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Daniel Miller: Lo shopping e il rituale del sacrificio

3.3 Rituali e consumo

3.3.1 Daniel Miller: Lo shopping e il rituale del sacrificio

Lo studio dell’antropologo Daniel Miller è una ricerca etnografica. Così come molti lavori di Erving Goffman e gli studi sui rituali nello sport e sugli spalti degli stadi, in questo capitolo si sono presentati analisi che scaturiscono dallo studio sul campo. Al contrario Émile Durkheim potrebbe essere definito, con quel disprezzo che caratterizza gli amanti del fieldwork malinoskiano, un antropologo da tavolino. È interessante notare come però le sue teorie sono state ritrovate anche dagli studiosi etnografici, questo per risaltare ancora di più l’importanza che hanno avuto gli studi durkheimiani nella sociologia e nell’antropologia.

Miller analizza una zona determinata, una strada ad essere più precisi, nell’area Nord di Londra. Gli attori della pratica dello shopping provengono da differenti background culturali, e ciò influenzava il consumo finale; tuttavia l’autore è riuscito a delineare delle caratteristiche universali. Ed è proprio questa linea

universale che noi vogliamo qui analizzare poiché da questa possiamo mettere in luce lo shopping come pratica rituale.

Durante lo shopping il consumatore non è mosso solamente da un bisogno materiale, dalla ricerca dell’utile, ogni acquisto rimanda a qualcosa d’altro. Ed è proprio tale qualcosa d’altro che porta ad asserire che lo shopping è una pratica rituale. Il consumatore, a prescindere dal ruolo sociale e familiare, acquista dei beni che saranno si differenti come lo sono le motivazioni d’acquisto, ma sempre agiranno andando oltre l’utilitarismo. La ‹‹trascendenza›› di cui parla Miller è la chiave dello studio antropologico sul consumo. Al contrario degli studi più in voga della seconda metà del Novecento, che prendono in considerazione lo shopping come pratica edonistica e indotta da un sistema consumistico, Miller cerca di analizzare la simbologia di ogni acquisto e ne ritrova l’oggettificazione di sentimenti e relazioni che vengono espresse e riaffermate proprio durante tale pratica. Ogni volta che qualcuno compie il gesto rituale del ‹‹fare la spesa››, mette in atto una pratica che lo porta alla riaffermazione dell’altro tramite un acquisto che è più morale che utile. Le madri cercano di comprare il meglio per il proprio bambino, così come per il marito, ma anche chi fa shopping per se stesso spesso immagina e idealizza l’altro e nell’atto del consumo lo crea. Come spiega Miller anche gli acquisti delle persone senza famiglia o partner vengono compiuti come se fossero per qualcun altro:

‹‹Solo facendo compere come se dovessero farle per una famiglia vera e solo riescono a non considerarsi le destinatarie di qualche ‹‹gratificazione›› speciale, riescono a servirsi di questo loro shopping nella norma per immaginare sé stesse come una specie di famiglia piuttosto che come un individuo››.167

167 Miller, D. , A theory of shopping, Cambridge, 1998, trad. it di S. Liberatore,: Teoria dello

Questa ‹‹devozione››168 come la definisce l’autore stesso è la dimostrazione

della trascendenza del profano dello shopping, la pratica non è individualista ed edonista ma altruista e morale per la maggior parte degli acquisti. Anche ciò che viene acquistato per sé stessi, come spiega l’autore, può essere definito come un piccolo regalo per l’aver compiuto dignitosamente la pratica di consumo.

L’azione trascende il profano, l’utile e il materialismo per inserirsi nel cosmo del sacro, della moralità. Tramite questa pratica allora si crea e ricrea una relazione morale, si riafferma. Possiamo ritrovare in questa pratica allora il doppio ruolo rituale: quello formale e quello coesivo.

