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2. GIUSTIZIA PUNITIVA E GIUSTIZIE RIPARATIVE

2.5 G LI OBIETTIVI DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA

Un’interessante classificazione degli obiettivi della giustizia riparativa (Mannozzi, 2000) è quella che, partendo dal quesito fondamentale della giustizia tradizionale: “chi merita di essere punito?” e “con quali sanzioni?”, affronta poi il diverso interrogativo della giustizia riparativa: “cosa può essere fatto per riparare il danno?”.

È necessario essere consapevoli che la riparazione, oltre a non essere sovrapponibile al concetto di risarcimento, deve essere preceduta da un percorso di “mediazione/riconciliazione” e deve implicare il riconoscimento, da parte del reo, della propria responsabilità e della dimensione globale del danno arrecato alla vittima.

Con queste premesse, l’accennata classificazione si fonda sulla dicotomia tra obbiettivi endo- sistematici (a destinatario specifico/individuale) e obbiettivi eso-sistematici (a destinatario generico/collettivo). I primi incidono prevalentemente sulla fisiologia del sistema penale, cioè sul funzionamento dei suoi meccanismi interni e/o sui soggetti che il sistema penale stesso incardina in ruoli predefiniti dal diritto, come la vittima o il reo. I secondi prendono in carico soprattutto interessi esterni al funzionamento del sistema penale nelle sue articolazioni strutturali, riconducibili essenzialmente al contenimento della devianza e degli effetti dannosi della criminalità.

Tra gli obbiettivi endo-sistematici, possono esserne riassunti tre fondamentali: il riconoscimento della vittima, la riparazione del danno nella sua dimensione globale, l’autoresponsabilizzazione del reo.

Il riconoscimento della vittima: nella giustizia riparativa la condanna del colpevole e la commisurazione di una pena dosata in base alla gravità del fatto commesso (oppure al bisogno di risocializzazione del suo destinatario) lasciano il posto all’esigenza di riconoscere primariamente la

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Tesi di dottorato in Scienze sociali, indirizzo Scienze della governance e sistemi complessi. XXVI ciclo. Università degli studi di Sassari

sofferenza insita in ogni esperienza di vittimizzazione. in tal modo agli occhi del reo la vittima cessa di apparire come un “oggetto impersonale”, per divenire “persona”, con il suo vissuto di sofferenza, insicurezza e umiliazione.

La riparazione del danno nella sua dimensione globale: riparare il danno nella sua globalità significa capire non solo la sofferenza economica della vittima, ma ancor prima quella fisica e psicologica. La strategia riparativa deve essere adeguata a tutti gli aspetti del danno subìto (Ceretti e Rossi, 1999). La dimensione psicologica del danno può essere gestita utilmente solo se la risposta istituzionale viene integrata con strumenti diversi, basati sull’incontro, sul dialogo, sul riconoscimento reciproco di autore e vittima, fattori che tra l’altro conducono a soluzioni riparative simboliche prima che materiali (Mannozzi, 2001).

L’autoresponsabilizzazione del reo: la grande attenzione per la vittima – rispetto a quanto non accada nella giustizia tradizionale – non marginalizza il reo. Questi continua ad essere un co- protagonista nella gestione del conflitto, dato che la riparazione passa necessariamente attraverso una attività positiva del reo stesso. Ogni tentativo di avviare mediazioni o di promuovere concrete riparazioni si fonda sul consenso dell’autore del reato, per poi snodarsi lungo un percorso mirato il cui obbiettivo è l’elaborazione da parte del reo del conflitto e delle cause che lo hanno originato (su questo ultimo punto sentiamo di assumere una posizione critica, che meglio esprimeremo nel paragrafo dedicato alla mediazione penale); gli altri due obbiettivi sono il riconoscimento della propria responsabilità e l’interiorizzazione della necessità di lenire la sofferenza altrui. In questo ambito appare suggestivo e ricco di stimoli il richiamo al concetto di agentività umana, cioè la capacità dell’individuo di intervenire in senso causale sulla realtà. È questo il significato di una mente “proattiva”, di un individuo che agisce sia sul proprio mondo interno sia sull’ambiente, trasformando entrambi; lo fa non solo a partire dalle sue precondizioni (la sua storia, le sue

