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Il corpo della donna tra rappresentazione e potere

Parte Seconda Tra fondament

L A BIOPOLITICA E IL CORPO DELLA DONNA

3. La politica e il diritto nel corpo della donna: alcune questioni legate all’identità fem minile

3.1. Il corpo della donna tra rappresentazione e potere

Prima di entrare nel vivo del discorso sulle forme di controllo biopolitico legate nello specifi- co al corpo femminile, va almeno accennata la questione della rappresentazione del corpo femmini- le, che per certi aspetti porta con sé già una sorta di manipolazione della corporeità della donna. Nell’epoca contemporanea si assiste infatti ad una sempre più pervasiva esposizione del corpo della donna nel mondo della comunicazione e dei mass media, anche a scopi pubblicitari e per utilizzi commerciali. Riguardo alla forza e alla violenza di tale (sovra)esposizione dell’immagine del corpo femminile, osserva Agata Amato, facendo riferimento in particolare all’esposizione del corpo – mu-

to, senza accompagnamento di parole da parte delle top-model: “i corpi esposti senza dire una paro-

17 S.BELARDINELLI, La sfida della biopolitica, in ID., L’altro illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica

della verità, Soveria Mannelli (CZ) 2009, p. 103.

18 F.D’AGOSTINO, Bioetica e biopolitica, cit., p. 55.

19 Ivi,p. 61. Una esemplificazione di questo svuotamento del concetto di persona è la categoria del nascituro co- me soggetto di diritti (per es. del diritto di nascere sano, indipendentemente dalla generazione biologica e nonostante questo debba prevedere un’eventuale sostituzione di corpi biologici), come evidenzia Boltanski: “[si tratta di] una ricer- ca – di ispirazione idealistica – che mira a costituire, attraverso il potere della parola giuridica, il “nascituro” come unica entità veramente umana, associata a dei diritti soggettivi e dissociata dagli esseri di carne nei quali può o meno trovarsi incarnato, trattati come supporti sostituibili” (L. BOLTANSKI,La condizione fetale. Una sociologia della generazione e

la, ma anche i corpi spettacolo per una platea pronta a vivere sensazioni forti di piacere e di dolore, soddisfano per così dire la rappresentazione che il soggetto contemporaneo ha di se stesso. Rappre- sentazione che tradisce un’ossessione. Tutto concentrato nell’esibizione della propria realtà fisico– corporea, il soggetto pone il corpo al centro”20. Emerge qui la violenza di tale rappresentazione: il corpo, esposto allo sguardo altrui e quindi in fondo espropriato, viene scisso dalla dimensione più profonda della soggettività; di fatto, viene esclusa la dimensione della corporeità come cifra signifi- cativa dell’identità personale21. La spettacolarizzazione del corpo, riducendo la soggettività ad esi- bizione, porta a far coincidere l’identità personale con ciò che appare22. La moda, così come l’arte, se separa la dimensione della soggettività dalla sua manifestazione fisico corporea, rischia di opera- re una sorta di violenza e di manipolazione sull’identità personale stessa: “L’arte attraverso il cor- po(-prigione) mette in scena la paura e l’angoscia che tabù e pregiudizi, alterazioni e contaminazio- ni, esclusioni ed eliminazioni, creano e di continuo rinnovano. [Si pensi] ai protagonisti della body

art e della più recente carnal art. Tutti accomunati da una sorta di parola d’ordine: esporre il corpo

e il dramma che lo attraversa. Sì, perché il corpo (-tunnel, -paesaggio, -labirinto) denuncia qualcosa, allude a qualcosa d’altro, lascia intendere possibili vie di fuga”23 e inoltre: “Se è vero che non c’è arte senza corpo – magnificamente e/o orribilmente equipaggiato, giacché l’anatomia è ormai una scelta: da Stelarc a Orlan e a molti altri –, altrettanto vero è che la politica celebra, o al contrario de- nigra, salva, o all’opposto elimina, sempre e comunque il corpo. Talvolta quindi a favore del corpo, talaltra per una sua eliminazione: di qui l’orrore dei campi di concentramento. L’arte anticipa la po- litica. Il morboso interesse per la corporeità, e più in particolare per la pulsionalità biologica, come pure per l’espediente traumatico, non è altro che ricerca della contaminazione, avventura tra ibrida- zioni organiche e alterità tecnologiche”24.