Ancora una volta gli oggetti servono come simboli comunicativi che mediano l’individuo e le sue relazioni sociali, sono usati qui per esprimere sentimenti morali, e nel comunicarli questi vengono anche creati e riaffermati. Lo shopping è una pratica rituale nel senso che ricompone il divino, quindi quella rappresentazione morale che nelle società totemiche era collettiva mentre nelle moderne società spesso riguarda più piccole relazioni sociali e non la società intera. È tramite l’acquisto compiuto per l’altro, che sia il proprio figlio, la propria moglie o marito, che il soggetto della pratica riafferma i suoi sentimenti e così la relazione stessa. L’oggettificazione dei sentimenti morali permette qua di considerare lo shopping come un rituale. Anche se la prima analisi potrebbe far pensare a questo come la pratica più profana e utilitaria abbiamo cercato di metterne in luce gli aspetti morali e sacri. La particolarità di questa oggettificazione sta nella varietà e nella totalità di essa. Mentre il totem, come la bandiera di una squadra di calcio o alcuni simboli politici sono simboli particolari e non più intercambiabili una volta che il rituale li rende sacri, gli oggetti di consumo non rappresentano un simbolo stabile. Tutti gli acquisti possono rappresentare una scelta morale, è l’azione in sé, la scelta fatta per qualcosa, che va oltre l’utile che rende in quel momento l’oggetto un simbolo, è il rituale stesso che nel compiersi oggettifica i sentimenti messi in scena, come spiega

168 Devozione è il termine che Daniel Miller usa nel trattato sullo shopping, spiegando che questa diventa spesso una pratica devozionale.

Miller: ‹‹Ciò implica che lo shopping ha una propria identità ed è diventato un modo per oggettificare certi valori››.169

Durante quegli acquisti che vengono fatti per sé stessi, comunque sia, non entra in gioco l’utilità. Anche in questo caso la scelta spesso trascende l’idea di utile e, in una prospettiva che richiama alle idee di Erving Goffman, simboleggia uno status sociale. L’oggetto di consumo, come un abito oppure una marca alimentare, viene acquistato ed esibito per mostrare un proprio status sociale e morale:

‹‹E come tali questi prodotti sono diventati la oggettificazione della tradizione, della stabilità e della storia della famiglia››.170

Possiamo trovare anche qui allora il trascendimento dell’oggetto come prodotto utilitario, e inserirci nell’ambito simbolico.

Tutto ciò rende allora lo shopping una pratica rituale. Per prima cosa mette in gioco dei sentimenti morali, come l’amore o la devozione familiare, lasciandosi alle spalle l’utilità profana che hanno come caratteristica intrinseca gli oggetti. Come ogni rituale, seguendo le teorie di Émile Durkheim, riveste gli oggetti di sacralità, poiché questi trascendono la loro materialità profana e si erigono a simboli morali. La costituzione di sacralità, l’aspetto formale del rituale si ritrova allora anche nelle pratiche di consumo, specialmente nel ‹‹fare la spesa›› analizzato da Daniel Miller.

Un altro aspetto importante dello shopping è ciò che simboleggia la parsimonia all’interno di tale pratica. L’atto del risparmio spesso viene percepito come un’azione giusta e morale, e rimanda ad un futuro, trascendendo il tempo presente. La parsimonia però non è una scelta utilitaria. Come messo in luce dall’autore, nessuno diventa infatti ricco grazie ai risparmi della spesa settimanale o giornaliera. Questa può essere vista come un’azione che mostra rispettabilità e

169 Miller, D. , Teoria dello shopping, op. cit, p. 91. 170 Ivi., p. 185, corsivo nostro.

denota un senso di sacralità per la discendenza e le generazioni future, come spiega l’antropologo:

‹‹Quindi il risparmio è rivolto alla costituzione dell’idea della linea di discendenza, cioè un dono devozionale al futuro […]. Forse si tratta delle vestigia di quel senso di trascendenza e di immortalità rappresentato dalla ‹‹casa›› come linea di discendenza››171

Abbiamo cercato di mettere in evidenzia gli aspetti che fanno dello shopping una pratica rituale, ma, nel suo studio, Daniel Miller, va oltre questa analogia generale. L’antropologo cerca, nella parte centrale del suo saggio, di accostare lo shopping ad una pratica particolare: il rituale del sacrificio. Miller vede lo shopping come una pratica che ricorda il rito sacrificale; ogni parte che compone questo solenne rituale, che si può ritrovare in ogni comunità pre-letterata e non solo, si ritrova nei momenti che compongono lo shopping rituale nelle società contemporanee. Mettiamo allora in luce le analogie tra i vari momenti che vanno a definire il sacrificio con quelli dello shopping, per arrivare a una teoria rituale del consumo moderno ed accostarla definitivamente ad alcune delle caratteristiche di cui parla Durkheim.

