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Dall’Istituto alla “Congregazione gemella”

Nel documento Pie Madri della Nigrizia (pagine 57-60)

Fra i molti argomenti che il Vicario apostolico dell’Africa Centrale intendeva trattare a Roma con Propaganda Fide, vi era anche un progetto che egli veniva maturando da tempo:

quello di dare un “assetto stabile” a1l’istituzione missionaria voluta dal suo predecessore.

Naturalmente ne aveva parlato anche al Vescovo di Verona, al quale il 23 agosto 1884 aveva scritto:

“L’altro ieri finalmente mi pervenne la risposta dell’Eminentissimo Signor Cardinale Prefetto riguardo al dare un assetto stabile alla nostra Istituzione. Egli mi dice che la S. C. di Propaganda sarà ben lieta di approvare un progetto pratico conducente allo scopo propostoci”… .

Lo “scopo” di cui mons. Sogaro parlava, era quello di affidare l’Istituto Missionario di Verona ad alcuni Padri della Compagnia di Gesù, perché lo trasformassero in una congregazione religiosa maschile. Fu quindi lo stesso mons. Sogaro, una volta rientrato in Italia nel 1885, a portare avanti le trattative con i Gesuiti. Così, il 6 ottobre 1885, egli poteva comunicare al card. Simeoni: “Combinai coi Padri della Compagnia di Gesù e verranno a Verona dopo la metà del corrente mese in due: uno dei quali rettore e l’altro quale direttore spirituale”.

Effettivamente, i due religiosi – Pietro Frigerio e Samuele Asperti – giunsero a Verona il 28 ottobre 1885. “Il padre Sembianti – specificava mons. Sogaro al card. Simeoni – conserverà la direzione della casa femminile e l’amministrazione qui in Verona”.

Due anni dopo, il 28 ottobre 1887, i primi dieci “Figli del S. Cuore” pronunciarono i voti religiosi, come lo stesso mons. Sogaro diede notizia ai lettori della “Nigrizia”.

Nessun documento ci è pervenuto, almeno finora, per farci conoscere come Maria Bollezzoli abbia seguito tutto questo processo che, alla fine, avrebbe comportato delle conseguenze non indifferenti anche per la congregazione femminile voluta da Daniele Comboni.

Costanza Caldara invece, che trovandosi in Egitto conosceva bene le intenzioni di mons. Sogaro, si riferì sempre alla nuova congregazione come alla “gemella” di quella femminile già esistente. “Gemelle”, si pensa, perché col tempo non dimenticassero di aver avuto lo stesso Padre, il quale, fin dal primo momento, pensò ad un Istituto missionario che doveva essere maschile e femminile, con una Regola propria e un “Piano” di lavoro comune riguardante la missione.

Ritorno in Egitto di mons. Sogaro:

incontro con le prigioniere liberate

Il 1° dicembre 1885 mons. Francesco Sogaro rientrava in Egitto dopo quasi 6 mesi di

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assenza. Egli ritornava ora come vescovo, essendo stato nominato tale da Leone XIII nel mese di luglio precedente. Naturalmente era stato anche confermato alla guida del Vicariato dell’Africa Centrale, per il quale Daniele Comboni aveva voluto l’Istituto delle Missioni per la Nigrizia. Ora tale Istituto, per volere dello stesso mons. Sogaro, si stava trasformando in una congregazione religiosa maschile, ma era troppo presto perché si potesse vedere quali sarebbero state le conseguenze del cambiamento.

Per il momento, intanto, tutto sembrava procedere come prima. Vi era però la novità – bella e preoccupante allo stesso tempo – che attendeva il Vescovo al suo rientro: la liberazione “parziale”, cioè, delle suore prigioniere. Lo stesso mons. Sogaro, prima di lasciare Il Cairo, aveva mandato don Giovanni Dichtl a Wadi Halfa perché, secondo le indicazioni ricevute da Teresa Grigolini, organizzasse la spedizione con la collaborazione di Licurgo Santoni. Alla fine, anche se con un certo ritardo, erano riusciti a contrattare ancora una volta Abd-el-Giabbar perché tornasse a Omdurman con i 16 cammelli (più uno) richiesti da Teresa

Proprio a causa di quel ritardo, dovuto ai motivi che conosciamo (cf AMN 18 e 19), il finto cammelliere si era presentato a Teresa soltanto nel mese di agosto, quando la situazione delle suore prigioniere, purtroppo, si presentava modificata: suor Bettina non c’era più; suor Caterina non stava bene e non era in grado di affrontare una cavalcata senza soste come sarebbe stata quella della fuga; e suor Concetta, purtroppo, si trovava in stato interessante dopo la violenza subita. Come avrebbe potuto, Teresa, lasciarla sola in quelle condizioni? Libere di partire, a quel punto, erano rimaste soltanto Fortunata Quascè e Maria Caprini.

Così, ad attendere il Vicario apostolico, nella comunità femminile del “Sacro Cuore di Maria”, vi erano soltanto due ex prigioniere – invece di sei – giunte in Cairo con il loro liberatore il 9 novembre precedente.

