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di Mario Landolf

Il Molise, come si sa, è stata una delle regioni italiane marchiata da un rile- vante esodo della sua gente. Un fenomeno drammatico che ha, inevitabilmente, sollecitato una fitta letteratura dalla duplice sfaccettatura basata su un istintivo desiderio affabulatorio o su un più controllato e conscio utilizzo dello strumento letterario idoneo alla resa di una suggestività espressiva su un dire di esperienze personali. A questo filone si riconduce Orazio Tanelli. Nato nel 1936 a Macchia Valfortore, in provincia di Campobasso, Egli emigrò negli Stati Uniti nel 1961, completando lì i suoi studi e affermandosi poi come poeta, saggista, docente universitario e animatore culturale oltremodo impegnato a far sì che la voce dell’umano sentire potesse ridondare al di là di ambiti circoscritti per attraversa- re i confini di ogni dove. In questa direzione, è nostra intenzione soffermarci su un testo, pubblicato nel 1994 dal titolo Canti d’oltre oceano, racchiudente tre raccolte poetiche: Canti dell’esule, Canti del ritorno e Canti del sud unite da un unico sentimento quale la tristezza dell’esule, figlia non solo della nostalgia, ma anche della cattiva coscienza di aver tradito le proprie radici per un avvenire, ri- velatosi sempre più illusorio e privo di importanti significati.

Sul piano stilistico, Tanelli, come ha indicato Vincenzo Rossi, ha assimila- to la grande lezione dei classici, per cui “nella sua scrittura poetica si rinvengono il superamento della metrica tradizionale e l’impiego costante del verso libero, la ricerca d’una essenziale densità e la purezza di linguaggio, la misura del verso e della strofa determinata dal contenuto e dal ritmo, la pregnanza di significati e la forza del simbolo, il filtraggio della sostanza sociale ed esistenziale nell’animo corroborato da una cultura fatta propria con profonde ed appassionate fatiche”. (V. Rossi, Introduzione a Canti d’oltre oceano, Edizioni Il ponte Italo - Ameri- cano, New York 1994, p. 18)

Pur partendo da un’ispirazione e da una sensazione acutamente personali, la poesia di Tanelli non si ripiega mai su se stessa, ma assurge a una dimensione ben più ampia, racchiudendo la sofferenza, la nostalgia e l’amore, sentimenti espressi da tante voci senza parole, incontrate e assorbite nel suo umano girova- gare. E lo sguardo, per questo, tende costantemente ad allargarsi sia nello spazio che nel tempo, inglobando l’insieme degli elementi vitali e proiettandosi ora verso il futuro, ora indietro verso il proprio e l’altrui passato, nella certezza che

il poeta può solo rimanere al centro del guado cercando di rappresentare, con le parole, quanto il suo animo riesce a percepire.

L’asse portante dei Canti dell’esule è la contrapposizione tra infanzia / na- tura e maturità/civiltà che il poeta identifica, rispettivamente, nel Molise e negli Stati Uniti. Due facce diverse, anzi antitetiche, che sono l’espressione di due vi- sioni del mondo. L’America lo ha fatto crescere, gli ha dato la consapevolezza dei propri mezzi, ma nell’animo del poeta gli è rimasta estranea. Sin dai primi versi della raccolta il richiamo del suo mondo è più forte delle lusinghe di una civiltà del benessere che pure prova a conquistare i suoi favori. Così le artefatte donne incontrate (donne con parrucche e rossetto / con denti falsi e incipriate /

donne con unghie artificiali) riportano il poeta agli anni passati, a Mariella, la

fanciulla molisana dai lunghi capelli neri (Canti dell’esule, p. 31) impressa per sempre nella sua mente.

Tutto sembra riportarlo ad un prima troppo rapidamente abbandonato. Ed allora il pensiero alla sua terra diviene ancora più forte, quasi lacerante.