Il rituale del sacrificio è già stato presentato nel primo capitolo, secondo le teorie che Durkheim riprende soprattutto da Robertson Smith. Qui la ripresa di tale rituale trova subito delle differenze che vorremmo mettere in risalto. Mentre per l’antropologo scozzese, e per Durkheim, il sacrificio è un pasto compiuto in comune, in Miller non si ritrova questa componente, l’idea del banchetto è sostituito da altre meccaniche. Comunque sia il sacrificio è una pratica rituale che porta alla formazione e riaffermazione del divino, o di ‹‹oggetti di devozione››172 ed è per

questo che viene accostato allo shopping:

171 Ivi, p. 136. 172 Ivi, p. 104

‹‹Per fare un’analogia con lo shopping dovrei perciò dimostrare che lo shopping, la spesa, è un’attività di routine che trasforma il consumo in un rituale devozionale, che riafferma continuamente una qualche forza trascendente, e di conseguenza diventa un modo essenziale attraverso il quale il trascendente viene costituito››.173

Le fasi che compongono il rito sacrificale vengono riproposte per la pratica di consumo nel saggio di Daniel Miller. Non vogliamo qua ripercorrere dettagliatamente le tre fasi, accenneremo alla prima e ci concentreremo sulla seconda, poiché è quella che più ci interessa per analizzare lo shopping come pratica rituale.

Nella prima fase vi deve essere, come dice Miller, un’‹‹immagine di eccesso››. Il consumatore sta per spendere un denaro accumulato con dignità e fatica, in quel determinato istante, quando si è creata tale immagine, può iniziare il rituale, quando ciò che è stato prodotto può iniziare ad essere consumato. Nelle società totemiche queste due fasi son ben distinte e il rituale serve proprio per rimarcare la linea che separa le due fasi temporali del sacro e del profano. Nelle società contemporanee, molto più individualizzate, questo tempo del sacro e del profano sono molto più in interscambio fra loro, l’inizio del rituale risulta allora più sottile e frivolo, rispetto alla solennità che fa da cornice al rituale del sacrificio.

Arrivati alla seconda fase dobbiamo cercare di essere più precisi e risaltare le tematiche che ci interessano. Qui ritroveremo quella formazione del divino, del sacro, e la riaffermazione delle relazioni morali che sono state messe in luce da Émile Durkheim ne Les formes.

Nella seconda fase, che è la pratica stessa del fare la spesa, vi è quella trascendenza dell’utile che costituisce il mondo del sacro. La spesa viene considerata come quell’esercizio che serve a ricostituire le relazioni, grazie all’acquisto devozionale descritto da Miller: la spesa non è più un’azione profana svolta per sostentamento personale, ma viene ‹‹tramutata nel dono, simbolico o

reale, dell’offerta al divino››. E proprio nell’offrire al divino la spesa, viene creato il divino stesso. Qui non possiamo più parlare del divino in ottica durkheimiana, non è la società come ente morale, gli oggetti non mediano più tra individuo e mondo sociale, questa volta si inseriscono come mediatori delle relazioni sociali in senso ristretto. La relazione può essere intesa come devozione materna, oppure come amore romantico o matrimoniale stabile, in ogni caso nella pratica dello shopping questa viene riaffermata, creata, costituita nell’immaginario individuale di chi, devozionalmente, pratica lo shopping. È questa fase che rende lo shopping una pratica rituale, quella che lo inserisce nel mondo del sacro e astrae gli oggetti di consumo dal loro valore materiale per immetterli nel mondo sacro dei simboli.

