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La vita sola293, pubblicato nel 1989, costituisce l’ultimo romanzo di

Del Buono. La narrazione, in prima persona, è suddivisa in numerose sezioni, circa un centinaio, non numerate ma contraddistinte ognuna da un titolo, evidenziato in stampatello maiuscolo, ciascuna di differente lunghezza e separate le une dalle altre da uno spazio bianco.

Inizialmente il lettore rimane stupito dalle prime pagine del libro, poiché ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una vera e propria svolta nella narrativa dell’autore: non si ritrovano accenni alla storia personale, che lo scrittore ha da sempre inserito nei suoi romanzi come parte integrante della sua narrativa, bensì riflessioni, appunti sparsi e non collegati tra loro, inerenti a vari aspetti della realtà cittadina, vista dall’occhio del protagonista mentre vaga per le strade e le piazze della Milano del tempo; talvolta è a piedi, talaltra in bus, in tram, in metropolitana o ancora in taxi, ma sempre da solo, preso dalle sue occupazioni quotidiane e assorto nei suoi pensieri.

Infatti, Del Buono risiede a Milano ormai da trentacinque anni e conosce benissimo tanto la città quanto i suoi abitanti, anche se gli altri percepiscono sempre dal suo modo di parlare che non è un milanese d’origine.

La vista, però, non è il solo senso adottato per descrivere la città, anzi, spesso sono presentate delle persone non vedenti, come se la cecità non le privi affatto della possibilità di assaporare la vita cittadina;

94 molta importanza assume l’olfatto, un misto di odori ed profumi che caratterizzano le varie situazioni, sino a sostenere che si tratta di “Una questione di naso. La vita è fetente”294

e sino ad approntare una classificazione degli uomini a seconda della puzza: “Le donne sanno di pianta, terra bagnata e naftalina. Gli uomini sanno di spezzatino, copertone e olio industriale fritto. I bambini come i vecchi sanno soprattutto d’orina ma anche di acetone o di zolfo, insomma di un sacco di porcherie”, con la quale prova poi a riconoscere, ad occhi chiusi, le persone che via via salgono sull’autobus. Altro senso importante è l’udito, che però gli procura qualche fastidio, tanto da recarsi a fare accertamenti medici, che poi risulteranno infondati, dall’otorino.

Inoltre, vi sono moltissimi riferimenti allo sfondo culturale del tempo, in relazione ai vari ambiti della musica (ad esempio vengono nominati i cantanti Gianna Nannini e Gino Paoli, rispettivamente l’una apprezzata dai più giovani e l’altro dai più maturi), dello spettacolo, della letteratura (non solo quella tradizionale, ma anche il fumetto, tra cui il celebre Topolino) e della televisione (si cita anche la trasmissione Tutto il calcio minuto per minuto dei famosi cronisti Ciotti e Ameri). Numerosi sono anche i richiami alla vita quotidiana di quegli anni, come il riferimento agli elettrodomestici piuttosto che alla Sip e alle Poste, con siparietti comici durante i quali vengono messi in luce problemi di linea, che portano continuamente il protagonista a ricevere telefonate in realtà non dirette a lui, tanto che alla fine egli si diverte a giocare con chi lo chiama; addirittura, una volta, per testare, invece, l’efficienza e velocità delle comunicazioni, si scrive una

95 lettera da solo, tuttavia dopo una decina di giorni non l’ha ancora ricevuta e, nel frattempo, si è pure dimenticato ciò che si era scritto!

Giunti a metà della lettura, ci si accorge che le sezioni diventano sempre più ampie e, soprattutto, non trattano più della città, piuttosto si concentrano sulla sua vita privata, la quale dunque è presente anche in quest’ultimo libro, potenziata proprio dalla posizione centrale che assume la narrazione di questi eventi personali.

