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di Pippo Pappalardo

Nel precedente articolo ho evidenziato come il dialetto siciliano, nonostan- te l’indiscutibile valenza storico-letteraria, sia un linguaggio che rischia l’estinzione. Ho formulato l’auspicio che gli autori siciliani ritrovino il gusto di scrivere in dialetto. Ora vorrei entrare nel merito per esporre alcune difficoltà che deve affrontare chi si accinga a scrivere in dialetto siciliano.

Una prima difficoltà deriva dall’assenza della forma standard del sicilianu ovverossia di quella che i linguisti chiamano la “koinè”. Nonostante esista in tut- to il territorio isolano un substrato linguistico comune che permette ai siciliani di una provincia di capirsi con i siciliani delle altre province, nelle zone geografi- che della Sicilia esistono diversificazioni fonetiche, lessicali e sintattiche tali da dare luogo a sub-dialetti diversi. Esiste, così, un dialetto nella zona occidentale (nel Palermitano), un dialetto pantesco (Pantelleria), un dialetto galloitalico (zo- ne di San Fratello, Piazza Armerina, etc.), un dialetto messinese, e così via. Per dire “io” un catanese dice iù, un messinese iò, un marsalese èu ; per dire “suo” un catanese dice sò, un trapanese sòi, un ennese sùiu. Questi pochi esempi ba- stano a testimoniare l’inesistenza di una parlata comune a tutta l’Isola. Io ritengo che la mancanza di una koinè sia un ostacolo allo scrivere in dialetto perché pen- so che l’obiettivo di un autore sia di rendere fruibili le sue intuizioni poetiche ad un numero di lettori il più ampio possibile. Che senso avrebbe scrivere versi per sé stesso o per un numero ristretto di persone? Ebbene, se il dialetto siciliano ri- sulta ostico agli stessi siciliani, diventa difficoltoso diffondere un prodotto lette- rario. Per questo ritengo che la coesistenza di più sub-dialetti, se da una parte rappresenta una ricchezza per i dialettologi, per i poeti è invece una difficoltà. La soluzione consiste nell’affiancare la traduzione in lingua al testo dialettale; peraltro non è una novità che i testi in lingua straniera vanno tradotti per essere compresi. Mi si lasci però osservare quanto sia sconfortante che una poesia sici- liana debba ricorrere alla traduzione in lingua per essere compresa dagli stessi siciliani... Anche perché la traduzione spesso uccide il testo originario e fa per- dere colore al dialetto. Per quanto mi riguarda ho deciso di evitare gli arcaismi e le parole in disuso, a meno che il tema non lo imponga. Non è una soluzione, è solo una scelta: rinunciare ad un parte del lessico per favorirne la comprensibili- tà. Di soluzioni non ce ne sono, ovviamente, perché un linguaggio non può esse- re imposto. Mi conforto pensando che la mancanza di una koinè non riguarda

solo la Sicilia. Penso alla Sardegna, dove esiste il logudorese nella parte meri- dionale, il gallurese nella parte nord-orientale, il sassarese, l’algherese, etc. In- somma: mal comune, mezzo gaudio…

Una seconda difficoltà si presenta quando si voglia adottare il vocabolario di riferimento. È evidente che un poeta ha bisogno del vocabolario come un pit- tore dei colori. Un buon vocabolario deve riportare frasi idiomatiche, proverbi, modi di dire. Nel caso del nostro dialetto il vocabolario deve contenere le va- rianti in uso nelle varie zone della Sicilia. Orbene, i vocabolari più recenti (Trai- na, Mortillaro) risalgono alla metà dell’800. Essi difettano delle varianti e, dal punto di vista ortografico, sono fondati sul criterio etimologico. Come ignorare che, da cento anni a questa parte, nell’ortografia si sono presentate novità quali ad es. l’introduzione della fonografia? Insomma: quei vocabolari sono obsoleti. Allo stato attuale un vocabolario completo e aggiornato è il Vocabolario Sicilia- no di Piccitto-Tropea-Trovato, edito dal Centro Studi Filologici e Linguistici Si- ciliani (Facoltà di Lettere di Palermo). Si tratta di un’opera in 5 volumi che con- tiene oltre 300 mila entrate e che rappresenta un vanto per la nostra Isola e per coloro che lo hanno redatto. Il VS è un valido sussidio per superare la questione della koinè; esso riporta infatti tutte le varianti in uso nelle varie zone geografi- che. Il VS consente pertanto all’autore di scrivere usando il linguaggio origina- rio oppure di costruirsi un linguaggio proprio con i termini più adatti alla musi- calità del verso o all’espressione dei sentimenti. Il VS fa largo uso del criterio fonografico (del quale parlerò fra breve) e forse suscita qualche perplessità fra i fedeli del criterio etimologico. E’ certo, comunque, che il VS non può essere tacciato di obsolescenza in quanto esso è stato redatto fra il 1997 e il 2002 ed, oltretutto, con metodi scientifici.