In questa fase vi deve poi essere il superamento dell’immagine di eccesso che spinge verso la pratica, ed è questa volta ciò che costituisce un trascendimento universale, non costituisce una relazione particolare, che già di per sé poteva bastare a considerare lo shopping come pratica rituale. Miller si spinge allora oltre cercando di trovare un ‹‹ethos›› che sia comune alla società intera. Usando le sue parole:

‹‹Sulla base dell’osservazione etnografica, possono esservi pochi dubbi su quale sia l’elemento che in realtà trasforma il fare la spesa in un rituale. È chiaro che la intenzione di chi va a fare la spesa è ovviamente quella di spendere, ma in realtà l’atto pratico dell’acquisto, l’attenzione nello scegliere, il suo impegno e i suoi obiettivi, sono tutti rivolti alla possibilità di risparmiare››.174

Sarà allora il risparmio quella morale universale che si cerca di raggiungere durante la spesa. Le relazioni personali muovono verso il genere di acquisti, verso il compiersi della devozione, che rafforza l’immagine stessa dell’amore o di altri sentimenti morali.

La moralità sociale si compie, invece, nell’acquisto mirato al risparmio, alla ricerca dell’offerta. Il risparmio allora non è un meccanismo mirato ad un fine utile,

l’accumulazione, ma mette in risalto una sacralità sociale: come anticipato sopra quella della discendenza. La società dovrà andare avanti, e nel risparmio troviamo l’oggettificazione della discendenza, ‹‹è la discendenza ad essere oggettificata dal risparmio››175. In questa seconda fase vi è allora la costituzione del divino, la

trascendenza del mondo profano e insieme la riaffermazione dei valori morali relazionali e sociali. L’aspetto formale e l’aspetto coesivo che Durkheim descrive ne Le forme elementari vengono ritrovati da Daniel Miller nella pratica della spesa.

Anche nella terza fase permane l’idea devozionale. In questa però la costituzione relazionale non è solo immaginifica, è reale e materiale. Finita la spesa, ciò che è stato comprato per amore devozionale verso l’altro, viene donato all’altro e così si ricostituisce la relazione anche nell’immaginario del destinatario.

Lo shopping come pratica rituale simile al sacrificio, posta sotto la lente d’ingrandimento di Miller, potrebbe sembrare a volte un accostamento esagerato. Il rito del sacrificio è stato considerato negli studi antropologici come uno dei rituali più importanti e solenni delle società tribali e anche nelle religioni monoteiste176. Il

banchetto, il pasto consumato in comune, portava alla formazione del divino, alla riaffermazione sociale e all’esistenza della società in quanto tale. Era il momento in cui si lasciava da parte tutti gli aspetti profani della vita, come l’utile e il profitto economico per rinvigorire le relazioni sociali e le rappresentazioni collettive. Accostarlo a una pratica come lo shopping, che inizialmente appare come la più utilitaria tra le pratiche moderne, comporta smarrimento. In questa pratica cosi profana, però, Miller ha ritrovato ancora una volta delle componenti sacre, delle ritualizzazioni e degli oggetti simbolici.

Molte sono state le teorie sul consumo, forse uno degli argomenti che più ha riscontrato successo come ambito di studi dalla seconda metà del Novecento in poi. In Miller abbiamo tuttavia ritrovato quegli aspetti che anche Durkheim mette in evidenza: il sacro come valore sociale, il rituale come coesivo sociale e formatore

175 Ivi, p. 136.

176 Basti pensare agli studi sulla religione ebraica di Robertson Smith che tanto hanno influenzato il pensiero di Émile Durkheim.

delle relazioni sociali, gli oggetti come mediatori tra individuo e mondo sociale, mondo sacro. Nelle varie teorie del consumo che si sono susseguite nessuno era riuscito a trovare quei meccanismi che possono essere associati ai rituali descritti dal sociologo di Épinal. Spesso gli studiosi si sono fermati al consumo utilitario ed edonistico che ha portato ad un’estraneazione dal mondo del sacro. Come riportato da Paul Heelas nel suo testo sul consumo capitalistico177, sembra che a primo

impatto le idee di Durkheim possano essere fuorvianti per lo studio del consumo come pratica rituale, poiché questa è associata ad una pratica utilitaria:

‹‹From the Durkheimian perspective, the ‘fads and fashions’ of (consumer) culture eradicate the sacred. With participants exercising their choices on the basis of those needs or desires which they feel by virtue of the operation of the psychological ‘logic’ of ways in which consumer culture values, expectations or promises are promoted, and with participants selecting those provisions or services which provide the most consumer-friendly ways of meeting their needs or desires, spiritualities of life become a matter of utilitarian preference writ large››.178

Ciò che invece è riuscito ad elaborare Miller è una teoria che supera questa visione e si inserisce nel mondo delle pratiche sociali e socializzanti, non individuali ed edonistiche, così da poter riprendere gli studi durkheimiani.

