La debolezza di scrivere272 è il libro pubblicato da Del Buono nel
1987, che racchiude un romanzo inedito, il quale da il titolo al volume, e la riproposizione di due racconti composti durante la giovinezza, rispettivamente Fine d’inverno273 e Fare lo sciopero274; infine, gli scritti sono seguiti da una nota di Cesare de Michelis.
Il romanzo si compone di 25 capitoli, i quali non sono altro che una rivisitazione, l’ennesima, della vicenda personale di Oreste, tornato in patria dopo la prigionia nel lager tedesco durante la guerra. A casa ritrova la famiglia, il padre e la madre, che litigano quotidianamente come al solito, e i fratelli, che corrono sempre giocando per l’appartamento, e, infine, gli amici. Tra questi si profila una netta divisione: da una parte ci sono i collaboratori della rivista «Uomo», cristiani cattolici intenti a discutere dell’importanza del nesso vita- letteratura e a riproporre le testimonianze della guerra, dall’altra vi è la figura di Nerio, fratello dell’amata Gabriella, membro del partito comunista, concentrato in una cultura che non sia solo astratta ma che aiuti concretamente l’uomo nella vita di tutti i giorni, per far sì che il sacrificio della guerra non risulti inutile, per riscattare il fatto di essere borghese. Tutto ciò costituisce la ripetizione, con tagli, aggiunte o cambiamenti, del narrato delle opere precedenti, in particolar modo di
La parte difficile275 e I peggiori anni della nostra vita276. Infatti, sono
272
OdB, La debolezza di scrivere, Marsilio, Vennezia, 1989.
273 OdB, Fine d’inverno, in «Uomo», giugno 1945, fascicolo VII, pp. 40-64. 274 OdB, Fare lo sciopero, in «Il Politecnico», 26 gennaio 1945, n. 18, p. 18. 275 OdB, La parte difficile cit.
87 riproposte alcune scene ormai divenute tipiche dei suoi romanzi; ad esempio quella del bagno, quando il protagonista intende lavarsi da solo anche se non è in forze, che manifesta la debolezza fisica e il cambiamento del ragazzo a causa delle numerose sofferenze patite; quella del letto, in occasione della quale Oreste è sospeso tra veglia e sonno e non riesce a distinguere tra realtà e immaginazione, tra il presente a casa e il passato al campo di prigionia; e ancora, si ritrova il dialogo complicato con la madre, che esalta da sempre il coraggio del caduto fratello Teseo Tesei e critica la vigliaccheria del figlio, quasi come se l’avesse preferito vittima di guerra che superstite fuggiasco, e con il padre, il quale invece non concepisce chi fa sacrifici inutili in nome di un ideale.
A questo punto, però, si inserisce una sequenza nuova, dedicata alla descrizione dei cadaveri in piazza Loreto, prettamente da un’ottica scientifica, che esalta la mancanza di umanità in tutto ciò che appartiene alla guerra e alla vendetta. Quindi, ecco il ricordo dell’incontro con Gabriella e il confronto con gli amici della casa editrice, i quali gli propongono la scrittura di un racconto sulla prigionia, quel Fine d’inverno riportato poi all’interno del volume stesso, che in seguito diventerà un romanzo, il primo dell’autore:
Racconto d’inverno277
.
All’interno di queste vicende, si profila il tema centrale del racconto: il problema della scrittura, come anticipato sin dal titolo. Nel capitolo diciottesimo il narratore, tornato in prima persona dopo la parentesi del libro precedente, riflette proprio sulla debolezza: “Quasi senza 276 OdB, I peggiori anni della nostra vita, cit.
