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D IDATTICA E RICERCA AL FEMMINILE NELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

Nota finale

D IDATTICA E RICERCA AL FEMMINILE NELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

Carla Faralli

Le statistiche mostrano che la popolazione studentesca delle Facoltà di Giurisprudenza è sem- pre più femminile: dalla metà del secolo scorso dal 10% si è arrivati ad oltre il 50% (il “sorpasso” è avvenuto all’inizio degli anni Novanta); mostrano anche che le ragazze hanno un maggior rendi- mento sia in relazione ai voti sia al tempo impiegato per gli studi sia al numero di coloro che arriva- no alla laurea1.

In tutta Italia nel periodo 1877-1900 (nell’Italia unita le donne vengono ammesse agli studi universitari nel 1874 grazie al regolamento Bonghi) circa duecentocinquanta donne conseguirono la laurea: la distribuzione geografica rivela una netta predominanza di laureate nelle università del nord rispetto a quelle del centro sud, con un indirizzo prevalente letterario-filosofico, seguito da quello scientifico-matematico e da quello medico; solo sei le laureate in Giurisprudenza2.

Gli storici ricordano lo scalpore che aveva sollevato la prima donna in età moderna laureata in Giurisprudenza, Maria Pellegrina Amoretti da Oneglia, alla quale Giuseppe Parini dedicò un’ode dal titolo La Laurea. Per la laurea in ambe le leggi conferite nella R. Università di Pavia alla si-

gnora Maria Pellegrina Amoretti d’Oneglia. L’Amoretti aveva conseguito a Pavia la laurea in utro- que iure (canonico e civile) nel 1777, ma tale laurea non le permetteva l’attività professionale.

Stessa sorte toccò a Maria Maddalena Canedi, laureatasi a Bologna nel 1807, e così via fino alla fine dell’Ottocento quando la questione salì alla ribalta delle cronache per la vicenda che inte- ressò Lidia Poet, la prima donna a chiedere l’iscrizione all’albo degli avvocati a Torino, dove si era laureata col massimo dei voti nel 1881. Dopo una prima contrastatissima deliberazione favorevole alla Poet, intervenne l’annullamento della Corte d’Appello di Torino che nella motivazione della sentenza argomenta: “la facoltà di postulare è cosa contraria alla riservatezza e alla pudicizia con- veniente al sesso [...]. Sarebbe disdicevole e brutto vedere le donne discendere nella forense pale- stra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, contaminate dagli abbigliamenti strani o bizzarri e dalle acconciature non meno bizzarre che le donne sono solite portare”. Il testo appare co- lorito da varie battute del tipo che i giudici potrebbero far pendere la bilancia a favore di una “avvo- catessa leggiadra” oppure che le donne non devono pretendere di divenire uguali agli uomini, anzi- ché preferire di rimanerne “le compagne siccome la Provvidenza le ha destinate”.

Considerazioni alle quali la Poet rispondeva: “che le attitudini, le inclinazioni, la missione natu- rale e particolare della donna, il suo speciale ingenio e la debolezza fisica del suo organismo di fronte a quello dell’uomo siano inconciliabili con la professione di avvocato può essere soltanto opinione di uno o più individui, opinione che forse il tempo e i fatti potranno modificare. È del resto supposizione infondata che la donna, la quale si occupa di discipline legali, debba necessariamente trascurare gli af- fari domestici, infrangere l’armonia della famiglia e colpirne i più vitali interessi. Tali doveri non sono

1 Si consulti il sito www.almalaurea.it.

2 Cfr. B.DALLA CASA,F.TAROZZI, Da “studentinnen” a “dottoresse”: la difficile conquista dell’istruzione uni-

versitaria tra 800 e 900, in La presenza femminile dal XVIII al XX secolo. Ricerche sul rapporto donna/cultura univer- sitaria nell’ateneo bolognese, Bologna 1988, p. 159 ss.

gli uni con gli altri assolutamente incomparabili e d’altronde queste considerazioni come non valsero a vietare alle donne di farsi maestre comunali e in questi ultimi tempi di esercitare le professioni di medico, ingegnere, professore, come non impediscono né impedirono mai alle operaie di passare il giorno intero lontano dalle famiglie per guadagnare il pane quotidiano, né ad altre classi di attendere al commercio o ad altre occupazioni assidue o delicate, così non possono aver peso nell’ammettere o non ammettere le donne all’esercizio dell’avvocatura. Invero la questione sta tutta nel sapere se le professioni sono libere a tutti coloro che riuniscono le condizioni stabilite dalla legge e se il sesso sia tra le condizioni per potere esercitare la professione di avvocato”.

