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di Daniela Fabriz

Non si dà corpo alle anime delle città se non si è cacciatori di uragani interiori, se non si avverte nelle narici il grandioso portento delle opere architet- toniche e l’empito nascosto delle anime che le hanno abitate. Una partenza è già un’epifania e, accanto a normali baga- gli, a consuete stazioni, Anna porta con sé sensazioni salmastre, brumate, silva- ne, che ha rintracciato negli anni, da quando ha saputo di essere nata per dar vita a leggende future di remoto gremite. Dunque il viaggio, l’archetipo pri- mo dell’uomo terreno e divino, è già decantato come incipit supremo e di- venta scoperta e mistero ad ogni tra- ghetto, ad ogni treno. Per questo le cit- tà, quasi scelte per caso, accolgono An- na con un senso contrario: tutto ciò che appare nel bello e nello straordinario rivela al suo compito uno strano detta-

to: ciò che agli altri è nascosto, ciò che appare spezzato nell’immaginario.

Anna non va con la penna, ma neppure insegue l’insegna del turista che si affida alla guida. Nei suoi viag- gi riposa, si nutre di linfa odorosa, di paesaggi e di incontri, attraversa le strade, disquisisce e sorride ai suoi commensali nelle sale da tè, poi di- spone la mente al riposo nelle stanze da letto di un palazzo di tempo prezio- so. Non è che un piacevole stare a guardare, i dipinti, i tappeti, le case lasciate da altre occasioni, dal passag- gio di tempi e persone.

Ma Anna è una scrittrice, la stanza di breve dimora se ne avvede e dispone i suoi arredi all’apparire di vicende se- grete. Nel giorno va, arriva e spensiera, le città la accolgono lieta, col sorriso degli occhi che cambia e fa nuovi ogni volta perché non ammira consueta ma sguarda oltre vicoli e mura. Nessuno si accorge di questo affollato silenzio, lei ne ravvisa però le maglie invisibili in un abbraccio, in una sorta di laccio che cattura più che il suo occhio.

Ma cammina e si bea delle città negli abiti della sera, fino a quando da sola, davanti a una finestra accesa sul- le luci danzanti di una strada, si sente sopraffatta dal pensiero e con la mano corre con la sua penna biro a racconta- re sussurri di mistero.

A volte è il sogno che le si rivela, a costruire storie ove la verità si me- scola all’onirica dualità di una chime- ra. Così il preludio dell’alba diventa scrittoio e, nell’attimo prima del risve-

glio del mondo, hanno preso corpo creature d’altro tempo, incatenate nel- l’arcano di uno struggente disegno.

Le storie la tessono, le vivono ad- dosso, liberandosi di secoli di sofferto mutismo e la coinvolgono in un teatro erroneamente designato dal fato. D’al- tronde Anna è l’alfiere delle Rosse Pergamene, e le città se ne danno voce perché si parlano a distanze temporali, spinte da ciò di cui son fatte: pietre sin- golari venute di lontano, da altri luoghi che non sono mai spariti. E devono cer- care suoni di campane, forse di venti delatori, perché ogni città le si dipana in una diversa storia come fosse in attesa della propria scrittrice capace di cam- biare le parole con le pietre.

Il giorno è un’altra cosa, le città sono affabilmente detentrici di sortile- gi unici, di bellezze mozzafiato che le rendono immortali ma inamovibili a concedersi a nessuno se non evocando sensazioni, palpiti, emozioni. Ad An- na, che calpesta le strade che si inse- guono sinuose, sembra di essere stata scelta e catturata per la commedia del- la vita, quella altra, soffocata, non nar- rata, suggerita dalle vicende seppellite negli strati delle mura.

Anna non si lascia portare dall’iti- nerario, ma dalla coscienza interiore che ha orecchi per ciò che non appare, dunque può lasciarsi alle spalle il bello e il buono di brevi vacanze, di incontri e conviviali momenti, per aprire le ali al mondo di esistenze che la sceglie.

Sarà partita sempre con l’animo pronto ad essere intriso, suscitato e con-

taminato? Sicuramente sì, e questo ren- de i viaggi bagagli autentici di pensieri da non disfare se non nelle mani di una notte messaggera che è per lo scrittore culla dal sonno disertore per corteggia- re stelle senza uguale, nell’ambiguità del sogno che è reale.

