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Nobili e «cittadini»: forme di appartenenza e di autorappresentazione tra Creta e Corfù

Il caso sopraesposto, per la sua particolarità, non ci autorizza certo ad affermare il ca- rattere diffuso di un fenomeno, quello delle forme di rappresentanza non nobili, che nella sostanza deve essere ancora indagato, per lo meno con un approccio sistematico492. Tale

episodio però ci offre un’idea del livello di complessità con cui fenomeni di questo genere andrebbero letti, anche alla luce dei micro-conflitti più o meno nascosti ma di fondamen- tale importanza che si verificavano all’interno di gruppi di persone socialmente o cultural- mente omogenei493.

Negli ultimi anni, un’analisi di tal genere è stata piuttosto tentata per le élite urbane della realtà cretese, a proposito delle quali si sono approfonditi i tratti culturali, giuridici e socio-economici che distinguevano le varie categorie di nobili e maggiorenti non nobili, i

491 Temi ricorrenti già dall’inizio del Cinquecento, quando il “tradimento” delle aristocrazie delle città della

Terraferma veneta (nonché di alcuni feudatari) nel corso delle Guerre d’Italia lasciò emergere il linguaggio politico delle comunità rurali, appositamente articolato dai notabili del luogo attorno a un ideale di commu-

nitas in grado di richiamare la sensibilità repubblicana del patriziato veneziano, cfr. Edward Muir, «Was there

Republicanism in the Renaissance republics? Venice after Agnadello», in Venice reconsidered, 137–67.

492 Qualche spunto si ha in: Lambrinos, «Οι κάτοικοι της υπαίθρου», dove si evidenziano i fattori che impedi-

rono ai contadini dei casali di Creta di esprimersi in maniera collettiva, nonostante il parere favorevole di alcuni magistrati veneziani a questo tipo di opzione.

493 Tuttora valide, a questo proposito, risultano le riflessioni avanzate in: Nikos E. Karapidakis, «Οι σχέσεις

διοικούντα και διοικούμενου στη βενετοκρατούμενη Κέρκυρα», in Kέρκυρα, μια μεσογειακή σύνθεση: νη-

σιωτισμός, διασυνδέσεις, ανθρώπινα περιβάλλοντα, 16ος - 19ος αι.. Πρακτικά Διεθνούς Συνεδρίου. Κέρκυρα, 22 - 25 Μαΐου 1996, a c. di Aliki Nikiforou (Kerkyra: Politistikòs Syllogos «Korkyra», 1998), 179–90; Id., «I rapporti

fra “governanti e governati” nella Creta veneziana: una questione che può essere riaperta», in Venezia e Creta, 233–44.

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conflitti sviluppatisi tra tali componenti sociali attorno alla spartizione delle cariche citta- dine e, in ultima analisi, il loro rapporto con alcune autorità veneziane494.

Resta però ancora molto da dire a proposito del ruolo che in queste tensioni giocavano il reggimento veneziano e i consigli cittadini cretesi in quanto veicoli identitari, soprattutto in relazione al problema della lealtà a Venezia e dell’identificazione delle élite urbane del Regno di Candia coi destini della Repubblica495.

A differenza che nelle Isole Ionie, dove tale problema era occultato da una retorica po- litica di tipo negoziale, la quale presupponeva che patrizi e cives fideles si riconoscessero mutualmente quali membri di una stessa entità politica496, a Creta la questione del senso di

appartenenza alla Repubblica pareva essere quasi all’ordine del giorno. La grande isola dell’Egeo aveva sempre stentato a riconoscersi nel progetto politico veneziano, così inva- dente e predatorio nei confronti delle risorse agrarie, finanziarie e commerciali dell’isola, e sin da principio incompatibile con le velleità autonomiste, in qualche caso indipendenti- ste, che a tratti affioravano tra i feudatari del luogo497; e ciò ancora all’inizio del Seicento, a

dispetto di un ambiente sociale e culturale che, almeno nelle città, pareva ormai contras- segnato da un’indubbia integrazione tra le varie componenti «etniche» o, piuttosto, tra le due grandi «identità culturali» greca e latina, costruite prettamente su base linguistica, religiosa e politica498.

