene è in grado di suggerirci.

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