Certo, dopo i primi racconti, dopo le confidenze delle città non scelte, de- ve essere cambiato qualche cosa: la fervida sorpresa, la mascherata attesa, l’attenzione millimetrica, la lingua alle- gorica, devono aver preso memoria. Perché le storie non si somigliano, ma l’incipit è forse quel refrain del “pro- fumo delle fresie” che apriva e chiude- va un capolavoro dell’arte romanziera.

Rubare alla notte la sua scrittura di nebbia, disertare l’alba che tradisce verità nascoste…, e il giorno godersi ciò che appare sapendo di aver cono- sciuto ciò che vi scompare. Perché gli antichi palazzi di ogni città sono av- volti da un’aura mistica di sacralità, conservano passaggi, gioie, paure, sen- timenti, offese, emozioni e sofferenze di chi li ha abitati lasciando calchi di memorie cui solo scrittori illuminati sanno sovrapporre le proprie impronte, la propria forma mentis, sensibili co- me sono ai non viventi impressi nei loro brevi eterni tempi.

Intorno alle leggende, tramandate negli orecchi dei passanti, trepidano le storie rinnegate e condannate, le soffe- renze d’amore elette a letteratura po- polare che intesse giochi di arreda- menti e passaggi segreti a immortalare quelli che sarebbero peccati.

Dunque Anna Manna si muove in un ambito antropo-sociologico, nella storia scritta da devoti servitori o da crudeli aguzzini. Nessuna prova da por- tare in tribunale, nessun processo da ce- lebrare. Non è questo che suscita il mi- sfatto, ma la complicità del tutto: il mo- vimento delle pietre fisse, sciolte dal compatimento quando non anche dal pianto; l’animarsi di un arredamento che non dimentica e rimette in scena ogni avvenimento che ha fatto sussultare il selciato, gli architravi o il pavimento.

Anna non ha scelto, queste città hanno scelto Anna non per essere mo- numento ma sortilegio di pietre in mo- vimento. Certo, Anna sente e vede ciò che per altri è muto e immoto. Certo, conosce l linguaggio del ricordo non come deja-vù ma come coinvolgimen- to, non ha paura di imbastire il lino strappato dal passato per farne inchio- stro di stampato. Questo suo disporsi all’ascolto, questo credere ai rumori e alle voci d’altro tempo, le ha aperto porte governate dalla sorte la cui chia- ve era andata persa non per negligenza ma per concupiscenza, per la legge dell’onore e del timore, perché nulla trapelasse dall’altrove. Ma i mondi non sono speculari e chi abita giorni senza pari è destinato ad essere invita- to a conviti e assisi dell’immaginario.

Uscendo da ogni posto una do- manda sovraffolla il resto: il vero è ciò che appare e quell’immaginario non è che rappresentazione, o la realtà trova le sue strade per dire a chi ha cuore di parole di raccontare verità dimenticate

e leggendarie? Scalpitano, affamati, gli scrigni sigillati dei Palazzi di Città dis- seminati nella nostra Italia; aspettano, i racconti, di essere disseppelliti e re- suscitati. Anna non programma né im- pegna la sua agenda, i nomi verranno dalla scelta della stella che brillerà più intensa, dal caso che coniugherà l’af- flato alla partenza.

Racconterà, Anna, perché raccon- to è ascolto, restituzione dell’irrisolto, del taciuto perché sconosciuto o scan- daloso, dell’inatteso perché seppellito, del brivido di vita che rende eterna la confidenza rivelata nell’ovattata pre- senza del non tempo a chi ha orecchi per tradurre il silenzio.

Comprendere i silenzi, decriptarne i codici di messaggi segreti, significa conoscenza assoluta dei linguaggi al- tri, quelli non verbali, propri di chi si rivolge a chi padroneggia le parole per comunicare ed imparare a parlare. Questo hanno fatto le città per merito di Anna: hanno imparato a raccontare ciò che non può essere scritto nella Storia perché minuscolo e privato, mai troppo piccolo, però, per una storia più grande che si chiama vita.

