3.1 Erving Goffman e i rituali di interazione quotidiana
3.1.3 I rituali d’interazione
Esaminiamo ora alcuni esempi e i meccanismi dei rituali d’interazione nella sociologia di Goffman. Come già anticipato qui non si tratta più di indagare sui grandi rituali collettivi durkheimiani ma su piccoli riti quotidiani:
‹‹Beninteso Goffman non si riferisce più ai grandi rituali pubblici, ai quali pensava ancora Durkheim, ma prende in considerazione quei piccoli riti apparentemente banali che costellano l’interazione faccia a faccia nella vita quotidiana, quei ‹‹gesti che talvolta consideriamo insignificanti, ma che, di fatto sono forse i più significativi››150
In apparenza, questi possono sembrare anche insignificanti, però secondo il sociologo determinano l’andamento sociale e ridefiniscono la sfera del sacro nelle odierne società: il self individuale.
Nel saggio La deferenza e il contegno, il sociologo canadese riprende esplicitamente la sociologia durkheimiana. Nei rituali di deferenza, quelli in cui l’individuo cerca di preservare un’immagine degna del proprio self sacro, quello che Goffman definisce il “non perdere la faccia”, si analizzano due tipi di rituali: quelli di discrezione e quelli di presentazione. I rituali di discrezione riguardano ciò che l’individuo deve evitare, astenersi dal fare, per non ferire il self altrui. Mentre quelli di presentazione riguardano piccole azioni di conferma che si riferiscono all’interlocutore come per confermargli gratitudine e rispetto. Lo stesso Goffman presentando questi due differenti rituali riprende la divisione che Durkheim aveva fatto dei riti ne Les formes:
‹‹Questa distinzione ci è ben nota poiché deriva dalla classificazione che Durkheim ha fatto dei rituali distinguendoli in riti positivi e negativi››151
I rituali di discrezione assomigliano ai tabù, ai riti negativi, la normatività rituale, e sociale quindi, in questo caso concerne i divieti di azione nell’interazione:
‹‹L’espressione ‹‹rituali di discrezione›› si riferisce a quelle forme di deferenza che inducono l’attore a tenersi a distanza dal destinatario e a non violarne ciò che Simmel ha definito ‹‹la sfera ideale›› che lo circonda››.152
Sempre riprendendo direttamente le parole di Erving Goffman:
‹‹Un importante esempio di discrezione rituale è dato dall’attenzione che chi parla deve esercitare per evitare di toccare argomenti che possono provocare sofferenza, imbarazzo o umiliazione all’interlocutore››.153
Questi determinati rituali interessano la sfera del sacro e la sua contaminazione. Bisogna evitare di ferire la sfera sacra altrui oppure evitare contatti che potrebbero mettere in discussione il proprio self.
I rituali di presentazione ricordano invece i riti positivi e sono quelli che Goffamn descrive come i rituali:
‹‹Coi quali l’individuo rende testimonianza al destinatario del modo in cui lo considera e lo tratterà nell’imminente interazione. Le regole che riguardano queste pratiche rituali non implicano proscrizioni, ma prescrizioni precise, mentre i rituali di discrezione indicano chiaramente ciò che non si deve fare, i rituali di presentazione implicano ciò che si deve fare››.154
151 Goffman, E., La deferenza e il contegno, in Modelli di interazione ,op. cit, pp 79-80. 152 Ivi, p. 68.
153 Ivi, p. 71. 154 Ivi, p. 77.
In questo caso la sacralità del self è confermata dal rispetto e la gratitudine, i rituali di presentazione possono essere ‹‹saluti, inviti, complimenti, piccoli favori››155. Rispetto e gratitudine sono norme definite socialmente e interiorizzate
dagli individui, come in Durkheim esistono nel pensiero di Erving Goffman delle rappresentazioni collettive che guidano l’azione sociale di modo che il sacro sia sempre difeso, così che la società possa perpetuarsi.
Nella messa in scena di un’interazione gli interlocutori possono essere anche più di due. In questo caso Goffman parla di equipe, proprio queste interazioni saranno il tema principale del suo saggio più famoso: La vita quotidiana come rappresentazione. Anche in questo saggio le influenze durkheimiane sono chiare. La società viene prima dell’individuo. Questo infatti si inserisce in una struttura i cui comportamenti rituali sono già definiti. Nei rapporti formali e lavorativi, come ad esempio un’equipe medica, vi sono tutta una serie di norme che servono a confermare i ruoli sociali, e così il proprio self è ‹‹messo in scena››. Un medico si aspetterà il giusto comportamento di subordinazione da parte di un infermiere, o un paziente si aspetterà rispetto e dedizione da parte del medico curante. In ogni caso vi sono delle norme che riconfermano la struttura sociale. I rituali allora, seppur quotidiani e affidati alle interazioni tra individui, hanno la funzione di quei rituali collettivi delle società pre-letterate descritti da Durkheim: creare e ricreare la solidarietà sociale, normativizzare gli individui e dargli linee guida per l’azione sociale.