88 accorgermene, anzi, peggio, fingendo di non accorgermene, avevo ricominciato a scrivere. Solo che scrivere, ora, […] era troppo diverso da prima. Perché, prima, mi era stato possibile abbandonarmi alla vanità della letteratura, alla smania di distinguermi tra i coetanei, alla presunzione di appartenere a una setta di iniziati, ora, invece, ritornare a scarabocchiare su un foglio una serie di parole, pur essendo la mia esperienza, significava riconoscere di non essere capace di fare altro”278
. Dunque, il problema di Del Buono è quello di non riuscire a scrivere in modo sincero. Questa difficoltà allude anche alla critica verso quelle opere della stagione del Neorealismo che non sono riuscite ad essere completamente sincere e genuine, ma che hanno riproposto sempre le solite argomentazioni, talvolta distaccandosi da quella che sarebbe dovuta essere una testimonianza personale; peraltro, anche questa tematica era già stata affrontata dall’autore in altri suoi scritti.
Quindi, dopo questa parentesi dedicata ad una riflessione sulla scrittura e sulla cultura del tempo, il narratore torna agli eventi della vita di tutti i giorni, ai problemi del padre in fabbrica, accusato dagli operai di aver collaborato con il Fascismo solo perché appartenente alla classe dirigente, all’inizio della relazione con Gabriella e al proseguimento della sua carriera letteraria, con la presentazione da parte di Nerio a Vittorini, direttore de Il Politecnico, giornale per il quale Oreste scriverà il racconto riportato per secondo nelle ultime pagine del libro, Fare lo sciopero.
278 OdB, La debolezza di scrivere cit, p. 84.
89 Sullo sfondo, tramite la voce del cronista della radio, espediente già adottato in precedenza, i tragici eventi della fine della guerra con il lancio della bomba atomica sul Giappone deciso dal presidente degli Stati Uniti.
In conclusione, nel capitolo finale, il narratore ribadisce il carattere demistificatorio della scrittura, che necessariamente comporta una distorsione dei fatti, asserendo: “Non avrei mai dovuto cedere alla debolezza di scrivere… Mai e poi mai… Le parole, ahimé, le parole, le parole, le parole, maledizione… le stramaledette parole…”279
.
Dunque, critica al linguaggio come strumento convenzionale dell’uomo e, pertanto, inevitabilmente imperfetto, tuttavia, allo stesso tempo, dichiarazione d’amore per la scrittura medesima, parte integrante della propria vita, a tal punto da sfumare l’una nell’altra, sino quasi a non distinguerne nettamente i confini.
Importante risulta poi la nota280 di Cesare de Michelis, dove si precisa l’esperienza editoriale giovanile di Del Buono, fondatore, assieme a Valsecchi e Porzio della rivista «Uomo» nel 1943 a Milano, presso la libreria Cantoni; la spinta di questa nuova avventura culturale viene rintracciata nella “testimonianza del loro impegno morale e della loro vocazione artistica”281
. Subito dopo, Oreste decide di arruolarsi in marina, così lascia agli amici dei soldi e qualche articolo per proseguire alla collaborazione anche in sua assenza. Perciò, non appena torna in patria nel 1945, dopo la dura esperienza di del lager, ecco che subito torna a lavorare attivamente per la rivista, con la
279 Ivi, p. 123. 280 Ivi, pp. 167-181. 281 Ivi, p. 170.
90 pubblicazione di quel racconto di prigionia che ben presto si amplierà sino a costituire il suo primo romanzo. Pertanto, tra il 1943 e il 1945, escono nove fascicoli e, alla fine dell’oppressione fascista, il discorso si fa sempre più esplicito. Inoltre, il critico evidenzia come attorno ad essa gravitino sia giovani autori sia i maestri della letteratura novecentesca; ad esempio, tra questi, si ritrovano contributi di Quasimodo, Montale e Bo. Dunque, egli sottolinea come sia stato incredibile che, durante un regime dittatoriale come quello fascista, sia riuscita a sopravvivere la rivista «Uomo», un’impresa letteraria nuova, sorretta dal progetto di portare nella letteratura e nell’arte “le ragioni umane”282, infatti l’origine del Neorealismo letterario risiedeva
proprio nell’unione delle ragioni estetiche con quelle umane.