494 Lambrinos, «Κοινωνία και διοίηση»..

495 Problema complicato dalla frequente gestione “sottobanco” dei consigli cittadini da parte di circoli paren-

tali ristretti, il cui ruolo però non è stato molto approfondito dalla storiografia, come sottolineato in: Papadia- Lala, «Το Συμβούλιο των Δεκαοκτώ», 520 ss. Qualche ipotesi, avanzata su basi storico-culturali, in: Vincent,

The Calergi case.

496 Nikos Karapidakis, «Comunità politiche nelle Isole Ionie: usi del discorso retorico e nuove sensibilità fra le

elites di potere, nel XVI e nel XVII secolo», in Il contributo veneziano nella formazione del gusto dei greci (XV-XVII

sec.). Atti del Convegno. Venezia, 2-3 giugno 2000, a c. di Chryssa A. Maltezou (Venezia: Istituto Ellenico di Studi

Bizantini e Postbizantini, 2001), 123–29.

497 Per l’abbondante bibliografia sul tema rimando agli atti del convegno: Venezia e Creta.

498 Anche se riferite al Medioevo, mi sembrano degne di considerazione le critiche fatte da Dimitris Tsouga-

rakis all’uso ambiguo dei concetti di «etnicità» e «identità culturale» fatto dalla studiosa americana Sally McKee nel suo noto studio sui matrimoni misti nella Creta del XIV secolo; lo storico sottolinea opportuna- mente non solo la mancanza di una definizione precisa di tali concetti (spesso confusi con le nozioni di «omo- geneità etnica» e «identità nazionale») ma anche i limiti euristici, legati a una selezione delle fonti da sondare (gli atti notarili) viziata da presupposti vaghi e ingenui. McKee infatti giustifica la sua scelta metodologica attribuendo alle fonti normative veneziane un pregiudizio segregazionista, in base al quale la definizione, in queste frequente, delle etnicità latina e greca sarebbe frutto di una divisione fittizia imposta dal patriziato ai sudditi cretesi. Questo assunto porta la studiosa ad esalatere un truismo (quello della convivenza e della fre- quente mescolanza tra latini e greci nelle società urbane) e a trascurare inevitabilmente sia le espressioni identitarie latine o greche provenienti per voce dei sudditi stessi sia i «marcatori culturali» immateriali usati da essi per definire tale etnicità, nonché le diverse temporalità nell’elaborazione di tali tratti. Cfr. Tsougara- kis, Venetian Crete. L’integrazione urbana delle componenti greche e latine d’altronde traspare, almeno dal Quattrocento, anche nella documentazione prodotta dalle magistrature veneziane, cfr. Alfredo Viggiano,

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Le maggiori contraddizioni nel rapporto con Venezia traspaiono altresì dalle relazioni tra i patrizi veneziani residenti a Creta, spesso titolari di feudi, e gli altri feudatari dell’isola. Questi ultimi, identificabili nelle fonti quali cavalieri feudati, erano nobili possidenti di ori- gine sia greca che italiana, anche se talora privi di titoli ufficiali, e come tali si contrappo- nevano al gruppo minoritario dei patrizi veneziani (detti anche nobili veneti), i quali, pur nati e cresciuti a Creta, nonché spesso grecofoni e convertiti alla religione greco-ortodossa, detenevano la cittadinanza veneziana pleno iure, sancita dall’appartenenza al Maggior Con- siglio di Venezia499.

I destini dei nobili veneziani di Creta erano così legati per nascita a quelli del cosiddetto «corpo patrizio», il quale come collettivo si identificava con lo stato; in virtù di quest’affi- liazione, essi venivano sistematicamente eletti a tutte quelle cariche di governo che a Can- dia dipendevano dal reggimento veneziano (cioè dal Duca e dal Capitano Generale), oltre che dal Maggior Consiglio locale500. Le prerogative dei nobili veneti, distinte da quelle degli

altri nobili dell’isola per la qualità dei natali più che per altri attributi socio-culturali, ri- flettevano quindi i vecchi rapporti di forza di origine coloniale, permettendo ai patrizi di vantare uno status naturalmente irraggiungibile per i feudati. Molti di questi, d’altronde, a partire dalle ultime decadi del Cinquecento riuscirono ad ottenere il titolo di nobili cretesi, che, sebbene non li eguagliasse affatto alla nobiltà veneta, conferiva loro una posizione apicale nelle società d’appartenenza, all’interno delle quali erano loro riservati specifici privilegi501.

