La terza persona217 è una raccolta di sette racconti in continuità, scritti
tra il 1962 e il 1964, dedicati alla figlia Nicoletta e pubblicati presso Mondadori nel 1965, nella collana Narratori Italiani.
Il volume si pone in linea con il resto della produzione dell’autore, proseguendo l’ossessivo scandaglio dell’animo umano, ma anche la riflessione metaletteraria, sempre più esplicita e palese.
I primi giudizi critici sono positivi: Gallo definisce il libro come la prova migliore di del Buono; Lattanzio218 sottolinea la ricerca da parte dell’autore-narratore del motivo profondo che provoca l’inquietudine esistenziale che li corrode nel tempo, un tormento che alla fine conduce all’alienazione di se; Gramigna219
illustra come in realtà questa raccolta non racconti una vicenda, bensì una struttura di possibili che si vanno accumulando e trasformando, sino a dimostrare l’impossibilità di creare una storia reale attraverso il linguaggio; Baldacci220 si sofferma invece sulla chiusura dell’indagine del narratore, concentrato sulla propria salvezza personale, a prescindere da possibili legami con la realtà circostante, attraverso l’espediente
217 OdB, La terza persona, Mondadori, Milano, 1965.
218 G. Lattanzio, Un brutto gioco, o no?, in «L’Italia», 7 aprile 1965, p. 3. 219
G. Gramigna, Oreste del Buono e il realismo poetico, «La Fiera Letteraria», 21 febbraio 1965, p. 3.
220 L. Baldacci, L’eroe di del Buono spettatore della propria vita, in «Epoca», 14 marzo 1965, p.
65 della menzogna: l’esito dello iato tra il pensiero e l’atto, tanto che al protagonista sfugge persino la percezione del suo ragionamento e assiste con passività al film della sua attività mentale.
Di tutt’altro genere appare invece l’opinione di Barberi-Squarotti, il quale rintraccia un limite del discorso dell’autore: “la voluta pazienza di concentrazione, le ripetizioni, le riprese dei motivi e delle frasi, delle situazioni e dei dati”221, sino a sostenere che “Lo scrittore non
riesce ad uscire dal labirinto in cui si è di nuovo cacciato”, a differenza di quanto è accaduto col romanzo precedente; nell’ultima opera il narratore “rigira intorno alle storie di donne dilatandone i minimi episodi nel continuo ripresentarli e discuterli da tutti i possibili punti di vista, fino a perdere di mira il senso dell’indagine, l’oggetto morale che ne era al fondo, e accumulare soltanto parole che, nel cerchio dei ritorni costanti delle stesse espressioni, a un certo punto non hanno neppure più quella carica di ostinazione tecnica significativa come ipotesi di un enorme, mostruoso romanzo in formazione, che si distrugge e si nega nell’attimo stesso di costruirsi, divorando le minime occasioni narrative per poi subito rinascere dalle ceneri nella ripetizione paziente e continua”222. Con questo intervento si afferma dunque il limite dello scrittore nell’eccessivo utilizzo del modulo ripetitivo, e si consiglia a del Buono di rimettersi in gioco, di rinnovare la propria scrittura.
Taffon prende in esame piuttosto la riflessione sul rapporto tra vita e letteratura, leggendo la nuova opera come un mezzo per ribadire il pensiero dell’autore, cioè “l’impossibilità di incontro tra persone, la
221 Barberi Squarotti, cit., p. 409. 222 Ibidem.
66 radicata contraddizione tra ciò che è e ciò che appare nelle relazioni sociali”223
.
Nella Storia generale della letteratura italiana224 invece viene messo in risalto il ruolo innovativo assunto da del Buono nella narrativa dal dopoguerra in poi, sottolineando il suo merito culturale: quello di aver preso in esame la psiche ed il comportamento di un soggetto controcorrente e rigorosamente privato, rispolverando e riattivando una vecchia tradizione, senza però cadere nel patetico e nell’edificante. Del Buono infatti “si è trovato il linguaggio con cui continua a credere, anche se l’umorismo sembra negargli le buone ragioni per farlo”225
.
Tale raccolta è segnalata da Brolli quale epilogo del “percorso di oggettivazione del materiale biografico”226
operato dallo scrittore, col quale egli finalmente “raggiunge un suo punto di equilibrio”227
. La scrittura diviene “delirio febbricitante, che genera una spirale di riflessioni ossessive”228, poiché “il limite delle situazioni finisce col
rincorrere il limite stesso della scrittura”229. L’esito è che “il senso si
polverizza, ed emerge il cinismo con cui l’autore diviene vittima visibile, demiurgo insoddisfatto e incapace di cambiare il corso degli eventi”230 . 223 Taffon, cit., p. 260. 224
Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, vol. XI,
Sperimentalismo e tradizione del nuovo, parte 1, Indici, Federico Motta Editore, Milano, 1999.
225 Ivi, p. 781. 226 Brolli, cit.p. 366. 227 Ibidem. 228 Ibidem 229 Ibidem 230 Ibidem
67 Infine, nell’attenta analisi di questa raccolta che fornisce Bonino, viene presa in esame “l’incapacità al confronto con l’esistenza ed il conseguente ripiegarsi in una dolorosa inerzia”231
. Il protagonista, il consueto giornalista visto nei tre ruoli di scrittore, consorte e amante, è descritto come l’antieroe per eccellenza, impegnato in quotidiane e banali dinamiche domestiche e impossessato dalle solite paure, che gli fanno ripetere gli stessi errori di sempre; le vicende sono ripetute in una successione tanto ossessiva da non sembrare più neppure reali, e tanto da incutere nel personaggio una stanchezza ed una passività estrema, esasperato com’è dalla diversità tra la sua immagine ideale e quella effettiva. Tutto ciò ha inevitabili conseguenze anche sul linguaggio, cosicché la narrazione appare articolata secondo un’afasia mentale e verbale. Tale giudizio critico parte però da un presupposto: la spaccatura tra i primi sei racconti e l’ultimo, quello che da il titolo alla raccolta; infatti quest’ultimo apre il personaggio ad una dimensione nuova, con la scoperta di un’esistenza al di fuori di se stesso: la figlia, unico motivo che richiama l’individuo al contatto con la realtà.
Dunque, a lettura conclusa, effettivamente non rimane che chiedersi se del Buono operi una svolta nella sua futura produzione letteraria, oppure se decida di proseguire in questa sua personale ma esasperata indagine dell’io e della scrittura.
231 Bonino, cit., p. XXIV.
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