Nel 1913 anche Teresa Labriola, prima donna a conseguire la libera docenza in filosofia del diritto nel 1901, fu esclusa dalla professione e i giudici invocarono il parere di Ulpiano: “Foeminae

ab omnibus officiis civilibus et publicis remotae sunt et ideo nec judices esse possunt nec magistra- tum gerere nec procuratores existere”.

Il problema non era solo italiano: nel 1849 un autore francese scriveva che “una donna medi- co fa ripugnanza, una donna notaio fa ridere, una donna avvocato spaventa” e nel 1894 la Corte Su- prema della Virginia negò a una donna il diritto di esercitare in tribunale, sebbene la legge permet- tesse a una persona che avesse i suoi stessi titoli di farlo, argomentando che “persona” può solo e soltanto significare “uomo”.

In Italia tale esclusione era giustificata sulla base della normativa che vietava alle donne l’esercizio degli uffici pubblici, divieto caduto con la legge n. 1176 del 1919 che ridefinisce la ca- pacità giuridica delle donne, abolendo l’istituto della autorizzazione maritale – che impediva alle donne sposate di “donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere i capitali, costituirsi sicurtà né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti senza l’autorizzazione del marito – e riconoscendo loro “a pari titolo degli uomini” la possibilità di “eser- citare tutte le professioni e di ricoprire tutti i pubblici impieghi”, con l’esclusione di quelli implican- ti poteri pubblici giurisdizionali e l’esercizio di diritti e potestà politiche o attinenti alla difesa mili- tare dello stato”. Nonostante ciò il regolamento di attuazione del 1920, applicato in senso restrittivo in forza di alcuni pareri del Consiglio di Stato, perpetuò una situazione di incertezza e di esclusione da varie carriere (compresa quella giudiziaria e notarile), situazione aggravatasi nel periodo fascista in cui della donna venne esaltata “l’alta, sublime missione di sposa e di madre” e di “procreatrice del futuro della nazione”.

Ancora nel 1947 durante la seduta del 31 gennaio dell’Assemblea Costituente l’onorevole Giovanni Leone affermava: “si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giu- diziaria non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare, con profitto per la società, a quella amministrazione della giustizia dove più può far sentire le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità non può essere negato [...] ma, negli alti gradi della magistratura dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.

Considerazioni alle quali si associarono l’onorevole Cappi, a parere del quale “nelle donne prevale il sentimento al raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio al sentimento” e l’onorevole Molé che dichiarava “è soprattutto per i motivi addotti dalla Scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo/fisiologico che la donna non può giudicare”.

A tale considerazione l’onorevole Leonilde Iotti replicava: “se è vero che si deve far sentire in certo grado la femminilità della donna, non per questo si deve precludere alla donna l’accesso agli alti gradi della magistratura, quando abbia la capacità di arrivarci. Può anche darsi che le donne non ci arrivino, ma in questo caso si tratta di merito”.

Quindi è solo dalla fine degli anni Sessanta – particolarmente negli anni Settanta e Ottanta – che per le donne si sono realmente aperte possibilità di accesso a tutte le professioni forensi (l’ac-

cesso delle donne alla magistratura risale agli inizi degli anni Sessanta con la legge n. 66 del 1963), anche se permane tuttora una certa segregazione sia di tipo orizzontale (il diritto di famiglia nel campo civile e l’assistenza ai minori nel campo penale) sia, soprattutto, di tipo verticale (solo nel 1981 due donne sono entrate nel CSM; solo nel 1986 il Consiglio della Magistratura militare ne ha ammesso l’accesso; solo nel 1996 una donna è entrata alla Corte Costituzionale e anche oggi ve ne siede una sola).

Tale segregazione appare oggi connessa non tanto a meccanismi formali o interni al mercato del lavoro quanto al perdurare di fattori sociali e culturali che continuano ad alimentare la divisione del lavoro su base sessuale. Anche nell’ambito delle professioni forensi – come scrive Sandro Bel- lassai con riferimento alle professioni in generale – “con la definitiva rimozione delle ultime norme discriminatorie, per lo più avvenuta nella seconda metà del secolo scorso, il genere maschile ha do- vuto abbandonare una difesa formale del proprio privilegio ma fino ai giorni nostri non ha del tutto rinunciato ad atteggiamenti più o meno espliciti, utili almeno a tenere le donne in posizione il più possibile subalterna”3.