La persistenza di una gerarchia prestabilita, che, mentre nel XIII secolo era basata solo sull’etnicità, poco dopo iniziò a fondarsi prettamente sullo status, non implicava quindi, tra Cinque e Seicento, la persistenza di un’asimmetria di potere a esclusivo vantaggio dei pa- trizi veneziani. Nel periodo qui preso in esame la nobiltà cretese, costituita da elementi di ascendenza politica sia bizantina che italiana, partecipava pienamente alla gestione e al controllo di città e contadi delle quattro province del Regno di Candia; e ciò, sempre più

«Tra Venezia e Creta. Conflittualità giudiziarie, identità sociali e memorie familiari nello Stato da mar del Quattrocento», in Venezia e Creta, 106–49.

499 Victor Crescenzi, Esse de Maiori Consilio. Legittimità civile e legittimazione politica nella Repubblica di Venezia

(secc. XIII-XIV) (Roma: Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1996).

500 Fatta eccezione per quelle riservate ai non nobili. Sulle cariche pubbliche a Creta cfr. : Nicolas Karapidakis,

«Administration»; Aspassia Papadaki, «Αξιώματα στη βενετοκρατούμενη Κρήτη κατά το 16ο και 17ο αιώνα», Κρητικά Χρονικά 26 (1986): 99–136.

501 Aspassia Papadaki, «Η κρητική ευγένεια στην κοινωνία της βενετοκρατούμενης Κρήτης», in Πλουσιοί και

φτωχοί στην κοινωνία της ελληνολατινικής Ανατολής/Ricchi e poveri nella società dell’Oriente grecolatino

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spesso, in diretta concorrenza con combattivi gruppi di cittadini originari che, pur privi della nobiltà, avevano un notevole peso economico e ne esigevano il riconoscimento a livello politico e amministrativo502.

Benché i feudi più estesi fossero a fine Cinquecento ancora saldamente sotto il controllo di famiglie patrizie503, i nobili cretesi avevano costituito reti parentali e fazionarie che, ta-

lora in competizione con la nobiltà veneta, talora in collaborazione, esercitavano il con- trollo del territorio attraverso sistemi giuridici irrituali ma consuetudinari come la faida504,

cioè con sistemi giuridici informali, tipici delle società acefale505, i quali, come nel caso pre-

sente, tendevano a penetrare nei sistemi formali attraverso la spartizione delle cariche pubbliche locali tra le consorterie che dominavano i consigli cittadini.

È di fronte a questo tipo di scenari che si trovarono Ottaviano Bon e Giovanni Pasqua- ligo, quando, tra l’autunno 1613 e la primavera del 1614, tornarono assieme per fronteg- giare le richieste delle Comunità della Creta occidentale. Essi si erano ritrovati a Candia nel novembre 1613, dove avevano dato seguito ad alcune vertenze tra i feudati e i contadini del territorio di Ierapetra (già visitato dal loro ex collega Loredan) ma dove soprattutto ave- vano proseguito la loro opera di riforma, ridefinendo ad esempio le competenze del Colle- gio (organo di governo calcato sul Collegio di Venezia) e della locale Avogaria di Comun, nonché importando nell’isola alcuni norme tridentine, come l’istituzione dei registri bat- tesimali, qui però imposti ai parroci sia latini che greci nel quadro della legislazione dello stato, ossia in perfetto stile giurisdizionalista506.

Alla fine di novembre Bon e Pasqualigo giunsero a Rettimo, una città che negli ultimi vent’anni del Cinquecento aveva visto lo sconvolgimento della vita pubblica locale con il radicalizzarsi di alcune situazioni di faida tra la nobiltà veneta e la nobiltà cretese e con la contestuale affermazione dei ceti intermedi, i cosiddetti cittadini originari507. Costoro si

502 Lambrinos, Οι cittadini στη βενετική Κρήτη. Id., «Identity and socio-economic mobility in Venetian Crete:

the evolution of a citizen family (sixteenth century)», Mediterranean Historical Review 29, n. 1 (2014): 57–70.

503 Kostas E. Lambrinos, «Κοινωνικές και οικονομικές αντίθεσεις σε ένα χώριο της κρητικής υπαίθρου (τέλη

16ου αι.)», in Ενθύμησις Νικολάου Μ. Παναγιωτάκη, a c. di Stefanos Kaklamanis, Athanasios Markopoulos, e Yiannis Mavromatis (Iraklion: Panepistimiakès Ekdoseis, 2000), 379–95.

