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Dall’Italia all’Europa: il sindacato e le inchieste itineranti

il termine visita indicava un preciso istituto di diritto canonico, ma era usato in genere per intendere la costante azione di controllo esercitata sul territorio delle realtà statuali medievali. L’elemento maggiormente significativo era però l’identificazione della procedura inquisitoria avviata con la visita, e poi proseguita all’interno del sinodo o concilio diocesano, come redditio rationum dell’ecclesiastico “tamquam tutor” 97.

In termini giuridici, dunque, le visite pastorali, così come le visite secolari condotte dai rappresentanti degli stati medievali, erano anch’esse fortemente radicate nella sfera della

negotiorum gestio, e pertanto spontaneamente concepite secondo un rapporto di tutela di

cui l’inquisitio sindacale era parte integrante e costitutiva.

Nelle categorie politologiche dell’epoca il rapporto tra sudditi e autorità, così come quello tra fedeli e pastore, era concepito in termini paternalistici, soprattutto se l’autorità in questione era di tipo monocratico, ossia riconducibile ad una persona fisica precisa: il vescovo ovvero l’imperatore, il re, il principe. Il problema però è capire quanto, tra Due- cento e Quattrocento, questa autorità fosse effettiva e riconoscibile da parte dei sudditi; quanto cioè essa fosse tangibile, o per lo meno visibile, nello svolgimento di un potere su-

97 Riccardo Ferrante, Modelli di controllo in età medievale. Note su visita e sindacato tra disciplina canonistica e dot-

trina giuridica, in Honos alit artes. Studi per il settantesimo compleanno di Mario Ascheri, (Reti Medievali. E-Book;

19/1), vol. 1: La formazione del diritto comune, 4 vol. (Firenze: Firenze University Press, 2014), 335–45. Lo stu- dioso in particolare ha sottolineatocome lo schema inquisitorio delle visite avesse origini canonistiche e che si esercitasse secondo una prassi e una concezione assimilabile a quella della procedura di sindacato praticata dai Comuni sui magistrati. Le analogie appaiono del resto riscontrabili nella stessa procedura inquisitoria canonica del vescovo-visitatore, caratterizzata anch’essa, come si vede ad esempio dagli scritti del giurista Panormitano, dalla distinzione tra inquisizione generale e inquisizione speciale, ed effettuata a carico degli ecclesiastici della diocesi non tanto per colpire una persona particolare ma in virtù della responsabilità giu- ridica sottesa al ruolo del vescovo in quanto tutore: «Di fronte a una inquisitio generalis che si delinea “quando inquiritur super statu civitatis, vel castri, vel alicuius loci”, l’inquisitio specialis è “contra certam personam et fit non ad poenam imponendam, sed ex debito officii”», cfr. Ferrante., 341-43.

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premo che si manifestava innanzitutto nella vigilanza, intesa come presenza fisica del so- vrano, o perlomeno di un suo diretto rappresentante. Numerose evidenze documentarie dimostrano infatti come, sin dal Tardo Medioevo, proprio quest’esigenza di visibilità fosse alla base della diffusione pressoché universale della visita secolare, intesa sia quale prassi ispettiva sia quale fondamento giurisdizionale di regni e feudi euro-mediterranei; tale uso si sarebbe poi conservato persino nei grandi imperi coloniali della prima età moderna, pur se aggiornato nella concezione e nelle modalità, nonché nei grandi imperi asiatici, preco- lombiani e islamici98.

Nel panorama frammentario e particolaristico della penisola italiana, costituito da un vasto radicamento della tradizione comunale e nello stesso tempo dalle ampie zone grigie dell’eredità feudale, il ricordo del rex ambulans e l’immagine franco-longobarda dei tribu- nali itineranti si saldavano invero con una gamma di «inchieste condotte secondo diverse finalità e metodi procedurali, irriducibili a un unico tipo di inquisitio» e che furono, dal punto di vista politico, «certamente strumenti di controllo, repressione, pacificazione e ac- quisizione di conoscenze, ma anche di “dialogo politico tra diseguali”»99.