Nelle Facoltà di Giurisprudenza alla femminilizzazione degli studenti non ha corrisposto però una pari femminilizzazione nella docenza, infatti al livello più alto, nella fascia dei professori ordi- nari, le donne raggiungono a mala pena il 20%, nella fascia degli associati la percentuale sale al 35% e arriva prossima alla parità solo nella fascia dei ricercatori.

Sulla presenza delle donne nel Medioevo agli albori del più antico Studio di diritto, quello di Bologna, si è molto favoleggiato: nella storiografia sei-settecentesca si legge di Bettisia Gozzadini, prima donna laureata in giurisprudenza nel 1236 sotto la guida di Jacopo Balduini, che, vestendo abiti maschili, insegnò per due anni nello Studio4; nel Trecento ancora più famose la moglie e le fi- glie del noto giurista Giovanni d’Andrea: della prima Milancia d’Andrea, si racconta che fosse la vera autrice dei celebri Consilia et Responsa iuris pubblicati dal marito, delle seconde, Bettina e Novella, si celebra la bellezza che avrebbe spinto Novella a insegnare velata per non compromettere l’attenzione degli studenti5.

Le cronache più recenti narrano che la prima donna ordinario è entrata nella Facoltà di Giuri- sprudenza di Bologna nel 1995 e che la Facoltà di Giurisprudenza di Roma La Sapienza è stata l’ul- tima a “cedere” qualche anno dopo.

Proprio la particolare situazione della Facoltà di Giurisprudenza di Bologna aveva spinto un gruppo di donne universitarie a fondare nel 1992 un’associazione, l’Addu (Associazione delle Do- centi Universitaria). Ricorda una delle fondatrici, Maria Luisa Altieri Biagi, intervenendo a un con- vegno a dieci anni dalla fondazione dell’Associazione: “la constatazione della inferiorità numerica delle donne presenti nell’istituzione (soprattutto al massimo livello della carriera) e la perdurante diversità di opportunità ad esse offerte nei confronti dei loro colleghi suggeriva alle docenti univer- sitarie di collaborare per migliorare la loro condizione (soprattutto in certe Facoltà) avanzando ver-

3 S. BELLASSAI, La misoginia professionale, in Atlante delle professioni, a cura di M. Malatesta, Bologna 2009, p. 285 ss. Tutto il cap. VII del citato Atlante è dedicato a “Donne e professioni” (sulle avvocate si veda il contributo di F. Tacchi, p. 257 ss.).

4 Secondo i suoi biografi sarebbe vissuta tra il 1209 e il 1261, avrebbe conseguito la laurea in utroque jure nel 1236 o nel 1237, ma di lei non è rimasto alcuno scritto tanto che alcuni dubitano della sua stessa esitenza. Inattendibile e fantasiosa la ricostruzione della sua vita di C.A. MACHIAVELLI, Bitisia Gozzadina seu de mulierum doctoratu, Bono- niae, 1722. Si vedano anche F.A.DELLA CHIESA, Theatro delle donne letterate, Mondovì 1620, p. 89 e A. FONTANA, Amphitheatrum legale seu bibliotheca legalis amplissima, I, Parma 1688.

5 Cfr., in particolare, G. ROSSI, Contributi alla biografia del canonista Giovanni D’Andrea (l’insegnamento di

Novella e di Bettina, sue figlie, e i presunti “responsa” di Milancia, sua moglie), in Rivista trimestrale di diritto e pro- cedura civile, 1957, p. 1490.

so il traguardo, ancora lontano, della parità effettiva. Si trattava di rimuovere certi ostacoli esterni: difficile, ad esempio credere che il corpo docente (di prima fascia, ma anche di seconda fascia) di una facoltà come Giurisprudenza fosse – nel 1992 – casualmente costituito da soli uomini; in un set- tore che conta moltissime donne impegnate con successo nelle professioni giuridiche (avvocati, magistrati, notai, ecc.) la mancanza di donne disponibili alla ricerca e alla didattica poteva essere solo un episodio di discriminazione, una forma di ingiustizia”6.

La situazione della docenza nelle Facoltà di Giurisprudenza italiane sopra descritta ha grossi riflessi anche nell’ambito della ricerca. Infatti, a differenza di quanto è successo in altri paesi, so- prattutto di area anglosassone o nordica, dove i Gender Legal Studies e/o la Feminist Jurisprudence si sono sviluppati tra gli anni Sessanta e Settanta, in Italia molto poco si è fatto in questi settori.