504 Vincent, «The Calergi case».

505 Cioè delle società senza stato, come quelle medievali, cfr. Zorzi, «Justice». Il termine “acefale” proviene

dalla letteratura antropologica.

506 Libro primo Ordini, 45v-57v.

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erano a lungo contrapposti alla fazione dei nobili cretesi per riuscire a penetrare nell’am- ministrazione locale, subendone le prevaricazioni, assieme ad alcuni nobili veneti che a quelli si erano opposti negli anni novanta del Cinquecento508.

Due decenni dopo, all’arrivo di Ottaviano Bon e Giovanni Pasqualigo, le cose sembra- vano tutt’altro che sistemate: uno dei primi provvedimenti emanati dagli Inquisitori fu in- fatti un atto di pace, promulgato ufficialmente l’1 dicembre 1613 allo scopo di sedare il conflitto «tra i molti principalissimi di Rettimo» e di riportare la calma in città509. Nondi-

meno, i capitoli ufficiali che gli ambasciatori della Comunità, qui chiamati provveditori ad

utilia, avevano loro consegnato due giorni prima testimoniano come in quel momento pure

i cittadini originari, oltre ai nobili cretesi e ai nobili veneziani, avessero guadagnato qualche posizione nella ripartizione delle cariche pubbliche510. Al cospetto dei Sindici i tre gruppi

parevano voler comunicare un’immagine unitaria della Comunità, al fine di negoziare al- cuni privilegi e risolvere alcuni disordini sopraggiunti nell’amministrazione locale.

Complessivamente infatti, i trentadue capitoli presentati ruotavano attorno a tre que- stioni: la compravendita di vini e oli, le competenze di alcune magistrature cittadine e di- strettuali, e le tariffe imposte da cancellieri e notai pubblici per il rilascio di atti processuali e fedi di pagamento. Quest’ultimo aspetto venne riformato in modo quasi automatico, rila- sciando anche a Rettimo (e poi pure a La Canea, come era stato fatto negli altri distretti) una «tariffa pubblica» che inquadrasse entro limiti accettabili gli emolumenti percepiti da notai e scrivani del reggimento, dato che quasi ovunque si erano riscontrati abusi e tariffe gonfiate511. Gli altri due argomenti portati dall’ambasciata dei provveditori ad utilia furono

invece oggetto di maggior negoziazione, anche perché la procedura utilizzata dagli Inqui- sitori prevedeva che prima di dare una risposta ad alcune specifiche istanze, essi dovessero ascoltare le versioni di rettori e ministri, per verificare la sussistenza effettiva delle pre- messe che motivavano le richieste.

Il primo riguardava lo smercio di vino alle truppe veneziane di stanza a Rettimo, e si riconnetteva alla vendita dell’olio per via della maniera abusiva con cui entrambi i prodotti

508 Lambrinos, Κοινωνία και διοίηση, 192-198. 509 Libro primo Ordini, 59r-60v.

510 Ivi, 68v-92r. I capitoli furono consegnati agli Inquisitori il 28 novembre 1613; le relative risposte furono

pubblicate il 20 febbraio 1614 (1613 mv). Sui provveditori ad utilia cfr. Lambrinos, «Κοινωνία και διοίηση», 222 ss.

511 Le tariffe di Rettimo e La Canea si trovano in coda alle risposte degli Inquisitori ai capitoli, mentre quelle

di Candia e Sitia sono oggetto di capitoli specifici menzionati nei Libri d’Ordini. Sulla tariffa di Sitia si veda anche lo studio di Aspasia Papadaki, «Η διατίμηση των δικαστικών εξόδων της καγκελλαρίας της Σητείας κατά τον ΙΖ΄ αιώνα», Θησαυρίσματα 30 (2000): 301–15.

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circolavano: in particolare il vino era oggetto di speculazione da parte dei capitani delle milizie e dello stesso rettore, che aveva introdotto una tassa irregolare (cioè non concor- data tra lo stato e la Comunità) sulla vendita di vino sfuso: il cosiddetto dazio della spina. I

provveditori ad utilia chiedevano nella sostanza l’abolizione di tale dazio, sentito come ille-

gittimo, e la regolamentazione dei prezzi di vino e olio, con misure che impedissero al ret- tore e ai caporali di sottrarre ai produttori vini e oli di alta qualità a prezzi irrisori.