Sulla base degli studi svolti sui territori svevi e angioini, sia nell’Italia che nella Francia meridionali, si può dire che una precondizione essenziale di tale dialogo politico era forse qualcosa di simile al controllo di sindacato, che, introdotto nelle Constitutiones Regni Siciliae di Federico II di Svevia (1239-‘40), e presumibilmente praticato dalle curie dei «giustizieri» da esse istituiti100, venne in seguito recepito e metabolizzato dalla cultura e dalla prassi

98 Per una bibliografia esaustiva sulle visite e sui loro contesti d’origine è fondamentale il lavoro di Alessandro

Dani, Le visite negli Stati italiani di Antico regime, «Le Carte e la Storia», 18, n. 1 (2012): 43–62, alle cui considera- zioni farò spesso riferimento nelle prossime righe. Per le visite negli imperi moderni e premoderni e nelle loro basi territoriali europee, si vedano, oltre allo stesso Dani, i riferimenti l’introduzione al volume: L’enquête

au Moyen âge, études réunies par Claude Gauvard (Rome: École française de Rome, 2008), edizione online; Gio-

vanni Muto, «Comunità territoriali e forme di controllo amministrativo nel Mezzogiorno spagnolo», in Comu-

nità e poteri centrali, 225–42; Mireille Peytavin, Visite et gouvernement dans le royaume de Naples (XVIe-XVIIIe siè- cles) (Madrid: Casa de Velázquez, 2003). Interessante poi è il caso degli hükms, visitatori dell’Impero ottomano

istituiti nel corso di una fase di tentata integrazione politica delle reggenze nordafricane, i quali avviavano «investigations of abuses committed by the governor-generals, provincial kaids, local janissaries and cor- sairs», cfr. Emrah Safa Gürkan, The centre and the frontier: Ottoman cooperation with the North African corsairs in

the sixteenth century, «Turkish Historical Review» 1, n. 2010 (s.d.): 125–63, in particolare 157.

99 Dani, Le visite, 45, che riprende l’opinione di Luigi Provero, Dai testimoni al documento: la società rurale di fronte

alle inchieste giudiziarie (Italia del nord, secoli XII-XIII), in L’enquête au Moyen âge, op. cit., 75-88.

100 Raffaele Pescione, Corti di giustizia nell’Italia meridionale. Dal periodo normanno all’epoca moderna, (ristampa

anastatica dell’edizione di Milano del 1924) ([Bologna]: Forni, 2001), pp. 15-17 e p. 128. Secondo l’autore: «Ai giustizieri fu commessa la somma dei poteri esecutivi del mero imperio tranne che per le questioni che ri- guardavano i grandi feudi, ma si volle che essi, col loro giudice e col notaio, girassero per le terre al duplice scopo di render più agevole l'amministrazione della giustizia e di garantire la sicurezza pubblica e il buon funzionamento degli inferiori organi. Il numero dei giudici venne ben limitato e specialmente vennero colpiti coloro, ecclesiastici e baroni, che usurpassero attribuzioni giudiziarie». La dinamica qui brevemente descritta richiama dunque una situazione di conflittualità e concorrenza tra potere regale e poteri locali, alla quale la

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giuridica dei conti d’Anjou; i quali, una volta assurti alla dignità regale, lo utilizzarono in Provenza tra gli anni ’80 e ’90 dello stesso secolo, affidandolo ad apposite corti itineranti di

siniscalchi, il cui compito precipuo era di «facilitare ai sudditi l’accesso alla giustizia», rac-

cogliendo le loro lamentele in via generale e verificando poi, tramite procedure inquisitorie più specifiche, l’attività giudiziaria e amministrativa delle giurisdizioni periferiche101.

Quest’ultime infatti godevano di un’indipendenza funzionale che spesso e volentieri si trasformava in una sorta di giurisdizione privata, in diretta concorrenza con quella comi- tale, e a cui si imputavano quotidiani abusi di potere, nonché episodi di malversazione, corruzione e concussione. Secondo lo storico Jean-Paul Boyer, l’ordonnance con la quale nel 1266 gli Angioini istituirono i parlamenti dei siniscalchi aveva una forte valenza morale perché coinvolgeva direttamente «la coscienza del re», manifestando il suo dovere speciale di correggere la propria amministrazione; ciò peraltro motivava la «continuità di una pro- cedura straordinaria» che aveva risvolti immediati sia nel recupero di beni e denari “usur- pati” alla Corona sia nella resa di giustizia102.

Vi era quindi, anche in questo caso, la compresenza di un aspetto politico-giudiziario e di uno di tipo economico-finanziario; elementi che, assieme alla replica dello schema in- quisitorio tripartito (pubblico bando – inquisizione generale – inquisizione speciale), fanno pensare a una sorta di rielaborazione secolare e monarchica dell’antica visita di sindacato di matrice vescovile e imperiale103. Senza dubbio uno dei caratteri più salienti del feno-

meno, in rapporto ad un paesaggio giurisdizionale inserito in una compagine di tipo «re-

Corona rispondeva tra l’altro imponendo ai propri rappresentanti determinate «garanzie»: che erano ap- punto «il sistema di sottoporre a sindacato un funzionario», «l’imposizione di un giuramento» e il fatto che costui non dovesse avere alcun legame o interesse col paese che andava ad amministrare.