Il tema dello sguardo (rivolto al corpo come corpo rappresentato), si ritrova anche nella ricer- ca di Barbara Duden, storica del corpo, che sottolinea, in particolare riguardo al tema della gravi- danza, centrale per la comprensione dell’identità femminile, come abbia acquisito un ruolo sempre più di primo piano la vista, rispetto al tatto e all’udito. “Negli ultimi decenni la gravidanza è diven- tata una condizione corporea plasmata da strumenti tecnici che rendono visibile ciò che un tempo era invisibile: il microscopio elettronico, la visualizzazione grafica di frequenze statistiche, l’eco- grafia. Ognuna di queste tecniche lascia una diversa ombra simbolica sulle donne. L’impiego clini- co dell’esame ecografico agisce con particolare intensità sulla loro esperienza del proprio corpo e di quello del bambino in arrivo: in una nuova situazione clinica, appunto, nella quale le donne impara-

20 A.C.AMATO MANGIAMELI, Corpi docili Corpi gloriosi, cit., pp. 74-75.

21 Quella a cui fa riferimento F. D’AGOSTINO: “Il corpo parla e va alla ricerca di chi sia in grado di ascoltarne il linguaggio. Il calore del corpo favorisce la comunicazione, tanto quanto la freddezza della mente la rende ardua. […] Quando però il calore del corpo si coniuga con la freddezza della mente, possiamo avere esiti di assoluta estraniazione” (Giustizia per il corpo, in ID., Parole di giustizia, Torino 2006, p. 109).

22 Sulla spettacolarizzazione del corpo e della violenza legata al corpo si veda anche A.C.AMATO MANGIAMELI,

Tra riti quotidiani e conflitti metropolitani. Perché la violenza?, in ID., Sfide di Teoria Giuridica, Padova 2010, pp.

139-158 e in particolare § 2 (“Se tutto diventa immagine, segno, spettacolo”). Per converso una concezione non banale del pudore aiuta a comprendere lo spessore antropologico di tale virtù, che rivela l’identità personale che permea la cor- poreità umana: “È perché l’identità soggettiva non coincide con la sua storia espressiva che sono veramente possibili atteggiamenti fondamentali nelle relazioni umane, appunto come il pudore proprio e altrui […]. Il pudore, infatti, non è una misura quantitativa del coprimento corporale, ma è coscienza dell’impossibilità di identificare il proprio svelamento o quello dell’altro (del corpo, ma anche dei sentimenti, dei pensieri, ecc.) con la propria o altrui identità” (F. BOTTURI,

Etica degli affetti?, in AA.VV., Affetti e legami, Milano 2005, p. 60).

23 A.C.AMATO MANGIAMELI, Sfide di Teoria Giuridica, cit., p. 174. 24 A.C.AMATO MANGIAMELI, Sfide di Teoria Giuridica, cit., p. 175.

no ad interpretare come il loro “tesoro”, il loro “bebè”, quell’immagine visualizzata sullo schermo attraverso la rielaborazione digitale della misurazione dei tessuti più o meno compatti all’interno del loro corpo”25. Il tema del vedere, come considereremo in seguito, apre la strada ad una forma di po- tere, di controllo e di sottile manipolazione nei confronti del corpo della donna.

3.2. L’aborto

“Fino a pochi anni fa mi sembrava ancora sufficiente occuparmi della questione dell’aborto dal punto di vista della morale o della politica riguardante le donne. Limitarsi a questi aspetti, oggi, sarebbe una leggerezza. Ci troviamo di fronte ad una situazione nuova. Il conflitto etico e politico ci ha distolto dalla devastazione dell’essenziale. Il grembo materno è diventato una zona di operazioni: il modo in cui se ne parla, il modo in cui ne vengono programmati il controllo, la difesa e l’assi- stenza, il modo – e fa male dirlo – in cui le donne ne parlano e lo vivono ha fatto del formarsi di qualcosa ‘sotto la pelle della donna’ un processo pubblico. I secreta mulierum sono diventati un ter- reno in cui è possibile vedere, intervenire, decidere. Il grembo materno è esposto senza pudore allo sguardo della ricerca, dell’autorità, della strada […]”26. Così si esprime Barbara Duden al termine della sua ricerca riguardo al tema della gravidanza nella storia delle dottrine sul corpo. Tali rifles- sioni ci introducono nella considerazione dell’aborto come pratica biopolitica che interviene in mo- do particolare sull’identità femminile.

Non è casuale che proprio l’aborto sia uno delle manifestazioni più chiare della biopolitica: “La legalizzazione pressoché planetaria dell’aborto, avvenuta non casualmente in un arco temporale estremamente ridotto e caratterizzato almeno in Occidente dal consolidarsi del modello democrati- co, è segno inequivocabile della forza con cui il paradigma biopolitico pretende di gestire la nuda vita, autorizzandone l’esistenza o almeno sindacandone la stessa legittimazione sociale”27. Il diritto in un certo senso entra28 nel corpo femminile, autorizzando ad operare sull’embrione, a poche set- timane dal concepimento, quando questi per certi versi è ancora assimilabile al corpo della don- na/madre (ovvero quando ancora la vita del concepito consiste nell’interdipendenza reciproca con la madre)29.