Per quanto riguarda lo spazio rituale, sembrerebbe che non vi possano essere troppe differenze tra lo spazio del sacro e quello del profano, poiché in ogni momento c’è la possibilità di un’interazione rituale. Tuttavia Goffman avanza una distinzione che può richiamare a una differenza spaziale tra rituale e azione profana. Il sociologo canadese distingue lo spazio dove avviene l’interazione da quello in cui l’attore rituale può rilassarsi e non preoccuparsi troppo del proprio self.
Richiamandosi al linguaggio teatrale chiama ribalta il luogo in cui viene inscenata l’interazione rituale, e retroscena quello in cui non vi è messa in scena. Ribalta e retroscena sono luoghi molto fluidi e interscambiabili, non sono luoghi sacri e inaccessibili al profano. In Durkheim abbiamo trovato tutta una serie di rituali che regolavano l’accesso a tali luoghi, mentre in Goffman questa netta divisione non si può trovare. La ribalta però è il luogo dove il sacro si produce e si difende, dove l’individuo segue norme sociali predeterminate, in cui le norme riguardano l’aspetto morale dell’interazione. In questo senso possiamo parlare di spazio del sacro. Nel retroscena difatti la sacralità del self viene trascurata e le norme morali si allentano.
Il ruolo del rituale non si esaurisce nella creazione di solidarietà sociale e nell’essere strumento normativo sociale. Sarebbe riduttivo pensare al self come un qualcosa di personale, plasmato socialmente che meccanicamente si mette in mostra durante le varie interazioni. Come studiato nel pensiero di Durkheim il rituale non solo difende e rinvigorisce l’idea del sacro, ma ogni volta la crea e la ricrea. Anche in Goffman si potrà ritrovare l’ambivalenza della funzione rituale: normativizzare tramite rappresentazioni collettive l’individuo sociale, e creare il sacro. In Durkheim il rituale produceva la divinità, attraverso la quale gli individui veneravano la propria società. La differenza però tra Goffman e Durkheim sono proprio le società studiate. Nelle società a solidarietà organica il sacro, come più volte ripetuto, non è più la società in sé, ma la sua ripartizione, gli individui che la compongono, il self.
Il self sarà allora prodotto ogni volta, localmente, in ogni piccola interazione: in ogni rituale d’interazione c’è produzione del self. Non un qualcosa che si possiede, non un qualcosa che la società plasma e delimita nell’azione, ma un qualcosa di formato sempre nuovamente:
‹In breve, l’identità non è qualcosa di stabile e duraturo nel tempo (sia pure sottoposto a sviluppo), ma un effetto strutturale prodotto e riprodotto discontinuamente nei vari balletti rituali della vita quotidiana››.156
Abbiamo cercato di mettere in evidenza le caratteristiche rituali che Durkheim tratta ne Le forme elementari della vita religiosa. In Goffman possiamo ritrovare soprattutto la produzione del sacro. I due sociologi, il secondo influenzato sicuramente dal primo, studiano la società come un ente morale, normativo. Nelle società studiate da Durkheim le norme sono molto costrittive, e infatti il sacro è una produzione collettiva, tutto ciò che concerne l’individuo riguarda la sfera profana. Nelle società a solidarietà organica contemporanee studiate dal sociologo canadese troviamo una struttura più complessa e di difficile analisi.
L’intuitività di Goffman è stata proprio l’applicazione di teorie che sembravano ormai adattabili solo alle società preletterate. Il tripudio individuale moderno poteva sembrare incompatibile con la forte solidarietà collettiva e le costrizioni sociali totemiche. Tuttavia la società rimane, secondo Goffman, anche oggi un ente morale che riesce a guidare con norme sociali gli individui all’ azione, a creare solidarietà tramite le norme morali e a creare e salvaguardare la sua parte sacra: l’individuo, la parte individuale di cui parla Goffman, quella del self morale.
L’idea di un mondo del sacro totalmente separato e impermeabile di stampo durkheimiana sembrerebbe essere perduta nelle analisi di Goffman. È proprio nel quotidiano che il sociologo ritrova le pratiche rituali e la parte sacra della società. Riprendendo però anche le idee di Durkheim sull’individualismo, vediamo che la sacralità del self riguarda i suoi compiti morali. Le interazioni di cui parla Goffman sono ritualizzate per quanto riguarda varie componenti morali, come il rispetto, la deferenza, la riconoscenza. Anche se il sacro viene mescolato al mondo profano e quotidiano, è sembrato a noi concernere la moralità e la normatività sociale e non l’interesse economico personale e l’utilitarismo, ambiti eminentemente profani per Émile Durkheim.
La sociologia di Goffman è molto più ampia e complessa di quella presentata in queste poche pagine. Quello che a noi interessava era mettere in evidenzia alcuni degli aspetti della società contemporanea, la quotidianità e il culto dell’individuo,
per mostrare che nel mondo secolarizzato sono molti gli ambiti in cui si possono ritrovare le pratiche rituali. Altra cosa che ci interessava mostrare era la affinità con i pensieri durkheimiani che sono l’altro filo conduttore del nostro elaborato.