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caratteristiche di personalità) ma, e soprattutto, in funzione delle sue anticipazioni (De Leo e Patrizi, 2002). L’agentività, che assume in sé le capacità di simbolizzazione, di anticipazione, di apprendimento, di autoriflessione e di autoregolazione, si abbina al concetto di responsabilità ecologica (Patrizi, 2011) e trova nella giustizia riparativa un’area di intuitiva applicazione, convocando il reo e la società al tavolo della rimodulazione delle azioni, delle reazioni e dei vissuti, in un’ottica promozionale e di co-costruzione relazionale.

Gli obiettivi eso-sistematici hanno di solito una fascia di destinatari più ampia che va da piccoli gruppi sociali a intere comunità, potendo arrivare alla generalità dei consociati. Anche tra gli obiettivi eso-sistematici se ne possono individuare tre principali: il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione, l’orientamento delle condotte attraverso il rafforzamento degli standard morali, il contenimento del senso di allarme sociale.

Il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione: la comunità interessata può essere sia destinataria di politiche riparative, sia promotrice del percorso di pacificazione che trae origine dall’azione posta in essere dall’autore del reato (Marcus, 1996). In un conflitto “istituzionalizzato”, le dinamiche sociale e comunitarie resterebbero bloccate; “nella prospettiva regolativa/comunitaria la vicenda della singola vittima non trova risposte unicamente in termini di servizio, ma diventa l’occasione per attivare una responsabilizzazione della collettività nei confronti degli aspetti della questione criminale – quali l’efficacia del controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, l’incidenza delle politiche preventive dell’ente locale, gli effetti dell’attività trattamentale penitenziaria, etc. – che l’evento della vittimizzazione mette in luce” (Pisapia, 1995).

L’orientamento delle condotte attraverso il rafforzamento degli standard morali: in un modello di giustizia di tipo evolutivo l’opzione criminale nasce come “conflitto” e si trasforma in “consenso”

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(Paliero, 1992); gli strumenti del consenso non sono le sanzioni ma la gestione comunicative e comunitaria del conflitto e la promozione di concrete attività riparative. Il rafforzamento degli standard morali collettivi è una funzione accessoria ma non per questo secondaria; perché essa abbia successo è necessario che vengano portati a conoscenza della comunità sia il processo che porta alla riparazione, sia gli esiti concreti di questa. Occorre altresì che la collettività, chiamata in causa dalla commissione di un reato, consideri il reato medesimo in una prospettiva ecologica, come problema che nasce nella collettività e che al suo interno deve essere affrontato (Resta, 1997); è la comunità stessa che si fa carico del problema della devianza, partecipando attivamente alla ricomposizione del conflitto provocato dal reato (Giuffrida, 2005), anche attraverso l’attivazione di una catena di responsabilità intesa come progettazione di interventi capaci di coinvolgere la societas nel problema gestionale della devianza (Patrizi e De Gregorio, 2009).

Il contenimento del senso di allarme sociale: la commessione di un reato ha spesso come conseguenza immediata l’emersione di un diffuso allarme sociale e l’aumento del senso di insicurezza dei cittadini. La risposta istituzionale, con i suoi meccanismi complessi si attivazione, la sua lentezza procedurale e l’incertezza dell’esito, spesso non riesce a soddisfare il bisogno collettivo di sicurezza (il pensiero corre ad alcuni eclatanti fatti di cronaca che per anni – attraversando i diversi gradi di giurisdizione – non sono giunti alla definitiva conclusione relativamente all’accertamento di responsabilità in capo ad un soggetto). Assicurare alla comunità il potere di gestire, almeno in parte, i conflitti che si verificano al suo interno significa dunque restituire alla comunità la capacità di esercitare controllo su certi accadimenti che hanno un impatto significativo sulla percezione di sicurezza dei consociati e/o sulle loro abitudini di vita; in sostanza, significa contenere e ri-dimensionare la percezione di rischio sociale.

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