La prima conseguenza per l’identità femminile è data dal fatto che l’aborto – la sua legalizza- zione – altera costitutivamente la capacità generativa trasformandola in un potere della donna sul proprio corpo.

Legalizzando la maternità come scelta insindacabile, infatti, viene alterata la funzione essen- ziale della genitorialità, ed in particolare della maternità, rendendola causa della morte, anziché del- la generazione; sia che la decisione provenga dall’esterno (dal partner o figura paterna) sia che di- penda dalla volontà della donna, ciò che è in gioco è un’azione sul corpo della donna e un radicale mutamento di segno della capacità generativa, che da apertura alla vita diviene in realtà una chiusu-

25 B.DUDEN, Qualità dello sguardo e controllo della qualità, in Quaderni di Scienza e Vita, 3, p. 23. 26 B.DUDEN, Il corpo della donna come luogo pubblico, cit., p. 121.

27 F.D’AGOSTINO, Bioetica e biopolitica, cit., p. 57.

28 Il compito del diritto come struttura relazionale, sia chiaro, è quello di proteggere e tutelare il corpo dei citta- dini, nel caso della maternità, sia della madre che del concepito; diventa però problematico quando, attraverso il diritto, è la politica che si trova a gestire la corporeità e, in un certo senso a definirne il significato (che cosa è vita).

29 La maternità come relazione è anche tutelata e protetta dalla Dichiarazione ONU del 1948 – cfr. in particolare l’art. 25.

ra. Sottolinea a questo proposito D’Agostino: “L’uomo (non diversamente dalla donna) può sceglie- re la sterilità volontaria, ma non può stroncare la vita prenatale, se non attraverso un atto di violenza su di un altro corpo (sul corpo femminile). La donna, con l’aborto volontario, può stroncare la vita prenatale operando sul suo stesso corpo. Legalizzando la maternità come scelta insindacabile (dato che la gravidanza può essere, per volontà della donna, liberamente interrotta), la postmodernità in- duce la donna a pensare la generatività non più come possibilità, ma come potere”30.

Alla maternità come potere, che quasi diviene potere esclusivo della donna sul proprio corpo, con in aggiunta il peso esistenziale dovuto al ruolo di giudice della vita degna di essere vissuta, cor- risponde a livello esistenziale una particolare solitudine31 della donna nella generazione: il ruolo paterno viene infatti emarginato giuridicamente (non può opporsi alla decisione di abortire, né può imporla32 e svuotato sul piano simbolico, restando sullo sfondo della generazione)33.

Dalla totale assenza nell’esperienza antropologica di un’elaborazione simbolica dell’aborto volontario, inoltre, “emerge con chiarezza come la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza è sempre stata evidentemente ritenuta non sanabile nell’inconscio collettivo”34. Che non sia mai esistita in nessuna cultura un’adeguata elaborazione simbolica dell’aborto, è il punto chiave che sorregge la ricerca di Luc Boltanski, il quale rileva come l’aborto sia una pratica essenzialmente ambigua: se da un lato è stata legalizzata, ammessa nell’ordinamento giuridico, dall’altro rimane non elaborata precisamente sul piano simbo- lico. Dalle indagini sociologiche, emerge come le donne non siano disposte a parlarne: “da una par- te, l’aborto è un’operazione confinata in arene specializzate, realizzata con discrezione, un’opera- zione di cui le donne che vi si sottopongono non parlano, se non a un numero molto limitato di in- timi (in genere una o due persone). Basterebbero a testimoniarlo le difficoltà incontrate dal sociolo- go per realizzare dei colloqui su questo tema. D’altra parte, se l’operazione è stata legalizzata e quindi è rappresentata nel diritto, ha potuto diventare normale solo a prezzo di una manipolazione ontologica del feto, quasi un gioco di prestigio per cui ciò che l’aborto fa sparire si dilegua nel nulla […]. L’aborto si inscrive davvero nel corso ordinario delle cose solo a condizione di essere aborto di niente”35.