101 Jean-Paul Boyer, L’espace provençal sous l’administration de la première maison d’Anjou-Naples, in Actes du col-

loque : Des principautés aux régions dans l’espace européen, s. l.: Université Jean Moulin Lyon 3, s. d., 1–26 [sezione

III]. Cfr. anche François Bérenger, Le contrôle des officiers du royaume de Sicile dans les derniers tiers du XIIIe siècle

(1266-1300), in Hiérarchie des pouvoirs, délégation de pouvoir et responsabilité des administrateurs dans l’Antiquité et au Moyen Âge. Acte du colloque de Metz, 16-18 juin 2011, édités par Agnès Bérenger et Frédérique Lachaud, Metz:

Centre de Recherche Universitaire Lorrain d’Histoire, 2012, 231–52.

102 Infatti, «toute le déroulement du procès relevait de la responsabilité des enquêteurs, autorisés à utiliser

une procédure sommaire, en dehors du tribunal, garantie de décisions rapides et donc efficaces», cfr. Boyer,

L’éspace provençal. Sul rapporto tra «procedura sommaria» e resa di giustizia in antico regime cfr. Simona

Cerutti, Giustizia sommaria. Pratiche e ideali di giustizia in una società di Ancien Régime (Torino XVIII secolo) (Milano: Feltrinelli, 2003). .

103 Non è mia intenzione fare in questa sede, e in grazia di pochi esempi, del determinismo storico; la mia

analisi si appoggia piuttosto sul postulato di una mentalità giuridica comune, influenzata dal ricordo o dalla rielaborazione inconscia di antichi stili e prassi giudiziarie. In modo più circostanziato, per l’età moderna, Alessandro Dani ha sottolineato come le sicure analogie tra le visite nelle diverse realtà statuali di antico regime fossero dovute «alla circolazione di modelli istituzionali tra i vari Stati, favorita dalla presenza di comuni basi teoriche offerte dal diritto comune», pur non mancando opportunamente di sottolineare che i poteri dei magistrati visitatori erano definiti da commissioni e circostanze specifiche, ossia «dalle istruzioni di volta in volta impartite dal sovrano», cfr. Dani, Le visite negli Stati italiani, 44.

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gionale» o «territoriale», è la dinamica politica da esso innescata: quella cioè dell’accentra- mento dei poteri, sancito non solo dal carattere di rappresentanza del sovrano insito nella figura del visitatore ma anche e soprattutto dal suo proprio potere giudiziario «straordi- nario», generalmente riscontrabile anche nelle altre declinazioni storiche della giurisdi- zione itinerante; aspetto, questo, che è stato interpretato dagli studiosi sotto l’ottica cor- retta ma esclusiva dello statecraft, cioè della lenta e inesorabile costruzione dello «stato», molte volte senza soffermarsi troppo sulle caratteristiche effettive di questa concorrenzia- lità del centro con le giurisdizioni locali104.

Questo paradigma interpretativo, che lega l’affermarsi della giurisdizione d’appello del sovrano alle dinamiche di territorializzazione del suo potere, assume infatti piena validità quando ci si trova in presenza di un «centro dominante» già formalmente costituitosi come tale: nei cui confronti, cioè, i poteri periferici siano chiaramente titolari di una delega dell’autorità, come ad esempio nei cosiddetti «stati nazionali» dell’età moderna105.

Nel caso dei regni medievali quali i domini Angioini del Sud Italia, il sovrano era invece ancora prigioniero della dialettica vassallatica, trovandosi di fronte a territori spesso già ceduti da generazioni a dinastie baronali o comitali, tramite una mera investitura formale; dinastie le cui prerogative di governo, pertanto, si poggiavano a loro volta, e in totale le- gittimità, su consuetudini e usi giuridico-amministrativi provenienti dalla giurisprudenza feudale locale, oltre che su evidenti asimmetrie di potere: usi e consuetudini, cioè, la cui destrutturazione in favore del centro era assai ardua da mettere in pratica, senza una piena delegittimazione politica.

