• Non ci sono risultati.

1.4 I rituali

1.4.4 Il Rituale come pratica performativa

In tutte queste nostre riflessioni ci siamo lasciati per ultima quella che riguarda la prima nascita del sentimento del sacro e della sua eterogeneità col mondo profano. Abbiamo visto che il sacro altro non è che la ‹‹società ipostatizzata e trasfigurata››, ma quando nasce l’idea che la società sia così importante e investita di rispetto per i membri del clan? É proprio nella pratica rituale che si avverte l’incommensurabilità dei due mondi. L’idea del sacro nasce nel rituale, solo successivamente il sacro si esteriorizza e obbliga a determinate azioni gli uomini.

Quando il gruppo si riunisce, la percezione del mondo e della vita cambia d’intensità, quel momento è radicalmente diverso da quello della routine quotidiana, permeata di noia e monotonia, durante il rituale lo stato del gruppo è quello dell’effervescenza collettiva. Una sovreccitazione generale catapulta il membro del clan in un mondo nuovo, la sua idea di due mondi differenti è formata. Le emozioni provate durante rituale sono molto più intense e trasportatrici che quelle quotidiane, basate sul sostentamento individuale e familiare, così al nuovo mondo si aggiungono tutte le caratteristiche che abbiamo visto essere quelle del sacro. La metafora utilizzata da Giolo Fele e Pierpaolo Giglioli60 ci aiuta a rendere meglio

l’idea del rituale. Questo è definito come ‹‹l’officina del fabbro››, ogni individuo esce dalla cerimonia completamente cambiato, con una maggiore forza che deriva da quella collettiva, con più fiducia, si sente più sereno, e allora come può non definire questo mondo diverso e divino? Come potrebbe non provare rispetto verso ciò che lo fa sentire meglio?

Ciò che vogliamo mettere in risalto qua è l’azione come creatrice di una credenza e non come medium tra fedele ed essere sacro, molti sono gli studi antropologici che spingono verso questa interpretazione ma

‹‹the experience of ritual action—that is, the bodily experience of inclusion in a community that behaves as a single large organism—is not mediated but primary››61.

Una delle grandi intuizioni di Durkheim è quella di approfondire un campo da sempre molto analizzato, gli studi sul totemismo sono stati tra i più frequenti nell’antropologia classica62, ma di leggerlo in chiave della sua disciplina più amata:

la sociologia.

È per questo motivo che il suo pensiero si trova in disaccordo con quelli che si sono interessati al totemismo. Frazer, già citato sopra, vi vedeva uno strumento per plasmare il mondo, per cercare di controllarlo, Freud, che farà uscire il suo saggio Totem e Tabù63 appena un anno dopo Le forme elementari della vita religiosa, ha

analizzato i tabù come primitive forme di nevrosi. Durkheim è riuscito a cogliere il fattore sociale, vedendo la religione come la ‹‹grammatica profonda della società››64, il germe della morale.65

Secondo la presente analisi ‹‹Il sacro è il prodotto della realizzazione di un rituale››66.

Allora il rituale non dipenderà dalla religione, poiché le è precedente, è performativo e non descrittivo come hanno pensato numerosi studiosi. Questa affermazione permette uno studio successivo della pratica rituale poiché non è più legata a una credenza religiosa, non essendo un atto che esprime la credenza ma che la crea, se ritroviamo pratiche e cerimonie che soddisfano i criteri dei rituali (e

61 D’Orsi, L., Dei, F., What is a rite? Émile Durkheim, a hundred years later, Open Information Science, Vol. 2 (1), 2018, pp. 115-126. Cit., p. 121

62 Si vede, oltre gli studi che riprende apertamente Durkheim ne Les Formes, anche quelli successivi fatti da Freud, Levis-Strauss solo per citarne alcuni tra i più famosi.

63 Freud, S., Totem e Tabù, Bollati Boringhieri, Torino, 2018. 64 Rosati, M., Solidarietà e sacro, Laterza, Roma-Bari, 2002.

65 In questa sua idea della religione, come un qualcosa che non è mai in errore, e che permane in un certo senso che nelle società laicizzate, Durkheim è in contrasto con un altro grande sociologo del pensiero classico, Max Weber, che teorizzava invece un ‹‹disincanto del mondo››, la fine della religione, ma non ci sembra il luogo per un approfondimento significativo.

quindi assembramento di corpi, grande effervescenza collettiva e pratica che riguarda l’aspetto morale della comunità) nelle società secolarizzate allora possiamo ritrovarvi anche un mondo del sacro.

