La nostra indagine genealogica, o meglio archeologica, del sindacato itinerante si è dunque appena nutrita di una esigua ma significativa rassegna di esperienze sindacali ita- liane ed europee, ovvero fondamentalmente euro-mediterranee. Abbiamo appena visto come nel corso del Medioevo, dalle ceneri dell’Impero romano e dei suoi istituti, si fossero sviluppate una serie di procedure sindacali alquanto eterogenee nelle loro manifestazioni specifiche (la durata della procedura; i magistrati che se ne incaricavano; i suoi ambiti di applicazione; il tipo di contesto giurisdizionale – cittadino o territoriale) ma cionondimeno accomunate da alcuni elementi strutturali (lo schema inquisitorio di base e le sue matrici canonistiche; la relazione giuridica della tutela e il suo conseguente inquadramento nell’ambito della negotiorum gestio; l’idea del sindaco quale rappresentante del tutor, regio, vescovile o comunale che fosse).
L’analisi del rapporto di tutela, in particolare, ci ha consentito di testare la declinazione della procedura sindacale in contesti politici assai eterogenei (l’Italia dei Comuni, l’Italia dei baroni, la Provenza comitale, la Spagna pre-imperiale, la Firenze territoriale), aiutan- doci a rilevare come il dominio della sindacazione fosse un terreno di conflitto che espri- meva sia la concorrenza che la coabitazione di differenti giurisdizioni, e che le strutturava
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secondo un determinato ordine gerarchico: si trattasse della sindacazione attuata su istanza di poteri sovrani (monarchici o feudali) non pienamente egemoni nei confronti dei propri vassalli, o dei controlli commissionati dalle repubbliche cittadine verso i propri rap- presentanti distaccati nei domini territoriali. In entrambi i casi, vi era il protagonismo di un potere politico apicale, già legittimato dalla legge, dalla religione, o dalla diplomazia, che cercava di rendere concreta e visibile tale legittimazione verso le proprie componenti centrifughe, ad esso teoricamente soggette per via militare o pattizia, affiancando a queste un ordinamento giuridico sovraordinato rispetto agli ordinamenti locali tradizionali.
Non si era ancora in presenza, tra Medioevo e Rinascimento, di un maturo concetto di «stato», ovvero di una piattaforma politica che definisse con coscienza e coerenza i confini della sovranità territoriale di un centro di potere su basi diverse e indipendenti da quelle della Chiesa e dell’Impero; tuttavia, come dimostra anche la disputa tenutasi presso le Cor-
tes di Valencia cui abbiamo accennato più sopra, si può dire che già nel primo Quattrocento
si possono riscontrare, almeno a livello embrionale, i segni di una coscienza politica di- versa, maturata in seno agli stati regionali o territoriali se non altro per esigenze di stabilità e pacificazione interna.
In tale frangente, e in particolare nel periodo tre-quattrocentesco, si colloca un po’ ovunque la crisi delle tradizionali procedure di sindacato cittadino, espressioni di una men- talità patrimoniale e corporativa dello stato: una crisi spesso espressa nella scomparsa di tali procedure, nella loro sostituzione con procedure straordinarie più irrituali oppure nel loro inglobamento entro l’antico istituto giuridico della visita, declinato nelle forme dell’in- chiesta regia o del commissariamento di una città “dominante” sui distretti dominati. Il sindicato cioè finì spesso per assumere una forma itinerante, o comunque venne a integrare visite e inchieste deliberate dai poteri centrali, ricalcando in qualche modo sul piano seco- lare i meccanismi delle antiche visite pastorali (l’inquisitio e il reddere rationem) e andando perciò a costituire quella che qui ho chiamato la ‘sindacazione mandataria’: una procedura di sindacato itinerante definita nei tempi e nei modi dalle specifiche commissioni del so- vrano che la ordinava.
In tutte queste forme di controllo, lo schema inquisitorio di base della procedura sin- dacale (bando pubblico – inquisizione generale – inquisizione speciale), assieme ai dibatti- menti processuali che eventualmente ne seguivano, aveva come protagonisti principali quei sudditi che erano governati dagli ufficiali destinatari dell’inquisizione; sudditi ai quali si proponeva una forma di partecipazione alla verifica di governo che era, più che una reale modalità di coinvolgimento delle comunità interessate, una sorta di plebiscito ante litteram
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sulla presenza materiale e spirituale del sovrano mandatario. Lo scopo di questo non era tanto quello di accentrare o sorvegliare i governanti ordinari, quanto piuttosto di eludere la loro autonomia politica, riducendone il raggio d’azione, ponendovi dei confini che non intaccassero lo spazio d’esercizio del potere centrale, ossia che non costituissero una mi- naccia per quest’ultimo120.
