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3. LA SOCIETAS LUOGO DI RIPARAZIONE E SOLIDARIETA’

3.5 S OCIOLOGIA DELLA PARTECIPAZIONE E DELLA CITTADINANZA ATTIVA

Il concetto di responsabilizzazione, intuitivamente attinente alla sfera intrapsichica del soggetto, di fatto dispiega la sua valenza nella relazione che ogni individuo intrattiene con altri individui, essendo l’interazione un processo diadico e vicendevole tra aspettativa ed esito, tra impegno e restituzione, tra introiezione ed esternazione.

Per esternare abbiamo bisogno di un altro, sia esso schermo, sia esso specchio (Andolfi, 1994; Pisano, 2009). Ognuno di noi ha bisogno di destinatari della propria comunicazione (una comunicazione senza destinatari è cortocircuitata, scientificamente ascrivibile alla seconda cibernetica, ma sostanzialmente anodina). Ognuno di noi è anche destinatario della comunicazione di qualcun altro, almeno uno. È nella rete fitta e complessa delle relazioni che affianchiamo all’animalità la socialità, disponendoci per l’altro (altruismo) o perlomeno con l’altro (prossimità). L’utopia del villaggio globale muove le mosse dal suggerimento kantiano del considerare l’altro sempre quale fine e mai come mezzo. Si tratta di un’utopia davvero tale o piuttosto la sconfitta dell’ideale davanti allo strapotere del numero? L’approccio universalistico ha troppe spinte contrarie (differenze di razza, sesso, cultura, tradizione, spiritualità) per poter superare lo scoglio di un sistema ipertrofico nella produzione di specificità (linguistiche, territoriali, climatiche).

55 Cecilia Sechi. Conflitto e riparazione: la promozione di una comunità relazionale. Il progetto “Condominio

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Tesi di dottorato in Scienze sociali, indirizzo Scienze della governance e sistemi complessi. XXVI ciclo. Università degli studi di Sassari

Ma l’idea della comun(icaz)ione, cioè di una comunione di individui basata sulla comunicazione (delle idee) può essere prodotta in scala nelle singole realtà, procedendo poi alla connessione delle nuove unità così determinatesi. È processo analogo a quello delle pòlis, splendide monadi (ci si perdoni l’anacronismo leibniziano) in cui la “perfezione” comunitaria ha retto per lungo tempo alle insidie delle spinte egemoniche e totalizzanti.

Peraltro l’esperimento di costruzione di comunità comunicanti e comunicative non persegue – almeno non da subito – l’obiettivo di costruire partecipazione preminentemente politica, quanto piuttosto una membership in cui partecipare significa “appartenere a”, contare qualcosa per sé e per gli altri, leggersi anche come titolo di un paragrafo e non solo come nota di commento.

Qualcosa di diverso del concedere ad ognuno 15 minuti di popolarità (Wharol, 1980). Piuttosto, l’affermazione sana dell’individualità come strumento collettivo.

Allora, rispetto al titolo di questo paragrafo, dobbiamo fare un passo indietro: prima che la sociologia della partecipazione, dobbiamo indagare la sociologia della comunità. In questa ottica dobbiamo subito distinguere tra la visione della sociologia classica e la visione della sociologia contemporanea.

La prima definisce come comunità un tipo particolare di relazioni sociali poste alla base di collettività che coinvolgono l’individuo nella sua totalità: il termine evoca le piccole comunità di villaggio, ma rimanda anche alla comunità nazionale, comprende la famiglia ma anche qualsiasi unità sociale in condizioni di alta integrazione; arriva infine a definire, in forma tipica, la società tradizionale che ha preceduto quella moderna.

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La sociologia contemporanea, invece, utilizza il termine comunità come sinonimo di comunità locale. È famosa al riguardo la teoria del sistema sociale, per la quale il concetto di comunità indica solo quel tipo di collettività “i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere” (Parsons, 1965).

Non dimentichiamo lo spessore filosofico del contributo di chi ha messo in discussione il “luogo antropologico” e quindi “sociologico”, costruendo un ragionamento pseudo-zenoniano di erosione dei luoghi “ideali” (che stanno nell’idea dell’osservatore) e di ricognizione di “non luoghi” (Augè, 1992), giungendo peraltro a riconoscere che i non-luoghi sono i crocevia della non comunicazione, mentre i luoghi sono l’esito di individui che si accostano, fanno del sociale e si organizzano.

Dobbiamo tuttavia porci, nel nostro lavoro, in un’ottica di superamento (accantonamento?) del sommovimento antropologico che, nel ventesimo secolo, ha più volte rimescolato le carte, giungendo ad un relativismo spossante nel processo di individuazione di strutture sociali di riferimento.

Lo stesso Parsons, poc’anzi citato, pochi anni dopo la costruzione sistemica-sistematica accennata si prodigò a correggerla ammettendo che il vero spessore della comunità locale risiede nel suo essere società. In seguito questo concetto è stato ripreso e approfondito da chi ha focalizzato il problema di individuazione dei tratti comunitarisociali con riferimento alle dimensioni quantitative dell’essere comunità. Secondo questa ricostruzione, in una società moderna gli attori della più piccola comunità sono inseriti in reti di relazione esterne (economiche, politiche, culturali) che tendono a superare la comunità locale, in quanto contesto significativo di interazione e capacità di condizionamento (Bagnasco, 1999). Tuttavia, le aspettative e le strategie dei soggetti su base territoriale, così come le relazioni di fiducia e di reciprocità, sono con più probabilità componenti

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del quadro sociale di una piccola comunità. Il salto successivo consiste nell’individuare nella città il luogo tipico della società, della separazione, della moltiplicazione dei ruoli, della crisi di identità: studiare la città è di fatto studiare la società.

Prendendo le mosse dall’idea di osservazione della comunità come “sociografia”, cioè osservazione clinica orientata a un determinato problema nel contesto di un ambito sociale territoriale (Zeisel, 1933), possiamo affermare che ogni comunità locale – anche la più piccola – deve essere programmaticamente considerata oggi una società locale, all’interno della quale osservare anche rapporti di tipo “comunitario”.

Non è un caso, a questo punto, che l’incipit del nostro lavoro si sia basato sul termine societas, nel senso ampio e multi comprensivo di qualunque aggregazione in cui si osservino relazioni affettive, durature, diffuse, fiduciarie. In queste rientra, e non può essere altrimenti se si assume come veridico il postulato appena dichiarato, il vicinato, la prossimità civica, “l’essere per” e “l’essere con”.

Per chiudere il cerchio e comprendere appieno la sperimentazione che verrà esposta nella parte progettuale, richiamiamo il concetto – depurandolo dalle implicazioni di governance politica – secondo cui una società locale è “autocefala” quando è capace di darsi da sé i propri ordinamenti e di governarsi senza dipendere da poteri superiori. Siamo di nuovo alla pòlis, alla democrazia, alla partecipazione. Da qui, il salto verso la cooperazione è – sia esso autonomo, sia esso orientato – comunque breve, e ne daremo conto nella esposizione del progetto.

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