Così Urbino “ventosa”, orgogliosa del suo colle, della magnificenza d’arte e di cultura, apparentemente setacciata da intenditori di settore, illuminata da scritti di ricercatori di rango e profes- sori, dimentica la fama di cui è circon- data per regalare ad Anna la chiave di una storia mai narrata. Perché dovreb- be farlo? È satura di fama. Ma l’intima ragione della confidenza è l’empatia,

la fiduciosa alleanza che si stabilisce con una persona sola, scelta perché in possesso di una virtù più che mai rara: sentire con il cuore, vedere con l’amo- re, tradurre ciò che non ha consonanti né vocali in una lingua cui sia permes- so l’ingresso ad un enigma agli altri secretato dietro le bellezze sconfinate della sua cultura, della meraviglia del- l’architettura, della foresta di alberi di libri che chiamare Biblioteca rende- rebbe priva di immensi sortilegi.

Anna, per vocazione, dirige una biblioteca nazionale, “Lettere alla Sa- pienza” e, pur essendo il suo lavoro tecnicamente alto e d’alto pregio, non lo ha mai svolto con il cervello e l’occhio, è entrata in ogni libro come si fa entrando in una chiesa, quasi in pre- ghiera, in silenziosa attesa, scoprendo ad una ad una ciò che ogni pagina oltre la scrittura cela. Ma Urbino non le si svela in una biblioteca, né in una stanza superbamente arredata, il racconto si dipana per la strada, con i passi di un’Eleonora che deve fare i conti col silenzio, protagonista vero del racconto, portata in braccio da un destino contra- rio al senso del vento ingovernato. La Muta di Raffaello le riempirà il silenzio giacché muta è ella stessa di fronte al compimento incompiuto del suo pre- sente mai passato.

Nessuno potrà salvarla dalla pri- gionia della parola se non un poeta, de- tentore della traduzione degli eventi per antonomasia. Eleonora salvata da un poeta! Urbino assolta dal segreto oscil- lante sulle cime da un aquilone che vo-

la verso il cielo ove non c’è mistero che appaia più grave di ogni vero.

A chi altri Urbino poteva regalare una leggenda? Solo e soltanto ad An- na, col compito di renderla racconto e di mostrare al mondo che una città conserva dentro un analfabetico dise- gno ravvisabile solo da chi possiede la chiave per entrare nel grande senti- mento, nel mistero del tempo.

Ma i viaggi, ciascuno nei suoi tene- ri o feroci abbracci, non avvengono sempre in occasione di spensieratezza o di convegni. Ne “L’inquietante profu- mo della polvere”, Anna si trova nell’Archivio di Stato di Roma (Sant’I- vo alla Sapienza), non è il silenzio che la strega, ma un sussurro che si fa pan- tera e che la inquieta. Una polvere sotti- le sembra volerla ricoprire, polvere ros- sa che la insegue delatrice, ricordo di un sangue che non trova pace.

Donna Vittoria le si fa persona in giorni rubati a una galera irrisolta nella morte e nella vita. La cattura e la im- prigiona in un racconto scartato dal tempo perché troppo oscuro e intenso. A volte i secoli rifiutano un singolo accaduto perché fermerebbe gli attimi sincronici per farne dilatazioni im- mense di umanissime vicende destina- te ad essere fagocitate dai destini dia- cronici delle grandi Storie elette ad es- sere scritte e tramandate.

È il viaggio nell’altrove che a cia- scuno è negato se non per disegno im- perscrutabile del fato. Ma il fato sceglie non a caso, solo chi ascolta la voce del- la polvere passa il guado, ed Anna tra-

passa il trapassato per dar ragione a ciò che in vita non ha avuto fiato.

Destinata a rinominare città strada per strada, Anna consegna il compito a chi l’ha rintracciata come scrittrice ca- pace di dare la sua voce a verità sepol- te e silenziose. A lei sola, il vento di bufera ubbidisce alla parola. Per lei sola sangue ed inchiostro si scambiano di posto. Da adesso in poi a Mantova si parlerà del lupo, si cercherà nei pa- lazzi della Napoli più antica la finestra della Famelica sdraiata…

Nessuno, dopo aver letto il libro, potrà più fare a meno di indagare, di sentire, di rivivere le storie nate per dare vita a una leggenda. Anna ha ri- velato a chi conosce le città ciò che a tutti è celato, e questa maternità le rende cittadinanza letteraria straordi- naria, perché a nessuno prima era stato concesso il salvacondotto per attraver- sare il narrato nascosto in punta di cuore rosso. (Daniela Fabrizi)