Mi preme la nostalgia

del ritorno ai fantasmi antichi che la mia infanzia nutrivano e dissiparono la mia giovinezza. Ora voglio sfogliare il diario di questa vita raminga

che mi sfugge ogni giorno dalle mani con i granelli di sabbia

dalle mani del bimbo che cade nell’acqua marina e si rialza a mani vuote. (p. 35)

Più avanti, invece, la nostalgia si tramuta quasi in un senso di colpa per aver seguito da giovane falsi miti:

Ed io, inesperto fanciullo, lasciai il paese natio in un giorno di nebbia e di mestizia e vagai [ ... ]

Per finire in una terra dove quelle bombe venivano fabbricate.

Ora, dopo tanti lustri, non riesco a tornare alla natura che mi fu amica ma mi fece nutrire inutili sogni in questa di fantasmi utopici mitica epopea

che scaglia falsi eroi nel petroso sentiero del mio destino. (pp. 49-50)

Nei Canti dell’esule, Tanelli riesce, con grande capacità, a comunicare il suo sentire con un linguaggio poetico volutamente semplice che rifugge da inuti- li complessità. Con forza espressiva e con intensità, Egli riesce a toccare tutte le corde dell’animo umano senza fare implodere il suo messaggio. La sua poesia, infatti, pur partendo da istanze individuali, si rivolge alla pluralità degli esseri umani, ma in particolar modo agli ultimi, nella certezza che a controllare e giu- dicare è sempre la parte più forte, giacché il dio-denaro, il Moloch di Allen Gin- sberg, continua più di prima ad essere l’elemento regolatore del mondo. Così lo sguardo del poeta si indurisce e più decisa diviene la critica all’intera civiltà americana:

Non so perché dalla Casa Bianca giunga il grido della dignità umana se si rispettano solo

i diritti dei ricchi

e si calpestano quelli dei poveri. [...]

Manca la luce di Dio

se Cristo è messo in croce ogni giorno fra i grattacieli di New York. (pp. 64-65)

Il denaro è anche la molla che ha fatto illudere milioni di emigrati attratti da fantasiose terre promesse, rivelatesi quasi sempre ingannevoli o annientanti.

Se nei Canti dell’esule la vicenda umana, legata essenzialmente alla diffici- le integrazione nella nuova realtà, è il tema dominante, nei Canti del ritorno Ta- nelli sposta l’obiettivo sulla sua terra d’origine, realizzando componimenti poe- tici che - sia dal punto di vista formale, sia sotto l’aspetto dei contenuti - si diffe- renziano dalla raccolta precedente.

“Superato del tutto ogni lascito di letture e di meditazioni metodologiche, il poeta ha raggiunto (già toccata con la precedente silloge) una maturità di ritmo, di figurazioni cromatiche/musicali/foniche da poter procedere speditamente in entità metriche perfette di versi, di frasi, di periodi, di strofe, di componimenti dai quali non affiorano mai sforzi, intoppi, vuoti, rallentamenti o abbassamenti di tono, né distonie o sonni affettivi”. (V. Rossi, p. 107)

Quindi, una lirica per molti aspetti più complessa, meno esplicita, che si ar- ricchisce, però, sul piano dei contenuti di ulteriori concettualità. Anche perché il ritorno, più che reale, è fantastico, è frutto cioè di un crescente spaesamento che consente al poeta di immergersi con la fantasia nel suo mondo, cercando gli equilibri tra uomo, natura e animali. L’intera raccolta, infatti, è un tentativo, per- fettamente riuscito, di trovare le coordinate giuste per armonizzare i tre elementi del creato in un affiato di straordinaria intensità poetica.

Il richiamo naturale si muove tra una suggestiva descrizione del paesaggio

Il fischio del vento muore fra le querce silenti

e spazza via il profumo del fieno che si diffonde

fra le acacie e le stoppie (p. 124)

e i voli fantastici della lirica successiva:

ciuffi di papaveri

disegnano una figura di donna nell’ombra mobile dell’aquilone che alto svolazza nel cielo. (p. 125)