Come è noto, si tratta di studi che hanno messo in luce l’infondatezza dell’idea di universalità e neutralità del diritto, sostenendone il carattere sessuato, cioè costruito in forme strettamente con- nesse alla prospettiva maschile. Come scrive Tove Stang Dahl, docente di Women’s Law all’Uni- versità di Oslo, “l’armamentario giuridico di oggi, neutro rispetto al genere si incontra con una real- tà sessuata o, meglio, la realtà sessuata si incontra con il moderno diritto asessuato. È il complicato scambio fra vita e diritto che ne risulta ciò che la ricerca del diritto delle donne intende mappare e capire con l’obbiettivo specifico di contribuire all’eguaglianza vera, al riconoscimento dell’egual valore e alla maggiore libertà delle donne”7.

Come emerge chiaramente da questa citazione, la Feminist Jurisprudence si muove su due li- velli: uno di analisi e uno di proposta politica. Al primo livello è volta a comprendere e spiegare le implicazioni di genere contenute nel diritto, che non è maschile per struttura e vocazione, ma in quanto storicamente elaborato dagli uomini. Al secondo livello è impegnata nella formazione di un diritto che prenda atto della diversità dei generi e che si sforzi di capire la condizione giuridica delle donne con l’obbiettivo di migliorarne la posizione nella società.

L’8 e il 9 novembre 2011 a Bruxelles si è tenuto l’European Gender Summit nel quale sono stati presentati i risultati di una consultazione che ha coinvolto 42 paesi attraverso, principalmente, Università e Istituzioni pubbliche di ricerca.

Sono emersi alcuni temi suscettibili di ulteriori riflessioni: la relazione tra parità di genere e qualità della ricerca è spesso interdipendente; il genere è una dimensione importante della creatività innovativa e deve essere incluso nei programmi di innovazione; le strutture devono realizzare poli- tiche di parità di genere per divenire socialmente più responsabili. Ne consegue la necessità di for- mare i ricercatori rispetto alla dimensione di genere; di includere la dimensione di genere in ogni ricerca; di assicurare la presenza delle donne, anche attraverso lo strumento delle quote, a tutti i li- velli decisionali della ricerca.

Il documento ripetutamente sottolinea che la questione di genere non è una questione femminile ma della società e che la promozione della parità di genere costituisce una priorità europea da perse- guire attraverso buone pratiche (ad esempio, rendere la dimensione di genere un requisito per ottenere fondi) e il riconoscimento di un quality label alle Università e alle organizzazioni virtuose8.

6 M.L. ALTIERI BIAGI, L’Addu 10 anni dopo, in Ricerca e didattica all’Università di Bologna. Dieci anni al

femminile, a cura di P. Rossi Pisa, S. Gaddoni, F. Dallari, Bologna 2005, p. 17 ss.

7 Per un rapido inquadramento sulla Feminist jurisprudence si vedano in particolare G. MINDA, Teorie post mo-

derne del diritto, trad. it., Bologna 2001, p. 213 ss. e A. FACCHI, Il pensiero femminista sul diritto: un percorso da Ca- rol Gilligan a Tove Stang Dahl, in Filosofi del diritto contemporanei, a cura di G. Zanetti, Milano 1999 (da que- st’ultimo saggio è tratta la citazione nel testo).

8 Si veda Public Consultation on the Future of Gender and Innovation in Europe, tratto da http://www.gender-

Sotto questo profilo le Facoltà di Giurisprudenza sono largamente impreparate con riferimen- to ai due principali compiti che, in stretta connessione l’uno con l’altro, loro competono: la forma- zione e la ricerca. Come si è detto le ricerche sui temi di genere sono scarsissime e non esistono corsi specifici di Gender Legal Studies, Feminist Jurisprudence o Women’s Law, tutt’al più vi sono seminari o moduli all’interno dei corsi ufficiali affidati all’iniziativa di singoli docenti senza alcuna istituzionalizzazione9. Questo stato di cose non permette alcuna formazione dei giovani su tali temi, mentre solo dall’educazione, più che dalle quote (che giudico però un “male necessario”), potrà se- guire quel cambiamento in grado di creare una cultura di parità capace di incidere sulle politiche e le scelte decisionali.

9 Per una panoramica, purtroppo non aggiornata (i dati riguardano il periodo dall’a.a. 1999-2000 all’a.a. 2006- 2007) ma ampiamente corredata di tabelle a grafici si veda S. VINEIS, La situazione degli Womens studies nelle univer-

sità italiane: i dati di un primo bilancio, pubblicata sull’Osservatorio dell’Università di Padova di Gender Women’s Studies all’indirizzo http://www.unipd.it/osservatoriogenere/ (consultato il 2 gennaio 2011).