La terza difficoltà riguarda l’ortografia, il primo anello su cui si fonda il prodotto della scrittura. La lingua italiana ha criteri consolidati. Una parola ita- liana si scrive sempre allo stesso modo. Tutti i vocabolari italiani condividono e rispettano le convenzioni ortografiche. Il sicilianu non ha invece un criterio uni- voco. Infatti, come ho accennato, esiste il criterio “etimologico”, legato al latino ed alla nostra tradizione letteraria, ed esiste il criterio “fonografico”, i cui pro- motori sono A. Di Giovanni (1872-1946) e G. Tamburello (1868-1942). Quest’ultimo criterio si pone l’obiettivo di modellare la grafia alla fonia. Ad esempio, volendo scrivere “per andare”, il criterio etimologico fa scrivere “ppi

iri”, mentre il criterio fonografico chiede di scrivere “ppi-gghiri”. E’ evidente

che questa seconda forma di scrittura è più aderente al parlato, ma i critici del fonografismo osservano che la forma “gghiri” non si trova in nessun vocabola- rio. Più in generale gli stessi critici osservano che i suoni emessi dalla laringe umana sono innumerevoli e che perciò risulta impossibile costruire un criterio in

cui la grafia riproduca con assoluta fedeltà i suoni del parlato. Io penso che sa- rebbe un grave errore ignorare i principi del fonografismo. A mio parere l’esperienza fonografica non è un fallimento, come sostiene qualcuno, e la con- troprova sta nel fatto che questo criterio è utilizzato appieno dal VS, un vocabo- lario a cui hanno collaborato i maggiori Atenei siciliani. La mia personale espe- rienza mi ha portato a scegliere di fruire del fonografismo in tutti i casi in cui il criterio etimologico non riesce a riprodurre la realtà del parlato dialettale (es. a-

gghìnchiri, sta-ccùra, etc.). Ho fatto questa scelta “mediata” tenendo conto di un

rischio: chi adotta solo il criterio etimologico può incorrere in problemi di scon- nessione fra la fonia e la grafia; mentre chi usa il criterio fonografico può subire le critiche di chi ritiene che quello etimologico sia il criterio più fedele ai canoni classici. E mi chiedo: può la grafia dipendere dalle opinioni di questo o di quel critico? De Saussure notava che la scrittura offusca la visione di una lingua. Io penso che l’assenza di un criterio di scrittura potrebbe cagionarne la morte. Per queste ragioni auspico che un Ente di provata autorevolevolezza si accolli l’onere di indicare le guidelines dell’ortografia dialettale. Confido nell’iniziativa del Centro Studi Linguistici e Filologici Siciliani e spero che vengano dettate regole semplici e, peraltro, adatte alla scrittura mediante computer. Nelle more la soluzione più logica è di studiare attentamente il VS, atteso che questo voca- bolario rappresenta una valida guida anche per la grafia del dialetto siciliano.

Un’ultima difficoltà deriva dalla mancanza di una grammatica normativa. Attenzione: di grammatiche ne sono state scritte tante. Basti pensare ai lavori di Meli, Rohlfs, Traina, Pitrè e, per andare a tempi più recenti, di Camilleri o di Al- fonso Leone. Si badi bene, però, che sono tutte grammatiche “descrittive” e non “normative”. La grammatica di Pitrè illustra le modificazioni dal latino al sici- liano. La grammatica di Camilleri è un lodevole tentativo di definire le regole, ma a me ha fatto sorgere qualche perplessità. Ad es. Camilleri nelle coniugazio- ni verbali riporta tempi in disuso, come il futuro e il condizionale. È vero che, a fine capitolo, conclude che sarebbe meglio “bruciare” sia il futuro sia il condi- zionale, ma forse sarebbe stato più opportuno non parlarne affatto. In ogni caso è innegabile che la realtà linguistica siciliana deprime ogni sforzo diretto a stabi- lire norme per la grafica. Il motivo è chiaro, se ci ragioniamo un attimo. Cer- chiamo il termine “grammatica” in un qualunque vocabolario e ci accorgeremo che con tale termine si definisce “un insieme di regole che stabilizzano le

espressioni dei parlanti una stessa lingua”. Ebbene, si è finito di dire che la lin-

gua siciliana non esiste. Ed allora che senso ha scrivere una grammatica per “stabilizzare” una lingua che non c’è? Si dovrebbero scrivere tante grammatiche quanti sono i sub-dialetti? Purtroppo anche la mancanza di una grammatica normativa lascia all’autore tanti dubbi: sto scrivendo bene? quali regole devo

seguire? Oltretutto la mancanza di regole rende soggettivo il giudizio dei lettori. Mi chiedo: può un lettore, che in molti casi non ha lo stesso grado di approfon- dimento dell’autore, giudicare la bontà di uno scritto dialettale? La questione si accentua nei premi letterari: come fa un giurato a valutare un’opera dialettale se mancano regole morfosintattiche certe e condivise. Gli addetti ai lavori consi- gliano di affidarsi alle regole della lingua parlata. A mio parere è sempre neces- sario confrontarsi con una buona grammatica, seppure “descrittiva”, e supplire alla mancanza di regole con il buon senso personale.

In conclusione: scrivere in sicilianu - un linguaggio ancestrale che consente al poeta di esprimere un ampio registro di sentimenti, dall’intimistico all’ironico, dal sociale al familiare - presenta difficoltà superiori allo scrivere in lingua ita- liana. Resto tuttavia convinto che vale la pena cimentarsi perché il sicilianu fa parte del nostro patrimonio genetico, oltre che di quello storico e culturale, e per ciò stesso deve essere conservato e valorizzato.

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