È interessante rilevare come le risposte degli Inquisitori a ciascun capitolo, anziché li- mitarsi ad accogliere o respingere quanto richiesto, andassero nella direzione di legiferare in modo indipendente dalle pressioni delle varie parti, badando innanzitutto all’interesse della Repubblica ma cercando nello stesso tempo di riservare ai maggiorenti locali (ovvero a ciascuna fazione) degli spazi di autogoverno e alcuni strumenti di controllo sul gruppo che rimaneva dominante: quello dei patrizi veneziani che si avvicendavano alla carica di rettori e consiglieri, i quali spesso agivano in base agli indirizzi delle reti clientelari in cui erano inseriti. In altre parole, Bon e Pasqualigo risposero a questo primo gruppo di istanze istituendo una cantina pubblica (in veneziano: caneva) e una nuova magistratura, la cui no- mina sarebbe spettata agli stessi provveditori ad utilia: i «Sopraintendenti alla caneva della fortezza», ossia tre magistrati scelti rispettivamente tra i ranghi dei nobili veneti, dei nobili

cretesi e dei cittadini, e fondamentalmente deputati al controllo dello smercio di vino nella

detta «caneva pubblica», da situarsi dentro la fortezza; analogamente, per risolvere il pro- blema dell’olio vennero istituiti tre Sopraintendenti (di uguale provenienza sociale) desti- nati al controllo della «dispensa degli oli», i cui prezzi sarebbero stati periodicamente cal- mierati dai rettori e la cui consegna, fissata a ogni mese di novembre (contro il “dicembre” proposto dagli ambasciatori), sarebbe stata registrata in un apposito «libro»512.

Il secondo gruppo di problemi era invece assai più spinoso da gestire perché concer- neva direttamente la riformulazione delle competenze di alcune antiche magistrature cit- tadine (i provveditori al fontego, i giustizieri, i provveditori alla sanità e gli avvocatelli), nonché la giurisdizione dei castellani, cioè dei magistrati che avevano il compito di tenere l’ordine pubblico nelle campagne e di giudicare le cause degli abitanti del contado513. Le magistra-

ture cittadine erano state istituite da Venezia nelle città cretesi all’epoca della conquista

512 Libro primo Ordini, 71r-75r.

513 Monique O’Connell, «The castellan in local administration in fifteenth century Venetian Crete»,

Θησαυρίσματα 33 (2003): 161–77; Kostas E. Lambrinos, «Ο καστελλάνος, ο γραμματικός και οι άνθρωποι της

υπαίθρου. Πολιτικές εξουσίες και κοινωνική δυσαρέσκεια στην περιοχή του Αγίου Βασιλείου (τέλη 16ου αι.)», in Πρακτικά του Διεθνούς Επιστημονικού Συνεδρίου Η Επαρχία του του Αγίου Βασιλείου από την αρ-

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dell’isola514 e i criteri di elezione dei loro titolari erano improntati a consuetudini di tipo

distributivo515, ossia, fondamentalmente, alle decisioni prese dal rettore in base agli equili-

bri del posto, fermo restando il rispetto di specifici protocolli: ad esempio, nell’elezione del

provveditori al fontico, svolta dal reggimento in modo autonomo ma collegiale, era necessaria

la consultazione preliminare dei provveditori al fontico già in carica, nonché degli stessi prov-

veditori ad utilia. Dopo l’incursione turca del 1573, con l’incendio della città provocato

dall’ammiraglio ottomano Uluğ Alì, le cose era cambiate e rettori e consiglieri avevano ini- ziato a nominare separatamente i due provveditori, scegliendone personalmente uno tra i nobili veneti e uno tra i nobili cretesi; il Consiglio della Comunità, svilito da questa sua marginalizzazione, chiedeva quindi a Bon e Pasqualigo che la nomina passasse nelle pro- prie mani516.

Il problema denunciato dai rappresentanti della Comunità era quindi, alla base, l’alte- razione degli equilibri tra le élite, con la constatazione che, per esempio nell’elezione degli

avvocatelli, il rettore sceglieva i candidati delle famiglie a lui più vicine517; ossia, per dirla in

altro modo, assecondava una logica di faida (sollecitata dai clan del posto) invece che una logica distributiva delle cariche pubbliche, teoricamente più connaturata alla tradizione veneziana. Altre volte, tale meccanismo si legava a fenomeni di aperta concussione: ri- guardo ai tre castellani di Milopotamo, Amari e San Basilio, spettanti al distretto di Rettimo, i provveditori ad utilia accusavano esplicitamente il rettore di sorteggiare i candidati propo- sti da quelle famiglie disposte a pagarlo profumatamente; di modo che i castellani neoeletti finivano per recuperare i soldi spesi estorcendoli ai contadini che si trovavano sotto la loro giurisdizione518.