Dobbiamo ora, come in tutta l’indagine, trasportare lo studio del sacro nell’ambito della società. Se ciò che si sente di incommensurabile sono due i due mondi, quello del sacro e quello del profano, e che il mondo che si va creando nel rituale è quello del sacro, sta di fatto allora che le dimensioni incommensurabili sono quella sociale e quella individuale.

La carica emotiva, l’effervescenza collettiva, la sensazione di conforto derivano tutte dalla dimensione sociale che viene così sacralizzata, ma questa non preesiste al rituale, è il rituale stesso che la crea, è tramite il rituale che l’individuo sente di fare parte di un’unità di cui prima non era a conoscenza, assorto nelle sue pratiche quotidiane.

Andiamo ad analizzare nuovamente i riti mimetici per evidenziare questa caratteristica del rituale. Durante il rito mimetico, come si è visto, tutti i partecipanti devono pitturarsi il corpo come se fossero l’animale totemico, poi si imita il suo verso, con gesti svolti all’unisono. Quando si svolge l’imitazione tutti compiono la solita azione, nel medesimo momento, così non vi sono più tanti individui ma un’unità, un’unità che prima non esisteva, e che ora esiste e viene percepita da ogni membro del clan. Ecco che la società è creata. L’agire all’unisono crea una società, che è una realtà sui generis, poiché non è un gruppo di individui, è qualcosa d’altro che penetra in questi individui e fa percepire il tutto come un qualcosa di unico e indiviso. La società è stata creata, e poi successivamente ricreata in ogni pratica rituale, e così l’animale totemico, emblema simbolico della società si riprodurrà, non è una cosa affidata al caso, succederà sicuramente perché nella pratica rituale si arriva al fine ultimo, la creazione della dimensione sociale. Senza il rituale questa dimensione non potrebbe esistere, non sarebbe mai entrata nelle coscienze degli individui troppo indaffarati ai loro fini quotidiani di sussistenza, ma ‹‹In questo modo, si testimoniano reciprocamente di appartenere alla stessa comunità morale e

assumono coscienza della parentela che li unisce. Il rito non si limita a esprimere questa parentela; la crea o la ricrea››67.

Ma la società è volubile, e per riuscire ad agire tutti all’unisono e compiere rigorosamente le pratiche rituali c’è bisogno di un centro di focalizzazione, una concentrazione di tutti i membri su un oggetto esterno. Ecco perché il sacro in un secondo momento si materializza nel Totem, nell’emblema del clan, poiché questo può rappresentarlo, simboleggiarlo più semplicemente. Il Totem è allora il simbolo della società, è ciò che si ricrea nel rituale, ciò a cui è rivolto il culto:

‹‹L’emblema è una sorta di società portatile. Esso esprime “in una forma materiale” l’unità sociale che in quanto costituita mediante azioni rituali è qualcosa di transitorio e passeggero. L’emblema invece permette la materializzazione e la stabilizzazione di un’unità densa potenzialmente volatile ed effimera››68

La società viene creata e poi ricreata nelle pratiche rituali, essa viene ipostatizzata in un culto, nel sacro, come mondo nettamente in opposizione a quello quotidiano e profano.

Non solo nei riti mimetici, anche nel sacrificio Durkheim vede una prima istituzione del sacro, questo rito infatti inizialmente non prevedeva alcuna oblazione all’essere sacro, è una parte successiva che viene istituzionalizzata appunto con l’avvento delle idee del sacro. Inizialmente i membri della società consumano il pasto in comune ed è questa comunione che genera legame di parentela e così viene creata la società e successivamente l’idea del pasto sacro e dell’oblazione.

Ma allora se il sacro è un prodotto del rituale anche la sua nozione di ambiguità deve derivare da tali pratiche. Abbiamo analizzato prima i riti piaculari, quelli che mettono in risalto le emozioni negative. Ed è in questa pratica rituale che il fedele si accorge della doppia valenza del sacro, quella positiva, della gioia,

67 Durkheim, É., Le forme elementari della vita religiosa, op. cit. p. 422. 68 Fele, G., Il rituale come pratica sociale, op. cit., p. 18.

dell’euforia, e quella invece della tristezza condivisa, che obbliga i membri del clan all’afflizione e al pianto rituale, è la società che

‹‹impone loro un dovere di piangere, di gemere, di infliggersi ferite o di infliggerne a altri; infatti queste manifestazioni collettive e la comunione morale che esse attestano e rafforzano restituiscono al gruppo l’energia che gli avvenimenti minacciavano di sottrargli, e in questo modo gli permettono di riaffermarsi. È questa esperienza che l’uomo interpreta, quando immagina che esistano, fuori di sé, esseri malevoli la cui ostilità, costituzionale o temporanea, possa essere disarmata solo con sofferenze umane.››69

Arrivati a questo punto abbiamo le basi per tirare delle conclusioni sul pensiero generale di Émile Durkheim.