Senza, in altre parole, la loro sostituzione con un sistema di leggi o comunque con una narrazione giuridica che mettesse in luce, agli occhi dei sudditi, il loro carattere di abuso e quindi la loro inservibilità. In assenza di una chiara e inequivocabile delega di poteri da parte delle autorità centrali verso le autorità locali (in assenza, cioè, di commissioni speci- fiche in grado di vincolare i vassalli a determinate funzioni e sfere di competenza), era ne- cessario esibire dinanzi ai sudditi l’opportunità di un’opzione giurisdizionale alternativa e

104 Esempi di tale tendenza storiografica per il periodo tra Basso Medioevo e prima età moderna si hanno in

Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, op. cit., 81-174; Andrea Zorzi, L’amministrazione della giustizia penale

nella repubblica fiorentina. Aspetti e problemi, (Firenze: Olschki, 1988), 35-36 [già apparso in «Archivio Storico

Italiano», 533-34 (1987)]; Viggiano, Governanti e governati; Lazzarini, L’enquête.

105 Romain Telliez, «Sous ombre de son office». Délégation du pouvoir royal et responsabilité des officiers en France à

la fin du Moyen Âge, in Hiérarchie des pouvoirs, op. cit., 291–309. Secondo l’autore ancora alla fine del Medioevo

il mandato, ovvero la commissione, degli ufficiali regi non ne fonda l’autorità, pur essendo comunque un fattore legittimante. Cfr. anche Id., «Per potentiam offici». Les officiers devant la justice dans le royaume de France

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altrettanto legittima rispetto a quelle consuete; di un’autorità, cioè, lontana ma vigile, fisi- camente presente e in grado di inserirsi negli spazi interlocutòri lasciati dalle culture e dai particolarismi locali, ovvero nelle locali relazioni di potere, per mostrarne le crepe e all’oc- correnza sovvertirle, ma senza imporvisi a forza.

Uno degli effetti della coesistenza, giustapposizione o sovrapposizione di inchieste re- gie, visite e procedure di sindicato sembra essere proprio questa tendenza: per esempio nei Regni di Napoli e di Sicilia, laddove i rappresentanti della nuova casa regnante degli Anjou si trovarono a inquisire baroni e feudatari locali per reati che i primi non esitarono ad ascrivere alla sfera della corruzione, mentre in realtà poteva trattarsi di consuetudini di prelievo fiscale che rispondevano a particolari esigenze di investimento106. Le inchieste an-

gioine, in pratica, andavano a sovrapporsi a gerarchie e consuetudini già in essere cercando di cambiarne il vocabolario giuridico, in modo da poter delegittimare dal punto di vista politico coloro che avevano la responsabilità della iurisdictio; dimostrando appunto che co- storo erano in realtà inadatti al dovere di cui erano stati anticamente investiti, e che per- tanto era necessaria la tutela, ovvero la verifica, del sovrano sul loro operato.

D’altronde, nel corso di queste procedure d’inchiesta, la raccolta degli elementi di ac- cusa su cui edificare l’inquisizione speciale e l’apparato probatorio che la sorreggeva ri- chiedevano, nella fase preliminare dell’inquisizione generale, una diretta partecipazione del populus nel senso più ampio del termine, richiamando al cospetto dei rappresentanti del potere sovrano i membri di qualsivoglia ceto sociale e professionale: contadini, artigiani e notabili, ciascuno coinvolto in un rituale giudiziario che era al contempo un rituale di investitura politica e che, nel caso dell’Italia meridionale, fu destinato ad essere raccolto dalla Corona Aragonese, pur non senza tensioni107.

106 Serena Morelli, “Ad extirpenda vitia”: normativa regia e sistemi di controllo sul funzionariato nella prima età an-

gioina, «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age», 109, n. 2 (1997): 463–75. Riguardo per esempio

alle inchieste condotte contro due importanti dinastie baronali, i Ruffolo e i La Marra, l’autrice afferma: «Ac- cusati di peculato ai danni delle popolazioni, con la duplice imputazione di avere estorto ai sudditi più del dovuto e di essersi appropriati indebitamente dei guadagni, i personaggi incriminati sfruttavano in realtà una pratica che era diffusissima nelle curie degli ufficiali regnicoli: quella di trattenere presso di sé buona parte dei proventi pubblici da riutilizzare per le spese necessarie sul territorio della propria giurisdizione. Tale pratica va collocata nell’ambito di un sistema che prevedeva anche il prestito sistematico alla Corona di ingenti ricchezze da parte degli ufficiali, dell’amministrazione periferica come di quella finanziaria, e che consentiva loro, in sostanza, un’ampia discrezionalità nella gestione delle risorse e degli introiti. È di tale discrezionalità che gli ufficiali si avvalevano spesso assai più al fine di un arricchimento personale che non di garantire il buon andamento dell’amministrazione regnicola. E allora, l’intervento contro i Ruffolo e i Della Marra non si colloca solo in un’ottica mirante a modificare un sistema organizzativo corrotto. Certo, esso nasce da esigenze finanziarie, ma va inserito nel disegno politico di una Corona bisognosa non solo di recu- perare il consenso dei sudditi, ma anche di erigersi a distributrice delle fortune dei propri fedeli e dunque pure delle loro disgrazie», Ivi, p. 31.

