Minaccia di una insurrezione islamica in Sudan (AMN, 18)
“Il buon Dio vuole che … siamo delle ostie viventi che a Lui quotidianamente s’immolano non per mano altrui, ma per mano nostra”… (M. Bollezzoli, 26 ottobre 1881).
Il 13 agosto 1881, lo stesso Daniele Comboni aveva avvertito del pericolo il padre Sembianti, scrivendogli: “In questo punto mi racconta il Console austriaco essere il Sudan in piena ribellione, a causa di un sedicente profeta che si dice mandato da Dio a liberare il Sudan dai turchi e dall’influenza cristiana”… .
Alcuni mesi dopo, il 16 aprile 1882, la superiora provinciale Teresa Grigolini, appena ritornata da una visita alla comunità di Delen, sui Monti Nuba, scriveva al Rettore di Verona di aver notato nella regione “un movimento generale” che non le sembrava di
“troppo felice augurio”; così come non erano affatto rassicuranti le voci che circolavano a proposito di “un Dervisc ossia capo della rivoluzione” che aveva radunato una “gran quantità di arabi” e che stava attendendo “il momento di gettarsi sulla città di El-Obeid per metterla a ferro e fuoco”… (AMN, 12).
Meno di un mese dopo, il 12 maggio 1882, don Giovanni Losi avvertiva il cardinale Prefetto di Propaganda Fide che la situazione, in Sudan, stava diventando critica e che le comunicazioni fra El Obeid e Gebel Nuba si erano interrotte da quasi due mesi.
“Qui in Obeid non siamo senza angustie - si legge nella lettera -: essendo la ribellione a un giorno dalla città … I mori della nostra colonia [Malbes], dopo aver perso buona parte del bestiame e temendo di essere rubati e fatti schiavi essi medesimi, si sono ridotti tutti in città”… .
Brutte notizie anche dall’Egitto
Nel mese di aprile 1882, in Egitto, veniva scoperto un complotto organizzato da ufficiali circassi ai danni del generale Arabì Pascià, allora responsabile del Ministero della Difesa. Tradotti davanti a un Consiglio di guerra, i colpevoli vennero condannati all’esilio. Il Kedivè Tawfiq, però, dietro suggerimento dei Consoli di Francia e Gran Bretagna, commutò la pena, mettendosi così in aperto conflitto col Parlamento.
Un mese dopo, il porto di Alessandria si popolava di navi inglesi e francesi. Forti di questa presenza, alcuni agenti anglo-francesi attirarono dalla loro parte il presidente della Camera dei Notabili. Quindi, con una nota collettiva del 25 maggio 1882, intimarono al Presidente del Consiglio le dimissioni del Gabinetto e l’esilio del generale Arabì Pascià.
Tale misura, anche se subito revocata, si rivelò ben presto un errore irrimediabile. Arabì Pascià, infatti, che fino allora aveva cercato di evitare possibili scontri di natura religiosa,
44
a partire da quel momento cominciò a far leva sui sentimenti del popolo, in maggioranza musulmano, sollevandone il fanatismo. Di conseguenza, nelle moschee si approfittò per eccitare sempre più l’odio contro gli “infedeli”, cioè i cristiani delle varie denominazioni.
Era inevitabile, a quel punto, che si verificasse un incidente come quello avvenuto in Alessandria l’11 giugno 1882. In un altro momento, una lite fra un egiziano e un maltese – anche se aggravata da un omicidio – non avrebbe certamente scatenato quella vera e propria guerra di quartiere, degenerata in una caccia spietata e insensata a tutti gli Europei.
Rientro forzato della comunità del Cairo
Il 19 giugno 1882, preoccupato per la piega che gli avvenimenti stavano prendendo in Egitto, don Francesco Giulianelli scriveva al Prefetto di Propaganda Fide:
“Come l’Eminenza Vostra R. avrà cognizione, i fatti succeduti in Alessandria d’Egitto sono molto seri … Molte famiglie si sono rifugiate sulle navi da guerra … Cosa avverrà non si può prevedere … .
Il Governo austriaco ha mandato quattro battelli per tutti i suoi sudditi e protetti
… Questa cosa mi pose ieri un poco in pensiero, nella considerazione che noi qui non siamo in missione, e non abbiamo cura di anime, per cui determinai di fare … il telegramma che a quest’ora avrà ricevuto, per avere quelle istruzioni che … crederà darmi”… .
Ricevute le istruzioni richieste e cioè che, non avendo “cura di anime”, era meglio partire, il Superiore degli Istituti del Cairo si era deciso per il rientro in Italia con tutta la comunità femminile. Secondo quanto riferirono in seguito gli “Annali del Buon Pastore”, le sorelle giunsero in Casa Madre la sera del 9 luglio 1882. Il gruppo era composto da tre suore:
Faustina Stampais, Bartolomea Benamati e Marietta Casella; dalla novizia Anna Kubitschek; dalla postulante Concetta Massaud; da una “aspirante” e da due ragazze africane riscattate a Khartum, cioè Giuseppina Gemila e Rosina Kaltuma.