Sia nel caso dei rettori periferici nominati dalle res publicae cittadine, sia in quello degli ufficiali di nomina regia, i governatori distrettuali non erano delegati a svolgere determi- nate funzioni del centro, ma piuttosto da questo investiti di una serie di prerogative assai generiche; quest’ultime conferivano loro notevoli poteri in fatto di giurisdizione civile e penale, ambiti in cui essi si trovavano a disciplinare usi e costumi particolari. Nello stesso tempo, queste teoriche commissioni legittimavano tali personaggi anche a livello ammini- strativo, dando loro un discreto margine di libertà politica, per esempio nelle decisioni ri- guardanti le opere pubbliche civili e militari, ovvero del loro finanziamento mediante quei cespiti fiscali che erano raccolti sul posto dal rettore e dai suoi massari, direttamente o sotto la forma dell’appalto a collettori privati. I rappresentanti ordinari del potere egemonico, dunque, ancor più quando non erano assistiti da assessori o notai del luogo amministrato, detenevano un’ampia dose di autonomia, la quale poteva trasformarsi in arbitrio.
E ciò in buona o cattiva fede, cioè non necessariamente per dolo, ma anche per igno- ranza o incapacità: in ogni caso, il pericolo per il potere sovrano era che l’alterazione, da parte di un proprio rappresentante, dello stato di ‘pace’ stabilito da accordi pregressi con le comunità soggette compromettesse quella relazione di tutela giuridica e gestione del patrimonio fiscale che le stesse comunità avevano accettato al momento del proprio assog- gettamento, ossia nell’ambito della stipula di specifici pacta di fedeltà o di dedizione con il sovrano di cui esse avevano accettato la protezione121.
120 La debole coscienza politica dei poteri dominanti era peraltro speculare a quella della riflessione giuridica
sui confini della giurisdizione sovrana; secondo lo storico del diritto Paolo Marchetti, ancora tra fine '300 e metà '500, riguardo ai confini dello stato «le soluzioni che i giuristi registrano o promuovono non alterano, nella sostanza, l'architettura di un complesso ordinamento politico, giuridico e territoriale che nei secoli dell'età di mezzo era stato pazientemente edificato», tanto che «”pubblicizzazione” delle dinamiche di con- duzione dei processi non sta ancora per “statalizzazione” del processo; così come una più chiara delimita- zione degli ambiti di efficacia delle norme penali [...] non è ancora il segno della pretesa sovranità di un de- terminato ordinamento politico su di un territorio definito nei suoi contorni», cfr. Paolo Marchetti, I limiti
della giurisdizione penale. Crimini, competenza e territorio nel pensiero giuridico tardo-medievale, in Criminalità e giu- stizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna/Kriminalität und Justiz im Deutschland und Italien. Rechtspraktiken und gerichliche Diskurse in Spätmittelalter und Früher Neuzeit,
a c. di Marco Bellabarba, Gerd Schwerhoff, e Andrea Zorzi (Bologna-Berlin: Il Mulino-Duncker & Humblot, 2001), 85–99: 86-87.
121 Per tutto l’antico regime, nella sostanza, «il principio organizzativo dello Stato regionale è che “quaelibet
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La visita di sindacato, negli stati territoriali, non costituiva quindi un modo per veico- lare un’imposizione diretta delle regole e della mentalità di un potere a dimensione «sta- tuale» sulla vita e sull’amministrazione di un luogo specifico ma piuttosto era un modo per delimitare politicamente la giurisdizione di quest’ultimo, per circoscriverne il raggio d’azione entro uno spazio controllato e dunque inoffensivo, perlomeno rispetto al pro- blema della coesistenza di poteri egemonici e «piccole patrie».
La visita in pratica fungeva da volano per eliminare la concorrenza (reale o potenziale) tra poteri centrali e poteri locali. Tale concorrenza era naturalmente indotta dal pluralismo giuridico degli stati di antico regime, ossia dalla coabitazione forzata, entro uno spazio po- litico-territoriale, di milieu sociali e giuridici di diversa natura e tradizione, dei quali era essenziale mantenere in una certa misura la vitalità e il protagonismo, pur entro un «or- dine del discorso» gradualmente monopolizzato dal potere sovrano122: un «ordine del di-
scorso» in cui il sindacato degli officiali rappresentava la concretizzazione di quella «co- scienza del re» che doveva fare i conti con vassalli o reggitores che, nonostante la propria investitura, figuravano dotati di una propria personalità di corpo, non ancora chiaramente soggetti cioè ad una visione dello stato di tipo ‘pubblicistico’.
