Gli impegni scritturali di un auto- re, seppur nati in luoghi e momenti as- sai diversi e distanti, finiscono sempre per costituire tranches de vie. Lo si può chiaramente verificare nell’ultimo lavoro letterario di Maria Lenti, Giar-
dini d’aria in cui sono stati riuniti rac-
conti, alcuni già pubblicati, scritti tra il 1998 e il 2010. L’aver raccolto in un unico corpus percorsi narrativi unici, ma intimamente legati al proprio iter esperienziale, ha finito per dare uno spessore diverso alle singole narrazio- ni, divenute quasi capitoli di un di- scorso più ampio. Infatti, ciò che pri- ma poteva essere letto come ipotesi situazionale, ora diviene argomenta- zione non più a sé stante ma correlata, in una dinamica temporale espansa ed espandibile, alle complesse microsto- rie del quotidiano, ove il leggere ed il
leggersi si mostra sempre arduo.
Quasi a ridimensionare questa complessità, ogni capitolo (in due del- le tre parti in cui è scandito il volume) ha una doppia titolazione: una tempo- rale (si tratta di una temporalità dilata- ta: si inizia dal 1949 e si termina con il 2010) l’altra verbale-tematica: Lapsus
linguae la prima, Abbandono fumanti- no l’ultima. Si entra e ci si muove in
una dimensione storica in cui ogni in- dicazione nominale ha valenza come di madeleines proustiane, in quanto
attivano uno spazio memoriale teso alla ricerca e alla rivisitazione di fatti e persone situati in temporalità composi- te, liberamente circuitanti fuori dal tempo metrico. La lettura si annuncia come veloce percorrimento di un lun- go monologo interiore, che si organiz- za gettandoti a perdifiato in una seque- la di sapienti registri linguistici, sem- pre attenti e misurati. È il risultato del vigile lavoro linguistico dell’autrice, capace di ottimizzare ogni passaggio strutturale, anche quello più complesso ed insidioso, rendendolo estremamente fluido ed efficacissimo.
Dal punto i vista strutturale due sono i capitoli-cardini attorno ai quali ruota tutta la narrazione o, meglio, le narrazioni, in quanto ciascuna presenta connotazioni proprie. Il primo, Dirsi, porta come anno di riferimento il 1973 – quasi un nel mezzo del cammin dan- tesco rivissuto in chiave psicoanalitica tra un referente indicato con A, l’analista, in silenzio reticente colmo di ascolto, e un B, l’autrice, in un ten- tativo di svelamento degli atti mancati, dei propri sogni. La traslazione trans- fertica rimane come sospesa, non ha approdi. C’è una delusione nella ri- chiesta risolutiva. Perciò le forze affet- tive si sciolgono, non producono in- namoramento. L’Io rimane inconscio. Inesplicabile.
Situazione ben diversa da quella anticipata in Transfert / 1952 quando la semplice tazza di latte o di caffè rie- sce a colmare la distanza fisica ed af- fettiva con i genitori. Il richiamo forte alla madre morta, come quello al padre
minatore, sempre lontano, sottintendo- no un recupero emozionale sicuro, senza l’ausilio di un qualsiasi interme- diario. La fanciullezza viene così riat- tualizzata attraverso i suoi primari processi inconsci.
Il secondo, Circonferenza, con il riferimento al 2002 – le sue 24 pagine rappresentano la narrazione più lunga del volume – nel quale si conclude il tentativo della recherche du temps
perdu attraverso l’intenzione di liqui-
dare l’accumulo dei reperti, dei regali e delle lettere quali segni che hanno scandito il tempo della memoria, e che rimangono provocatoriamente attivi, nonostante tutto, come la vita che qua- si esige un ricominciare sempre da ca- po perché tende sempre, se non al nuovo, ad un presunto possibile nuovo (p. 163). Nel rimuginìo tormentato dei ricordi torna spesso il topos del colle- gio che è un elemento fondante della propria esperienza, della propria vi- cenda interiore, ed ha lasciato tracce evidenti e profonde. Le regole, le pu- nizioni, anche quelle più bieche ed in- famanti, accompagnano il tempo na- scosto ma intenso della crescita, in un recinto educativo reputato, allora, il più opportuno e il più qualificato a proporre una offerta formativa adegua- ta, soprattutto se la situazione di orfa- nità veniva ad inibire qualsiasi possibi- lità di convivenza familiare. Attraver- so pagine intensamente rivissute, si snoda questo richiamo obbligato, a cui si torna con l’esperienza adulta nel tentativo di rilettura e di riappropria- mento di tutto quello che si sentiva in-
giustificato ed incomprensibile. Il tempo accumulato dopo può renderci consapevoli, ma non ridà, come sotto- linea spesso l’autrice, anche nell’in- contro fisico con persone e luoghi agi- ti, l’emozionalità vissuta perché è mu- tato il proprio e l’altrui sentire.
In contrapposizione con questa esigenza ricognitiva, nel testo alcuni racconti lasciano trasparire l’impegno politico ed editoriale dell’autrice, che spazia dalla cultura alla letteratura, all’arte, al cinema, alla politica Anni
Sessanta, Le ore di Jonela, Tarta e Ru- ga, in Scaglie aguzze nell’orticello feli- ce. Ma soprattutto traspare il primato
della vita affettiva, della propria esseri- tà e fragilità. È il primato dell’essere sul dover essere. E questo promana da una scrittura più risolta nell’interro- gativo che nell’asseverativo, più nella domanda destabilizzante che nella ri- sposta concludente, costringendo tutto e tutti in una salutare tensione di perenne attesa.
Legato a questo modus sentiendi, nella scrittura della Lenti si coglie chiaramente una profonda “verecon- dia” – uso il termine nella sua positiva pregnanza semantica – linguistica e situazionale, che prima di tutto è sen- timentale. In ogni situazione poco con- facente con la propria sensibilità ed ancor più nelle descrizioni di rapporti intimi il linguaggio non si scompone, non si deteriora, non indugia rimanen- do sempre su un registro di pacata de- scrittività e sensazionalità fortemente interiorizzate, senza lasciar filtrare al- cun segnale proditorio, nessun azzardo
inquietante, nessuna intenzinalità pro- vocatoria. Se dovessimo usare un ter- mine appropriato, desunto dalla no- menclatura artistica, bisognerebbe sce- gliere quello di velatura, un tentativo cioè di armonizzare gli eccessi ricom- ponendoli in una superiore esemplare misura . Cosa non rara nella scrittura al femminile, ma non frequente nella nar- rativa attuale, ove si preferisce un reali- smo spesso di maniera: forte e brutale, quanto inefficace, perché non competi- tivo con lo squallore e la brutalità del quotidiano. (Giarmando Dimarti)