L’immersione nel suo universo di appartenenza è totale e il poeta si lascia trascinare dall’incanto di una primavera incipiente nella quale “la luce del sole rallegra la sinfonia dei merli innamorati”. Non mancano, però, i richiami prove- nienti dalla terra dell’esilio, e in particolare a tre grandi figure del secolo scorso: Martin Luther King, Ernest Heminguay ed Erza Pound. Personaggi diversi, ani- mati ognuno da una passione profonda che ha reso le loro vite uniche e la loro opera di straordinaria importanza. Valgono per tutti le parole dedicate al grande leader nero:

Sulle montagne dell’Alabama vibra solenne il tuo sogno

messaggio di pace e di giustizia, libertà e uguaglianza:

verrà un giorno in cui i tuoi negri

sederanno alla stessa mensa con i fratelli bianchi

per dividere il pane quotidiano. (p. 133)

Se nei Canti del ritorno a sorreggere l’autore era stato un lungo fantastico viaggio immaginifico, nei Canti del sud il ritorno si concretizza anche fisica- mente e la percezione dell’intorno si arricchisce della freschezza proveniente da una sensorialità ravvicinata. Ed allora “il sangue si scioglie nelle vene, il cuore riproduce le pulsazioni di un tempo; la voce del poeta, che aveva subito le con- trazioni della violenza, si può riaprire al canto rasserenato, può rimodulare il sentire sulle antiche corde sotto il vento dolce di una vigorosa fantasia. [...] Il poeta può riascoltare la voce dell’Eterno, può ritrovare le leggi che il Creatore prescrisse all’avvicendarsi delle stagioni e degli spaz”’. (V. Rossi, pp. 142-143)

Tema dominante dei Canti del sud è la riconquista della propria identità. Il poeta, per riappropriarsi di se stesso, ha bisogno di riascoltare i suoni e gli odori della natura, e al tempo stesso di riattivare il contatto fisico con la sua gente. Gli affetti non sono più un ricordo lontano, ma sono tangibili anche quando si trova- no nell’aldilà. Ed allora il cimitero diviene uno dei luoghi più idonei per vivifi- care la memoria.

Al cimitero del paese ho visitato tombe gremite di piccole lapidi con fotografie di noti volti, ma non ho portato fiori né sterili parole né inutili preghiere, solo il cuore

gonfio di ricordi. (p. 159)

E ancora in un’altra lirica:

Ho paura di calpestare i fiori le ossa dei morti che ascoltano

le nostre voci

nel silenzio delle tombe. (p. 170)

Il cimitero finisce per riaccendere la forza dei suoi ricordi e per arrestare il suo girovagare per il mondo, imponendosi come un luogo capace di regolare la sua esistenza. La sua frequentazione annulla la paura della morte. Egli sente di esserne quasi sfiorato, nel tentativo di restituirgli l’agognata pace.

Il cimitero ha la voce del silenzio, l’estate spacca l’argilla,

l’inverno col suo gelo

solleva il cemento sulle tombe,

che attendono il palpito della pioggia. (p. 179)

I ricordi si succedono rapidi, sollecitando nostalgia, rimpianto, ma anche consapevolezza dell’impossibilità di recuperare la loro essenza profonda. Le fi- gure del padre e della madre appaiono ora nitide, ora spettrali, si mescolano in un universo che, pur avendo gli stessi connotati di un tempo, appare all’improvviso diverso.

Vorrei recuperare il pudore dei bimbi

che nel chiarore dei freschi mattini si recano a scuola

come per gioco. (p. 201)

In questa girandola di pensieri, sensazioni, ricordi, il poeta si sente come Ulisse che ha cercato “virtù e conoscenza fra le alghe d’un mare ignoto”. (p. 175) L’esilio rimane il leitmotiv della sua poetica, laddove ha interrotto un dia- logo istintivo con la sua terra. Tuttavia, alla partenza è subentrato il ritorno ed è in esso che il poeta ritrova se stesso e la sua libertà. Così “la poesia diviene mezzo e messaggio di salvezza, diviene l’alimento per riscattarsi dall’inganno subito con le lusinghe di false prospettive; diviene il luogo ideale nel quale le radici che grondarono sangue possono di nuovo affondare e rinsanguare le arte- rie e la carne, disfatte dalla lontananza e dalla nullificazione dei distintivi indivi- duali”. (V. Rossi p. 152)