Tale ordine del discorso sarebbe stato poi gradualmente soppiantato in molti territori dallo sviluppo di un concetto di «stato» moralmente più neutro, in base al quale la graduale e lenta rarefazione del sindacato fungeva da contraltare a un’idea più consapevole della responsabilità degli ufficiali quali emanazione diretta del corpo sovrano, delegati cioè ad amministrare uno spazio politico-territoriale che era la proprietà di un potere impalpabile ma onnipresente, di cui essi vennero a costituire il braccio operativo e insindacabile. Ma sino a quel momento, sino a che tale nozione di potere e di stato non si impose definitiva- mente in Europa e nel mondo, la nozione di sindacato (con la sua frequente fusione nella
subordinazione non sia provata in base a qualche titolo storico specifico» e ciò sia per quanto riguarda i rap- porti tra due comuni sudditi sia per le relazioni tra questi e la città dominante «la quale trova il fondamento dei suoi poteri di supremazia su di essi non in un unico titolo istituzionale, ma nelle singole dedizioni con cui ogni comunità si è a lei sottoposta in un certo momento del tempo», cfr. Luca Mannori, Il sovrano tutore. Plu-
ralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici, secc. XVI-XVIII (Milano: Giuffrè,
1994), 37-38. Come abbiamo visto per il caso valenzano, la dialettica pattizia normava anche i rapporti di soggezione di singole comunità a sovrani monarchici, dando luogo a continue negoziazioni e compromessi, cfr. supra, n. 47.
122 Per tutto l’antico regime l’indubbia tendenza all’accentramento dei poteri all’interno degli stati regionali
e nazionali si svolse all’insegna dell’armonizzazione, più che all’omologazione, delle diverse autonomie giu- ridiche, pur secondo un ordine concentrico che privilegiava il centro dominante: il modello costituzionale che designa tale processo è stato identificato come «stato giurisdizionale», in risposta ai potenziali anacroni- smi insiti nella controversa categoria di «stato moderno». Cfr. Maurizio Fioravanti, Stato e costituzione. Tale definizione di stato sarà quella che privilegeremo e sottintenderemo anche nei prossimi capitoli.
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giurisdizione itinerante) continuò variamente a riaffiorare, quale segno della tutela as- sunta da un determinato potere sovrano, monocratico o collegiale, rispetto al patrimonio finanziario e giuridico delle comunità a quello assoggettatesi; quest’ultime, pur figurando ancora quali proprietarie nominali di tale patrimonio, di fatto erano considerate inadatte a gestirlo, in grazia della ‘minorità’ politica e militare implicata dalla loro più o meno spon- tanea dedizione a un potere più forte.
Di tal genere erano considerate anche le «colonie d’oltremare» delle cosiddette «re- pubbliche marinare» italiane, e in particolare di quelle storicamente più durature, Genova e Venezia, dotate, com’erano, di un oltremare frammentario e conflittuale, soggetto alle pressioni militari e commerciali delle potenze orientali (greche, arabe, turche o mongole), nel quale gli insediamenti dei «latini» erano intrinsecamente ritenuti dalla «madrepatria» come bisognosi di protezione123. D’altro canto, tali insediamenti erano legati a doppio filo
con le strategie di singole dinastie o ‘fraterne’ mercantili, vale a dire con interessi la cui dimensione privata non era del tutto scissa dalla posizione di potere assunta da ciascuna famiglia nel sistema istituzionale della «madrepatria»: la tutela delle comunità soggette poteva quindi corrispondere a quella di interessi particolari, ovvero di determinati ‘equili- bri di interessi’ variamente riprodottisi extra moenia tra i cittadini originari.