In Sudan, la situazione si aggrava (cf AMN, 18 e 19)
A partire dal mese di maggio 1882, don Giovanni Losi non nascondeva al Prefetto di Propaganda Fide e al Rettore di Verona che diventava sempre più difficile comunicare con il personale di Delen, per decidere insieme sul da farsi. Le strade erano diventate molto pericolose; i messaggeri spesso non facevano più ritorno; i ribelli armati diventavano sempre più numerosi e si vedevano sempre più cadaveri abbandonati ai margini delle strade.
Da parte sua Teresa Grigolini insisteva per lasciare El-Obeid con le sorelle e raggiungere Khartum, finché era possibile, portando in salvo anche i cristiani. Don Losi, invece, voleva attendere il personale di Delen, che non sarebbe mai arrivato perché don Luigi Bonomi non aveva ricevuto il messaggio relativo. Fu una attesa lunga, angosciosa e pericolosa, quella, perché alla fine lasciò passare tutte le possibilità di partire in tempo dal Kordofan. Il 29 agosto 1882, Teresa Grigolini scriveva al padre Sembianti l’ultima lettera che arrivò a Verona prima della prigionia:
45
“Padre – confidava al Rettore -, ci troviamo in una posizione miseranda … il Signore solo ora ci può aiutare … Noi non patiamo la fame, ma la facciamo magra e questo ancora non è niente, il più è l’angoscia dell’incertezza … I nostri poveretti di Nuba patiscono un lento martirio. Mancano delle cose più necessarie alla vita.
Hanno timore di essere ammazzati da un momento all’altro. Quando penso a quelle povere suore – Amalia Andreis, Eulalia Pesavento e Maria Caprini -, mi sento venir meno”… .
Settembre 1882: un mese “nero” per tutti
Cronologicamente, l’8 settembre 1882 segnò il primo tentativo da parte dei mahdisti di entrare in El-Obeid. Nelle loro “Memorie” ne parlano Teresa Grigolini ed Elisabetta Venturini (AMN, 1 e 19). Suor Elisabetta, in particolare, ricorda che circa dieci giorni prima, il 28 agosto 1882, don Losi si era finalmente deciso a lasciare la missione per trovare un rifugio nella “fortezza” fatta preparare dal Governatore per poter meglio difendere la città e i suoi abitanti. Le sorelle, allora, furono accolte da Marietta Maragase (cf AMN, 8), mentre i padri (Losi e Rosignoli) e il fratello laico (Locatelli) trovarono rifugio nella casetta attigua…
Quel primo tentativo del Mahdi di occupare El Obeid fallì, come sappiamo, ma la città rimase assediata fino alla sua resa, avvenuta nel gennaio 1883.
Circa una settimana dopo – il 15 settembre seguente – avendo probabilmente saputo quanto era avvenuto con El Obeid, il personale di Delen decise di tentare la fuga, come si può vedere nel cap. 3° del n. 18 di AMN. Il superiore, padre Bonomi, prese quella decisione credendo di poter contare sulla protezione dei soldati stanziati dal Governo per impedire le razzie di schiavi sui Monti Nuba. Invece il loro capitano era già segretamente passato dalla parte dei ribelli e tutti i membri della comunità cristiana, comprese le nostre sorelle, si ritrovarono prigionieri del Mahdi.
Dopo nove giorni di una penosissima “Via Crucis”, come fu definita da don Bonomi, essi raggiunsero il “Boga” (accampamento), nei pressi di El Obeid, dove si erano stabiliti i mahdisti.
Sempre il 15 settembre 1882, a Verona, ebbe inizio la terribile inondazione dell’Adige. Entrambi gli edifici dell’Istituto missionario furono invasi dalle acque e si dovettero evacuare (cf AMN 22, pp. 28-29).
Morte di suor Eulalia e di suor Amalia
Conseguenza di tutte le privazioni e i maltrattamenti subiti come prigionieri durante il viaggio da Delen a El-Obeid, e in seguito anche nell’accampamento mahdista, fu la morte di tre missionari: Eulalia Pesavento (27 ottobre 1882), Gabriele Mariani (31 ottobre 1882) e Amalia Andreis (7 novembre 1882).
La triste fine fu trasmessa dal padre Ohrwalder nella lettera che, il 26 dicembre 1882, indirizzava a don Giovanni Dichtl. In quella lettera, riportata per intero nel n. 18 di AMN, si legge fra l’altro:
46
“Tralascio di descrivere la vita piena di stenti e di miserie che noi facemmo per due mesi e mezzo. Tutti soffriamo di febbri e di dissenteria, senza vestiti, pieni di schifosi insetti, dormendo sulla nuda terra. Tre di noi mancarono: suor Eulalia morì il 27 ottobre, Gabriele il 31 ottobre, suor Amalia il 7 novembre”… .
In seguito, nei suoi “Dieci anni di prigionia”… il padre Ohrwalder tornerà a ricordare con maggiori dettagli, nel cap. IV, i dolorosi avvenimenti di quei tragici mesi di settembre-ottobre 1882.
47