Per il sociologo la religione è piena di simbolismo e ciò che rappresenta davvero è la società. Lungi dall’accostarsi al pensiero del materialismo storico ciò che asserisce è che non sono ‹‹le forme materiali della società e le sue necessità vitali immediate››70 ciò che il simbolismo religioso traduce. Esso infatti per società

non intende solamente quella che si dà alla realtà ma anche quella ideale, è da una sintesi delle due che emerge il mondo religioso.

Come abbiamo visto tutto il mondo del sacro e soprattutto la sua relazione di eterogeneità con il mondo profano sfocia dalla vita rituale, dalla vita collettiva che fa provare agli uomini sentimenti completamente differenti da quelli provati nella noia quotidiana, così da incanalarli in qualche oggetto, il sacro abbiamo visto che è sopraggiunto, è nella mente dei membri del clan che si forma quel mondo, e quel mondo poi si esteriorizza in un secondo momento diventando un’ entità piena di rispetto a cui i membri si sentono obbligati ad obbedire.

Ciò che ci preme evidenziare, come si spera sia già stato fatto fino ad ora, è che i rituali e il mondo del sacro solo in un secondo momento diventano le forme elementari della religione, la loro origine è prettamente sociale, anzi abbiamo visto

69 Durkheim, É., Le forme elementari della vita religiosa, op. cit. p. 478. 70 Ivi, p. 489.

che il rituale precede anche l’idea della società poiché la forma. È da questo punto che partirà tutta la seguente trattazione, questi elementi religiosi possono essere, e quindi devono essere per noi, studiati nelle società laicizzate, secolarizzate, in cui la religione è stata accantonata ma con essa non i rituali e il sacro. Certo troveremo notevoli differenze, soprattutto d’intensità, di quantità, ma un solito meccanismo ci è sembrato in continuità con molte società religiose.

Durkheim dal canto suo accenna solamente a tale studio. Ne Les formes troviamo qualche accenno ad assemblee politiche o alla rivoluzione, mentre in altri suoi scritti sembra che la sua direzione sia quello dello studio di un culto dell’individuo71, ma mai il sociologo di Épinal si avventura in questi campi. Forse

ciò è dovuto alla sua scomparsa prematura, ai tragici risvolti che gli riserva la vita dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, in cui perderà suo figlio ucciso sul fronte britannico.

Tuttavia sappiamo che il suo pensiero è stato largamente ripreso nei successivi studi antropologici, sociologici, filosofici e anche politici, chi esplicitamente, chi solo in modo velato sono tanti i suoi successori ed è da questi studi durkheimiani che pren- deranno forma i successivi capitoli, uno incentrato sugli aspetti storico-politici del sacro e dei rituali e l’altro sull’aspetto della vita quotidiano e della odierna società dei consumi.

71 Questo studio di Durkheim verrà approfondito successivamente, nel terzo capitolo. Esso sarà la base dell’approfondimento sulla sociologia di Erving Goffman basata appunto sulla sacralità del self.

II

I rituali della politica

Abbiamo deciso in questo capitolo di analizzare il rituale nell’ambito della politica. Il punto di partenza rimarrà la trattazione del primo capitolo, le idee di Émile Durkheim espresse ne Le forme elementari della vita religiosa, riportate però ora in un contesto diverso.

In una prima parte del capitolo faremo un’introduzione generale al rituale pubblico e alle sue applicazioni in politica per poi approfondire il concetto di sacralizzazione del potere e della politica, ripercorrendo anche brevemente la sua evoluzione storica nei vari sistemi politici che via via si sono susseguiti, sia prima della secolarizzazione delle istituzioni politiche sia dopo l’avvento di questa. Dopo aver introdotto questi concetti cercheremo di analizzarli in campi d’indagine specifici: i totalitarismi del 1900 e la Rivoluzione francese.

Molti degli autori che prenderemo in considerazione si rifanno espressamente a Durkheim, coloro che non esplicitano la tradizione del sociologo francese pensiamo in ogni caso che abbiano studiato gli argomenti in un’ottica molto similare. Lo stesso Durkheim ha più volte accennato a una dimensione rituale, e di conseguenza a un’applicazione del concetto di sacro, nel mondo contemporaneo o nella politica, soprattutto per quanto riguarda la Rivoluzione francese. Il sociologo di Épinal, come già detto nel capitolo precedente, non ha però mai approfondito veramente queste teorie, mentre molti studiosi le hanno elaborate in vari sistemi politici. Ci serviremo di loro per portare alla luce le dinamiche del rituale applicato ai contesti politici.