Richiesto il silenzio su tutta la vicenda, specialmente nei riguardi di Concetta

Dopo quanto gli aveva scritto don Domenico Vicentini il 9 settembre 1885 (cf AMN 18, pag. 113), mons. Sogaro era ansioso di conoscere tutti i particolari di una vicenda che lo aveva colpito in maniera durissima e inaspettata. Lo stesso don Domenico, infatti, gli aveva detto che la violenza subita da Concetta da parte di un membro della Missione era cosa talmente grave, che egli stesso aveva ritenuto dover chiedere il silenzio più assoluto a suor Fortunata e a suor Maria Caprini. Finché non fosse ritornato il Vicario apostolico, aveva loro raccomandato, era meglio non parlare con nessuno, “neppure con la Madre (Vittoria Paganini), dell’affare di suor Concetta”.

Dello stesso parere si era dichiarato subito anche mons. Sogaro che, dopo aver ascoltato le sorelle – lo stesso giorno del suo arrivo – aveva scritto al card. Simeoni:

“Prima di tutto dalle interrogazioni delle sue suore già prigioniere, risulta che i tormenti ai quali furono sottoposte erano dei più diurni e dei più crudeli; che furono sempre rispettate per la caritatevole e coraggiosa protezione dei Greci; che

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una però, affidata al nominato Isidoro Locatelli, della missione, fu da questi miserabilmente tradita, ed ora è gestante. L’infelicissima era delle più pie, e virtuose, ed ora si strugge di dolore e probabilmente soccomberà! Ah!

Eminentissimo Padre mio; quante lacrime mi strappò questo fatto! Mentre scrivo

… ma basta!”… .

Cominciò così, da quanto si può capire, il “grande silenzio” – già sollecitato anche dal padre Sembianti a don Luigi Bonomi giunto a Verona dopo la sua liberazione – che da quel momento avrebbe avvolto per molto tempo la vicenda delle nostre martiri della Mahdia.

Di tanto in tanto, inevitabilmente, qualche cosa trapelava, rendendo però praticamente più confusa, in genere, la lettura di quella che alla fine fu ingiustamente conosciuta come la “pagina nera” del Sudan.

Isidoro Locatelli arriva in Cairo

Il 24 marzo 1887, inaspettatamente, Isidoro Locatelli – ora effettivamente marito di Concetta Corsi che, infatti, aveva voluto celebrare il matrimonio religioso dopo la nascita del figlio – giunse in Cairo e si presentò a mons. Sogaro. Naturalmente, egli portava finalmente notizie dirette dei prigionieri rimasti in Sudan. In pratica, a Omdurman vi erano ora tre “nuclei familiari”:

- quello di Caterina Chincarini e di suo “marito”, Panayoti Trampas;

- quello di Teresa Grigolini e di Demetrio Cocorempas;

- e infine quello ci Concetta Corsi e di Isidoro Locatelli, presso i quali si erano rifugiati anche Elisabetta Venturini – il cui tentativo di fuga non era riuscito e aveva dovuto ritornare – e il padre Giuseppe Ohrwalder. Era stato proprio quest’ultimo a spingere Isidoro a fare quel giro di “ricognizione” per studiare il modo di tentare una fuga.

“Mandai un fratello della Missione – ricorda lo stesso Ohrwalder nei suoi “Dieci anni di prigionia…” -, che si guadagnava da vivere coll’aggiustare orologi, a Berber, sotto pretesto di esercitarvi il suo mestiere, in realtà però per esplorare se colà ci fosse qualche occasione di fuggire”… (pag. 426).

“Era partito da Omdurman per cercare una maniera di guadagnarsi il pane a Berber – confermava mons. Sogaro, il 5 maggio seguente, scrivendo il Vescovo di Verona -. Arrivato in questa città si rivolse a un buon signore Copto … pregandolo volesse aiutarlo … Questo presolo in disparte gli disse: Se volete partire, tenetevi pronto … Il Locatelli fuori di sé per la consolazione accettò con la più viva riconoscenza l’offerta. Scrisse subito una lunga lettera al nostro confratello don Giuseppe Ohrwalder avvertendolo di quanto stava per fare e invitandolo in pari tempo a venire con le due suore Concetta Corsi e Bettina Venturini a Berber dove egli avrebbe poi inviato gente a prenderli. Infatti arrivato a Suakin combinò con lo stesso cammelliere che aveva portato lui perché tornasse a Berber a prendere i nostri. Quando l’E. V. riceverà questa mia potrebbe essere che alcuni dei nostri cari prigionieri fossero in viaggio per Suakin”… .

Purtroppo non avvenne così, perché la fuga di Locatelli era stata scoperta, provocando le ire del califfo Abdullahi, successore del Mahdi, e sconsigliando assolutamente qualsiasi

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altro tentativo di fuga. Anzi, per più di tre anni ancora, le notizie provenienti da Omdurman si sarebbero fatte sempre più preoccupanti, specialmente per quanto riguardava lo stato d’animo dei prigionieri.

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Nel documento Pie Madri della Nigrizia (pagine 57-60)