Le città ‘dominanti’ degli stati regionali italiani governati da regimi repubblicani (ov- vero anti-signorili) vedevano infatti prevalere, ancora nel corso della prima età moderna, una logica del potere di tipo spartitorio e collegiale, ancorché sovente praticata da ristrette oligarchie: una logica che, come nel caso della Repubblica di Lucca, premiava l’ascesa al potere dei membri di un numero limitato di clan familiari, e che pertanto esigeva di quando in quando la creazione di magistrature e offici straordinari, a compensare l’aspra concor- renza tra parentele ma anche a salvaguardare gli assetti di potere, materiali e spirituali, prodotti da quella stessa concorrenza. In tal senso, la creazione relativamente tardiva, a Lucca, di magistrature sindacali (il Maggior Sindico e Giudice degli appelli; metà XVI secolo; il
Sindacatore degli Offiziali, 1618-1659) potrebbe essere il contrassegno della stabilizzazione o
123 Ho utilizzato qui i termini «colonie d’oltremare» e «madrepatria» in senso convenzionale, adeguandomi
alla terminologia diffusa nell’attuale storiografia medievista ma tenendo presente il senso più debole del ter- mine «colonia» nel Medioevo, così come evidenziato da Guillaume Saint-Guillain, Protéger ou dominer? Venise
et la mer Égée (XIIIe-XVe siècle), in Il «Commonwealth» veneziano, op. cit., 305–38, cioè in contrasto all’accezione
più moderna e «imperialista» di queste categorie proposta invece dagli scritti di Freddy Thiriet e Michel Ba- lard, cfr. Thiriet, La Romanie vénitienne; Michel Balard, La Romanie génoise (XIIe - début du XVe siècle), 2 vol. (Roma - Genova: École Française de Rome - Società ligure di storia patria, 1978); Michel Balard, a c. di, État et
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del tentativo di salvaguardia di uno status quo politico e finanziario che iniziava ad irrigi- dirsi, rifiutando la pressione di elementi esterni al sistema e proponendosi verso i propri cittadini/sudditi come tutore autonomo, imparziale e finalmente disincarnato124.
Sotto questa luce, la ratio intrinseca alle varie forme di sindacato prodotte dalle repub- bliche cittadine, persino nei loro lontani comptoir d’oltremare, ci appare un po’ più chiara, sia in considerazione della loro relativa indipendenza politica, sia rispetto alle loro specifi- che esigenze finanziarie, fortemente interessate dalle perfomance economiche dei cittadini- mercanti; questi erano appunto dislocati, nel caso di Genova e Venezia, sulle rotte redditi- zie ma insidiose di Costantinopoli, Alessandria e Damasco. Anche extra moenia, così, il sin- dicato continuava ad essere innanzitutto una procedura di audit, che si applicava non solo ai patrimoni dei distretti territoriali prossimi alla civitas dominante, bensì a tutti quegli elementi che ne costituivano in qualche modo una filiazione, dall’amministrazione dei ca- richi dei convogli navali agli insediamenti mercantili in terra straniera, alle vere e proprie terre di conquista oltremarine; in ciascuna di queste realtà, i consoli, i massari e i podestà, alla fine del proprio mandato, dovevano reddere rationem nelle mani del successore o di un altro magistrato appositamente incaricato, sia nella colonia che al ritorno in patria125.
Non stupisce, dunque, che pure le repubbliche di Genova e Venezia abbiano iniziato ad eleggere ed inviare dei sindici deputati al controllo e alla revisione di bilanci, atti e proce- dure nei loro principali reggimenti d’oltremare: quest’ultimi erano distribuiti lungo le rotte di navigazione battute dai propri mercanti e avventurieri, oppure sorti qua e là, tra mar Egeo e mar Nero, in virtù di accordi e conflitti con gli imperi territoriali di quell’area, prima bizantino e poi ottomano. Curiosamente, però, entrambe le città diedero avvio alle missioni sindacali mobili all’incirca a partire dalla seconda metà del secolo XIV, cioè in un momento parecchio successivo alla loro espansione coloniale in Levante, nonché conte- stuale allo sviluppo della sindacazione itinerante nelle altre realtà territoriali europee.
124 Per le principali caratteristiche socio-antropologiche, economiche e politiche del patriziato lucchese, poi
divenuto “nobiltà” verso la fine del Cinquecento, si veda Marino Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cin-
quecento (Torino: Einaudi, 1965), 22-31 e passim. A livello di teoria giuridica, tra le funzioni del Maggior Sin-
daco, responsabile del controllo degli ufficiali nel Cinquecento, colpisce l'associazione di questo a un collegio del quale faceva parte anche il giudice delle vedove e dei pupilli; notevole altresì la saltuarietà del Sindacatore degli Offiziali, attivato fra Cinque e Seicento con lo scopo di raccogliere le notizie di reato in primo luogo dalle querele dei sudditi contro gli officiali pubblici responsabili di torti e ingiurie nei loro confronti, cfr. Salvatore Bongi, a c. di, Inventario del Regio Archivio di Stato in Lucca, ristampa anastatica, vol. 2, 4 vol. (Lucca: Istituto Storico Lucchese, 1999), 391-93; 397-98.