Altri ancora, invece, hanno studiato il consumo come un mondo completamente sacro, ove il consumo stesso e gli oggetti sono sacri e divinizzati, senza però pensare alla loro simbologia e alla loro oggettificazione delle relazioni sociali. Come accennato in precedenza tali sono gli studi di George Ritzer, esso chiama ‹‹Cattedrali di consumo›› ogni luogo moderno, come centri commerciali o fast food, in cui viene esposta merce e viene favorito un consumo accessibile a tutti. Tramite la spettacolarizzazione i centri di consumo riescono a rendere le merci feticci desiderabili che una massa di consumatori si affanna a comprare.

177 Heelas, P, Spiritualiets of life. Romantic Themes and Consumptive capitalism, Blackwell Publishing, Malden (Mass.),2008

Tornando agli di studi di Daniel Miller, vediamo che ancora una volta le differenti solidarietà con cui le società promuovono le relazioni hanno portato a differenziare molto le pratiche rituali. Le società a solidarietà meccanica con i loro rituali collettivi e totalizzanti, solenni e ricoperti di obblighi morali punibili dalla comunità intera; dall’altra parte le società a solidarietà organica in cui le pratiche rituali si possono ritrovare all’interno del mondo quotidiano e profano, che regolarizzano e riaffermano anche piccole relazioni e in cui l’attore rituale è spesso una persona sola o poche persone, in cui, come già evidenziato anche da Goffman, è l’individuo e il suo self morale l’attore e il destinatario.

Siamo arrivati dunque alla fine del terzo ed ultimo capitolo dell'elaborato. Abbiamo qui presentato i rituali nella società dei consumi contemporanea. Gli ambiti presi in considerazione sono stati diversi e i più disparati, quello che li accomuna sono i meccanismi di formazione di un mondo sacro, l’oggettificazione simbolica di rappresentazioni emotive e la forza coesiva della pratica rituale.

Non possiamo certo, come ripetuto oramai tante volte, paragonare i rituali analizzati qui a quelli di Émile Durkheim delle società totemiche. Quest’ultime incentravano tutta la vita sociale su feste, incontri e rituali solenni che venivano presidiati da figure e simboli divini per massimo grado, in cui vi era consapevolezza del divino e in cui tali rituali regolavano l’andamento della comunità tutta. La società era molto più coercitiva e imponeva regole di condotta a cui non ci si poteva ribellare, e i mondi del sacro e del profano erano separati rigidamente. Tuttavia i rituali e il sacro possono essere ritrovati anche in molti aspetti della vita contemporanea. Ne abbiamo riportati qua solo alcuni ma molti altri si sarebbero potuti analizzare: Turismo, pubblicità, vita notturna179.

179 Molti sono gli ambiti e anche i testi che si possono analizzare, consigliamo personalmente la lettura di: Segalen, M., Rites et rituels contemporains, Paris, 1998, trad. it di. G. Zattoni Nesi,

Riti e rituali contemporanei, il Mulino, Bologna, 2002. Inoltre una prospettiva interessante per

lo studio dei rituali contemporanei è quella di Victor Turner. Abbiamo deciso alla fine di non analizzarla qui per lasciare spazio ad altri studi, come quelli di Miller o sullo sport. Turner introduce il concetto di liminalità e parla, oltre che di teatro, di turismo. L’aspetto turistico che

Al giorno d’oggi non è facile riconoscere pratiche che possono essere ritualizzate poiché i meccanismi e l’intensità sono completamente differenti. Le azioni rituali si possono compiere singolarmente, nella quotidianità, in un centro commerciale che ha tutto fuorché l’aspetto solenne di un luogo sacro, oppure uno stadio durante una partita che sembrerebbe rappresentare un aspetto ludico della società. Insomma mentre nelle società pre-letterate un rituale era riconoscibile fin dalle prime preparazioni oggi tutto si nasconde all’interno del mondo profano e quotidiano, in un mondo che, come primo impatto, non propone oggetti sacri e divinità da venerare. Come abbiamo visto però, usando la lente d’ingrandimento delle teorie di