Però, in realtà, l’autore tratta una argomento non ancora affrontato in precedenza: il suo trasferimento, nel 1975, dalla casa di corso Concordia, nella quale ha vissuto per anni con la moglie e con la figlia, all’appartamento di via Maggiolini, una specie di studio nel quale decide di vivere questo periodo della sua vita. Curioso è il fatto che i due coniugi non sono ne separati ne divorziati ma vivono comunque in due dimore differenti e, paradossalmente, i loro rapporti sembrano migliorati rispetto a quando convivevano quotidianamente in maniera forzata, anche se i due appartamenti sono comunque molto vicini tra loro. Come spiegazione al suo trasferimento, oltre ai litigi con la moglie, Del Buono ricorda anche l’ambiente inospitale della sua vecchia camera, dalla quale si sentivano i rumori provenienti dalle scale vicine e gli odori sgradevoli del vecchio palazzo. Inoltre, bisogna considerare anche la sua proverbiale insonnia, con la quale rischiava, suo malgrado, di disturbare la consorte. Dunque, egli rivela che “l’ho presa, questa decisione, per amore. E anche un poco per questioni ambientali”295

.

295 Ivi, p. 50.

96 Per introdurre questo episodio della sua vita, il narratore è costretto a rispolverare i suoi vaghi ed incerti ricordi, dal momento che non ha mai messo per iscritto questa sua decisione. Così si leggono queste riflessioni in merito: “Dal momento che sono arrivato a fabbricarmi una storiella, a quella mi attengo […] se ho da ricordare un episodio già scritto, posso perdere anche una giornata o una nottata o più per rintracciare la pagina in cui è apparso stampato o il foglio in cui è annotato, e ricopio me stesso con la maggiore diligenza”296

. Poi, prosegue precisando che “Però, di quando e come abbia preso la decisione di uscire dalla casa vecchia non ho mai scritto e […] se affronto l’argomento, procedo abbastanza allo sbaraglio”297.

Quest’inedito episodio della sua vita privata, costituisce il pretesto per richiamarne alla memoria un altro, già conosciuto da parte del lettore, appartenente alla sua storia famigliare: Oreste decide di allontanarsi fisicamente dalla moglie per non finire a litigare ogni giorno, così come era accaduto ai suoi genitori. Ecco, dunque, l’ennesimo richiamo al dialogo concitato tra la madre e il padre, che ricordano la loro storia, sin da quando si sono conosciuti, colloquio già apparso in I

peggiori anni della nostra vita298.

Pertanto, segue il racconto della malattia e della morte della madre, che negli ultimi attimi di vita finisce per scambiare il figlio Oreste per il fratello deceduto Teseo; a tal proposito, il padre lo rassicura sostenendo che ciò è dovuto solamente al fatto che “Neppure in punto di morte, lei vuol saperne di un Del Buono. Lei, dei Del Buono, non

296 Ivi, p. 48.

297 Ivi, pp. 48-49.

97 vuole più saperne. Noi Del Buono non siamo degni…”299

. Successivamente, dopo la digressione sul letto Coppedè, reliquia e simbolo della famiglia, si passa all’analisi del rapporto con il padre negli ultimi anni della sua vita, durante i quali egli si sente solo, perché, nonostante le continue discussioni, la moglie gli faceva compagnia, ma non intende abbandonare l’isola per andare ad abitare col figlio, preferendo rimanere nella sua casa col cane Von Zuck, tanto odiato da Oreste. In questo frangente si inserisce il discorso sul suo lavoro: “A lei non andava che tu avessi finito per fare il giornalista. La trovava un’occupazione poco seria…”300

, seguita dall’ormai famosa frase “Aveva senz’altro ragione lei […] Non sono riuscito in nulla di quanto desideravo”, anche se non ricorda che cosa fosse, perché è trascorso troppo tempo da allora.

In realtà, accenni sul suo mestiere sono sparsi qua e là tra le righe; molti sono i richiami ai rimproveri della moglie, che lo accusa di passare troppo tempo al lavoro trascurando la vita privata, tanti sono i riferimenti alla sua instancabile smania di leggere e scrivere, anche di notte, approfittando della sua peculiare insonnia, infine, talvolta si nomina la sua attività di recensore, oppure quella di giornalista e, infine, di scrittore; ad esempio, in una delle ultime pagine egli ammette che “a tenermi in vita sono esclusivamente i troppi impegni di lavoro, il mio essere debitore di infimi pezzi e pezzetti quasi a tutti gli editori”301, frase che richiama anche la sua proverbiale facilità di dare le dimissioni e di cambiare editore.