125 Particolarmente diffusi e ripetuti risultano i rendiconti pretesi dalle autorità repubblicane di Genova, cfr.
Mario Buongiorno, L’amministrazione genovese nella «Romania». Legislazione - magistrature - fisco (Genova: Bozzi, 1977), 68 e passim.
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Come dimostra il caso della Repubblica di Genova, la nascita del sindacato d’oltremare nelle repubbliche marinare fu legata, almeno all’inizio, a un vero e proprio meccanismo d’imitazione degli ordinamenti comunali della città dominante, motivato dal fatto che i primi insediamenti della Superba in Levante erano al proprio interno etnicamente omoge- nei, trattandosi di guarnigioni a carattere militare o piccole enclave commerciali religiosa- mente «latine» (cioè cattolico-romane) ed etnicamente franche o italiche; queste però erano inserite in contesti ambientali, culturali, religiosi e politici radicalmente diversi da quello di provenienza, quali appunto quelli di matrice greca, turca e mongola (per le colo- nie commerciali genovesi a Costantinopoli, come Pera, e in Crimea, come Caffa e Soldaïa), nonché araba (per la colonia d’Alessandria d’Egitto).
Tali insediamenti dunque, essendo composti da coloni a stragrande maggioranza geno- vesi e liguri, erano normati e amministrati secondo il diritto genovese, ampiamente radi- cato nel dominio del diritto comune; anche dal punto di vista delle gerarchie sociali ed economiche, delle corporazioni, delle élite aristocratiche e delle fazioni politiche, le società presenti entro tali comptoir riproducevano in pieno le strutture già vigenti in seno alla ma- drepatria126.
Sia in queste che in altre realtà mediterranee (come le isole di Chio e Cipro, dove i ge- novesi si insediarono attraverso il meccanismo delle maone, adottato in seguito anche in Corsica)127, l’affermazione della presenza della Repubblica ligure procedette con considere-
vole lentezza, e di fatto iniziò a divenire stabile solo dopo il 1261, quando con il Trattato di Ninfeo il nuovo imperatore bizantino premiò l’aiuto genovese nella riconquista ‘greca’ di Costantinopoli ai danni dell’Impero latino128.
Ai danni, cioè, di quel nuovo e provvisorio impero di Costantinopoli a reggenza franco- veneta insediatosi all’indomani della Quarta Crociata (1204): ossia all’indomani di un san- guinoso conflitto che, lungi dal dirigersi verso la Terra Santa, era stato preventivamente deviato dalle manovre diplomatiche di Venezia verso la conquista dell’antica capitale ro- mano-orientale, causandone la prima delle «due cadute», e dando luogo a una spartizione
126 Balard, La Romanie génoise, op. cit., I, pp.254-264 e 332-334; Id., Les milieux dirigeants dans les comptoirs genois
d’Orient (XIIIe - XVe s.), in Id., La mer Noire et la Romanie génoise XIIIe-XVe siècles (London: Variorum Reprints,
1989), saggio n° III (159-181; copia anastica tratta da: La storia dei genovesi, t. 1, Genova, 1981); Buongiorno,
L’amministrazione genovese, pp. 45-120.
127 Le maone erano gruppi organizzati di privati cittadini a cui la Repubblica di Genova, a corto di denaro,
demandava il compito delle spedizioni e insediamenti nell’oltremare in cambio della devoluzione di alcuni diritti e risorse sui territori conquistati. Cfr. Geo Pistarino, Reflets du “Commonwealth” génois sur les institutions
de la mère patrie, in État et colonisation au Moyen Age, op. cit., 71–94.
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dei territori già bizantini che aveva favorito innanzitutto gli interessi del Commune Vene-
ciarum in Levante, e di conseguenza la nascita della cosiddetta «Románia veneziana»129.
Mentre quindi l’espansione genovese a est era ancora claudicante, sul fronte adriatico, io- nico ed in parte egeo l’iniziativa economica e militare della rivale Serenissima aveva ini- ziato a manifestarsi con più forza, mediante la graduale installazione di quella catena di «basi marittime intermediarie» che, pur non formando un dominio omogeneo, facilitavano la navigazione delle galee veneziane e le relazioni politiche della repubblica marciana con l’Oriente in un modo assai meno discontinuo rispetto a Genova130.
Ma mentre le acquisizioni veneziane più rilevanti erano già divenute dei possedimenti diretti, nei quali il Comune esercitava la propria sovranità mandandovi rectores eletti a Ve- nezia senza influenze politiche esogene, molti degli avamposti che Genova aveva saputo