A proposito del Neorealismo, si esprime un giudizio critico sul racconto neorealista di Del Buono, Fine d’inverno, visto come “non solo testimonianza”283
ma anche “mediazione letteraria-fantastica, stilistica-narrativa”284.
Concentrandosi poi sul romanzo, nota che esso “propone un’interpretazione […] diversa di quell’iniziazione letteraria”285
e che da voce a quel “divario incolmabile che separa la letteratura dalla realtà”286
. Infatti, a ben guardare, tutta la produzione dell’autore risulta essere, insieme, una smentita ed una conferma di questo proposito: non scrivere più, proposito contraddetto dalla costante riflessione metanarrativa che accompagna la sua produzione narrativa, nella
282 Ibidem. 283 Ivi, p. 175. 284 Ibidem. 285 Ivi, p. 176. 286 Ivi, p. 177..
91 quale il proprio narrare è il soggetto del racconto stesso. Questa “è la ragione fondamentale del procedere iterativo dei suoi romanzi, che attingono senza remore ai testi precedenti, ricomponendo i pezzi di un universo in frantumi per comporre un disegno finalmente decifrabile”287; in effetti, “Non è solo un gioco a incastro, un terribile
puzzle senza soluzione, ma lo sforzo di definire uno stato d’animo profondamente compromesso da un insuperabile pessimismo esistenziale e sostenuto da un vitalismo inesauribile. La contraddizione sta qui e si riflette in quell’altra, tra vita e letteratura, che invano si è cercato di risolvere nel documentarismo testimoniale o di eludere nella ricerca formale”288
.
Da notare, infine, come questo libro costituisca la prima occasione in cui l’autore ristampa i suoi scritti, i due racconti posti a conclusione del volume, subito dopo il romanzo inedito; de Michelis rintraccia opportunamente in questa novità, la volontà dello scrittore di lavorare in una direzione diversa e di sottolineare “la coerenza di un lavoro di ricerca che dura da Fine d’inverno a oggi”289.
In conclusione, tali opinioni sono condivise anche dal contributo critico di Lorenzo Mondo, il quale, in un articolo290 apparso subito dopo la pubblicazione del romanzo, sostiene che “Oreste Del buono è attento soprattutto a scrivere negli anni, lo stesso libro. Che fa perno intorno a un luogo infiammato dell’esistenza e
287 Ibidem.
288
Ivi, p. 178.
289 Ivi, p. 181.
290 L. Mondo, Il soldatino del Buono torna a casa e si ritrova solo, Tuttolibri, «La Stampa», 24
92 dell’immaginazione”291
. Tuttavia, “Resiste […] la forza dell’amore. Resiste la passione della scrittura, quella debolezza del titolo”292
. Quindi, lo scritto prosegue commentando l’inserimento dei due racconti, due versioni di uno stesso episodio tratto dall’esperienza di prigionia nel lager, come “il segno di una maturità che si esprime nel calore e nel tremore di una mite, gentile ironia”, in riferimento alla descrizione scientifica dei cadaveri di piazza Loreto.
Questi pochi ma autorevoli contributi critici, confermano la mia impressione iniziale: l’autore, ricapitolando la propria esperienza personale e rivisitando la propria produzione letteraria, cerca giungere faticosamente ad una conclusione, come se, tanto il vissuto quanto il narrato, debbano necessariamente approdare ad una punto fermo, inequivocabile; tuttavia, questo gioco iterativo, questa volta, a differenza dei testi precedenti, non sfugge di mano all’autore, che arriva a dominare la materia trattata, tanto da riuscire a non perdersi nuovamente nel labirinto della propria coscienza e della propria scrittura, ma a chiudere il cerchio della sua lunga e costante indagine, al tempo stesso psicologica e letteraria. Questo perché, a distanza di anni, anche i soliti avvenimenti possono essere visti e analizzati con una prospettiva differente, registrando il passaggio dalla gioventù alla maturità, dalla partecipazione emotiva e coinvolgente al racconto distaccato e ironico del passato, anche se si tratta di un vissuto sofferente.
291 Ibidem.
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