Anche qui, tuttavia, le risposte (ovvero gli Ordini) fornite dagli Inquisitori andavano in una direzione compromissoria ma non sino al punto di essere concilianti. In almeno due casi, quelli dei provveditori al fontego e dei castellani, essi rifiutarono categoricamente di coinvolgere il Consiglio della Comunità nell’elezione di queste cariche, ribadendo piuttosto le vecchie consuetudini e stabilendo pene specifiche per quei rettori che non le osservas- sero. Cionondimeno, per le altre tre cariche oggetto della contrattazione (cioè i provvedi-

514 Karapidakis, «Administration».

515 Rispettando forse, alla lontana, quel principio di «giustizia distributiva» che motivava la presenza a Vene-

zia di molte magistrature, e a carattere collegiale. Cfr. Besta, Senato veneziano.

516 Libro primo Ordini, 69v-70v. 517 Ivi, 76v-77r.

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tori alla sanità, i giustizieri e gli avvocatelli) essi da un lato accettarono il pieno coinvolgi- mento del consiglio cittadino (nei primi due casi) dall’altro, nel caso degli avvocatelli, con- cessero il privilegio della nomina ai soli nobili cretesi, ripristinando uno degli Ordini Fo- scarini.

Nei casi dei provveditori alla sanità e dei giustizieri, inoltre, stabilirono una procedura di alternanza che garantisse il pieno equilibrio della presenza delle due componenti nobi- liari: essendo infatti le due magistrature composte ciascuna da tre persone, si stabilì che un anno venissero eletti due veneti e un cretese, mentre l’anno successivo due cretesi e un veneto. Si noterà che in queste terne il ceto intermedio dei cittadini non era rappresentato; tuttavia, il fatto che esso fosse rientrato nelle cariche di nuova fondazione (ossia i summen- zionati Sopraintendenti) ne confermava il riconoscimento ufficiale da parte dei rappresen- tanti dello stato, che probabilmente non l’avevano inserito nelle cariche di antica tradi- zione per non creare nuovi motivi di contrasto.

Le risposte di Ottaviano Bon e Giovanni Pasqualigo ai capitoli dei provveditori ad utilia furono dunque pubblicate a Rettimo il 20 gennaio 1614. Un mese dopo i due magistrati ve- neziani si trovavano nella città di La Canea, porto occidentale di Creta, da cui sarebbero ripartiti per tornare nelle Isole Ionie e di lì infine a Venezia. Qui ricevettero, il 19 febbraio, i capitoli dei «procuratori di questa città», ossia di un gruppo di cinque nobili in cui la com- ponente veneta prevaleva sulla cretese con un rapporto di tre a due519, riflettendo una si-

tuazione sociale che ritorna nella contrattazione intorno alle cariche520.

Qui però gli Inquisitori apparvero più cauti nel concedere modifiche alle procedure di elezione o alle singole competenze dei vari officia: trattandosi di un porto, gli interessi delle

élite nobiliari della Canea erano legati soprattutto alle attività marittime, e Bon e Pasqualigo

si trovarono nella delicata situazione di dover prevenire gli abusi di costoro, prima che quelli del reggimento in sé. Nell’elezione dei provveditori alla sanità, ad esempio, rifiutarono

519 Libro secondo Ordini, 2r-11v. Eccezionalmente l’intestazione dei capitoli riporta i nomi dei procuratori (no-

bili veneti: Zuanne Zancaruol Perazzo, Michiel Calergi, Antonio Zancaruol del nobil homo ser Zorzi; nobili cretesi: Zorzi Muazzo quondam ser Nicolò, Zorzi Livachi quondam ser Nicolò): si noti come essi siano assai difficilmente utilizzabili come marcatori “etnici” o culturali, data per esempio l’origine greca del cognome del nobile veneto Calergi e l’origine veneta del nobile cretese Muazzo. Lo stesso tipo di confusione è general- mente riscontrabile anche per i titoli onorifici (ser, messer, domino, etc.), per cui cfr. Kostas Lambrinos, «Il