30 F.D’AGOSTINO, Bioetica e biopolitica, cit., p. 6.

31 Secondo la sociologia della generazione e dell’aborto sviluppate da Luc Boltanski, tale solitudine della donna non è solo conseguenza dell’aborto, ma ne è anche una delle possibili cause, nel senso di quello che Boltanski stesso definisce “progetto parentale”. La mancanza di un progetto parentale e, di conseguenza, la solitudine della donna, sono una delle possibili spiegazioni dell’aborto e del mancato riconoscimento “nella parola” del feto. Cfr. L.BOLTANSKI, La

condizione fetale, cit., per es. p. 113: “Si può dunque considerare che il progetto di un figlio o, come dicono oggi i testi giuridici che inquadrano il destino del feto, il progetto parentale, costituisca l’istanza sovraindividuale di preconferma del nascituro, anche se il legame che unisce da altri punti di vista la genitrice e il genitore si rompe prima che il bambi- no del progetto abbia raggiunto l’età adulta”. Proprio l’assenza di tale progetto pare essere una delle motivazioni che spingono molte donne ad abortire.

32 Cfr. quanto previsto dalla legge n. 194/1978.

33 “È coerente che una volta che sia stato negato all’uomo il diritto di sindacare il rifiuto della maternità da parte della donna, gli venga poi negato il diritto di cooperare, come padre, ai processi generativi, se non per concessione della donna stessa. La solitudine della donna, che ne consegue, chiede ancora di esser adeguatamente studiata: indubbiamen- te, comunque, essa comporta una inedita problematizzazione del senso stesso di un generare non condiviso nella re- sponsabilità e nel valore. L’orgoglio procreativo della donna si trasforma nell’irrilevanza simbolica della procreatività, che in non rari casi arriva ad essere esplicitamente e pubblicamente rifiutata, come non valore” (F.D’AGOSTINO, Bioe-

tica e biopolitica, cit., p. 7).

34 Ivi, p. 2.

35 L.BOLTANSKI, La condizione fetale, cit., p. 121. Inoltre, come è noto, anche l’espressione IVG allontana il si- gnificato simbolico dell’atto che si sta compiendo (cfr. p. 149: “La stessa espressione, interruzione volontaria di gravi-

Boltanski, inoltre, condotto dai dati sociologici, inquadra l’aborto nell’assenza di un progetto parentale, in altre parole nella vita non degna (perché non desiderata, non progettata) che aspette- rebbe il nascituro. Diviene significativo che nella presentazione di un simile quadro di motivazioni, emerga come, per la donna, la decisione di abortire sia più il termine di un percorso fatale che l’oggetto di una decisione: “[…] l’aborto viene giustificato in quanto misura realizzata a vantaggio di colui che sarebbe venuto al mondo se la vita intrauterina non fosse stata interrotta e che, date le circostanze del suo concepimento, non avrebbe potuto avere una vita degna di essere vissuta”36. È inoltre significativo che motivazioni legate all’autodeterminazione, all’aborto come scelta, siano in realtà minoritarie: se viene considerata legittima l’eventualità di mettere al mondo un figlio la cui venuta non sia stata preconfermata da un progetto parentale (per es. un figlio senza padre), raramen- te viene rivendicato l’aborto come scelta personale o come esigenza di autonomia.

Inoltre, altro elemento assai rilevante è l’accento sulle difficoltà da parte della donna di “rie- laborare” l’atto dell’aborto: “Di questo atto, compiuto con le massime garanzie di discrezione, le persone interessate oggi non ne parlano più di quanto ne parlassero in un passato tutto sommato re- cente, quando doveva essere eseguito clandestinamente; anzi, forse ne parlano meno, perché la le-

galizzazione ha annullato il bisogno di aiuto, di consigli e di sostegno che induceva a confidare la

propria angoscia ad altre donne, amiche, parenti, colleghe, ecc. Quanto alle azioni di svelamento che negli anni settanta hanno accompagnato il periodo della rivendicazione militante (e che d’altronde hanno riguardato più la questione dell’aborto in generale che i casi singoli), sono scom- parse con la presa in carico istituzionale di questa pratica. Le donne, di fronte all’aborto, non sono forse mai state così sole”37.

Dall’analisi di Boltanski riguardo alla categoria del feto totalitario, emerge un particolare svi- limento dell’appartenenza del corpo della donna alla donna stessa: “con il feto totalitario, la costri- zione che viene denunciata è quella esercitata da un collettivo, da un’istituzione, e più in generale da un’istituzione che si rifà a un interesse nazionale, o piuttosto a una passione nazionalistica. […] Quello che qui importa è il primato di una volontà collettiva su un atto di acquiescenza di ordine in- dividuale. Le “capacità riproduttive” vengono trattate come se gli esseri umani fossero “macchine” di cui si può aumentare o diminuire la “produttività”. Il ventre della donna non le appartiene più. Viene trattato come se fosse un bene nazionalizzato, appartenente all’ambito pubblico, gestito da apparati medici di stato, con lo scopo di accrescere la quantità o la qualità della popolazione oppure, al contrario, di limitarla praticando un controllo autoritario delle nascite”38.