107 Giuliana Vitale, “Universitates” e “officiales regii” in età aragonese nel Regno di Napoli: un rapporto difficile, «Studi

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La visita, in quanto inchiesta itinerante o, di frequente, effettiva visita di sindacato, fu quindi di fatto uno dei primari meccanismi politici con cui le case regnanti cercarono di imporre la propria autorità alle nobiltà vassallatiche delle aree rurali o alle élites delle città autonome a quelle formalmente soggette, servendosi dei sudditi di minor rango per rove- sciare i rapporti di forza locali in favore della Corona, e ciò sia a livello giurisdizionale che a livello finanziario (perché i processi per corruzione a baroni e rettori di città consenti- vano di recuperare risorse in via straordinaria, tramite la confisca dei beni illecitamente sottratti, nonché talora di incidere sulle normative di esazione tributaria del posto). In tal senso, quel «dialogo politico tra diseguali», evidenziato da Dani e Provero, aveva una sua precisa funzione politica, andando certo nella direzione di uno statecraft realizzato su basi tanto materiali quanto giuridiche ma forse in modo non ancora pienamente consapevole.

Infatti, almeno nel caso dei poteri monarchici, la giustificazione ideologica del diritto della Corona a commissionare inchieste e visite stava in primo luogo nel fatto che a quella l’autorità sovrana era stata affidata de iure divino, per il tramite cioè della loro originaria investitura papale o imperiale. Ciò non solo legittimava le monarchie ad esigere la fedeltà dei sudditi più umili e lontani nonché, innanzitutto, dei propri vassalli, fossero essi singoli feudatari o città soggette; ma anche permetteva a quelle di proiettare, su tutte queste com- ponenti sociali, proprio lo schema psicologico e giuridico della tutela.

La visita, e con essa l’inchiesta sindacale, avevano quindi la duplice funzione di mani- festare dinanzi al populus la presenza fisica del sovrano e di rinnovare l’atto di fidelitas del vassallo; ma anche, all’occorrenza, di tutelare ufficialmente tali soggetti, misconoscendo l’autorità di chi, tra di loro, non si conformava allo statu quo ovvero metteva a rischio l’or- dine giuridico salvaguardato dall’autorità centrale dimostrandosi incapace di gestire il pa- trimonio delle comunità locali. Con la visita si esibiva cioè, assieme al «corpo materiale» dei visitatori o sindacatori regi, la forza di quel «corpo politico» immanente che nel corso del medioevo era identificabile soprattutto coll’autorità monarchica108; la spontanea asso-

ciazione tra sovranità e monarchia permetteva così a quella di imporsi su realtà locali di per sé autonome, approfittando del fatto che queste erano impossibilitate, per cultura po- litica e per soggezione formale, a reclamare quella stessa idea di sovranità. E tali realtà potevano corrispondere non solo alle aristocrazie fondiarie ma anche ai patriziati di città commerciali floride ma assoggettate a qualche forma di rapporto vassallatico.

108 Ernst H. Kantorowicz, The king’s two bodies. A study in mediaeval political theology, terza (Princeton: Princeton

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Quest’ultimo caso si diede, significativamente, proprio a partire dal secolo XIV: in un momento cioè di sostanziale declino della sindacazione comunale e di quell’ideale di libertas politica che l’aveva sostenuta, nonché, corrispettivamente, in parallelo alla ripresa delle visite-inchieste su scala regionale, spesso associate a un tipo di sindacazione che qui chia- meremo convenzionalmente «sindacazione mandataria»109. In altre parole, almeno in al-

cune realtà statuali, il XIV secolo si contraddistinse come un’epoca di passaggio che vide, contestualmente alla crisi delle procedure di sindacato cittadine, il prevalere della sinda- cazione mandataria, condotta da magistrati regi o comitali per conto (ossia su ‘mandato’ o ‘commissione’) della Corona nei confronti di vassalli od officiali cittadini da essa dipendenti – oppure, nei nascenti stati signorili, da «commissari» plenipotenziari inviati dalla città Dominante a inquisire i rettori da questa incaricati di governare i territori del Dominio110.

La sindacazione mandataria era insomma una procedura in grado di imporsi all’interno di realtà statuali a dimensione territoriale o regionale, laddove cioè il pluralismo delle giu- risdizioni e dei diritti implicava non tanto una competizione tra «centro» e «periferia»