299 OdB, La vita sola cit.

300 Ivi, p. 87. 301 Ivi, p. 134.

98 Quindi, si arriva al racconto della morte del padre, notizia comunicatagli di notte per telefono, allo squillo del quale egli spera che non si tratti proprio di questo doloroso accadimento; tuttavia, “se l’illusione è una malattia giovanile, la disillusione è senz’altro una malattia senile […] L’incapacità di lottare ulteriormente contro l’avvento della realtà. L’incapacità di credere in concessioni e agevolazioni del destino”302

.

Da questo punto in poi, la narrazione torna al presente e si concentra di nuovo sulla descrizione della vita quotidiana, come sottolineato dal titolo di una delle sezioni del testo: “TUTTO CONTINUA”303

. Nello specifico, Oreste è alle prese con l’ennesima telefonata, particolarmente divertente poiché mittente e destinatario sembrano condurre un dialogo dell’assurdo, non riuscendo a capirsi l’un l’altro; l’argomento della conversazione è il matrimonio della figlia, evento di cui il padre era ancora all’oscuro prima di parlare con questa persona, che alla fine si scopre essere un organizzatore di matrimoni. Ecco dunque l’immancabile discussione con la moglie, che termina però con il riso di entrambi, comunque felici per il lieto evento.

Da qui in poi protagonista è di nuovo la città, con i suoi scenari ed i suoi personaggi, vecchi, bambini, barboni, zingari ecc. Progressivamente si fa strada tra questi pezzi la riflessione sulla sua vecchiaia, in relazione alle difficoltà motorie, al calo della vista ecc.

Tuttavia, se si cerca di rintracciare un filo conduttore di questa sorta di raccolta, si nota che l’intero libro è percorso da alcune riflessioni sulla

302 Ivi, pp. 89-90.

99 lettura, sulla propria curiosità e sul proprio coinvolgimento anche verso la lettura altrui, e sui propri libri; all’inizio l’autore afferma “ne ho persino troppi, di libri da leggere, a casa, per il poco tempo che mi resta”304, mentre alla fine rivela “I libri sono importanti nella mia vita

ma, con gli anni, sono diventati anche sempre più ingombranti”305; si tratta di volumi comprati o ricevuti, a causa della sua attività di recensore. Del Buono definisce questi libri come “Mucchi di pagine, polvere e pensieri che mi assediano, minacciando di soffocarmi”306

, tuttavia, quando cerca di liberarsene cambiando appartamento, confida che “A ogni ora possibile e impossibile del giorno e della notte rientro furtivamente nell’altro appartamento per giudicare quali libri siano da prendere”307

e che è “difficile buttar via impunentemente un libro, anche il più sciocco e vergognoso. Lo tasto e mi par di avvertire sotto la copertina il pulsare dell’ambizione, della fatica, dell’illusione, il diritto di sopravvivere”308

. Dunque, i libri sono visti come entità proprie, quasi come esseri viventi.

Avvicinandosi alla conclusione, l’autore parla dell’etichetta di tuttologo che molti, negli ultimi anni, gli hanno attribuito, per la gran varietà dei suoi interessi, tra i quali spicca il più recente, quello per la televisione; “Personalmente, non avrei mai pensato di diventar tuttologo. A parte il cinema […] mi sono sempre occupato di cose futili, il fumetto, il fotoromanzo, il giallo, il rosa, il nero, la fantascienza, per forza avrei dovuto finire per occuparmi di

304 Ivi, p. 10. 305 Ivi, p. 109. 306 Ibidem. 307 Ibidem. 308 Ivi, p. 110.

100 televisione, roba che non veniva presa sul serio da nessuno”309. Ciò che appare rilevante, è l’alta considerazione, nonostante le sue parole apparentemente lo neghino, delle varie branche della cultura, come se non esistesse tra loro una gerarchia ma, anzi, una compartecipazione e reciproca influenza. Tale pensiero, porta all’innalzamento anche dell’ambito televisivo, poiché per Del Buono è fondamentale il modo in cui si affrontano le varie attività, non le cose in se stesse; infatti, successivamente precisa: “per occuparsi di cose futili, bisogna essere un poco maniaci, coltivarne la coscienza seriamente. Il trattamento futile di una cosa futile è un non senso”310

.

Curioso appare infine lo scorcio del libro, tutto focalizzato sul senso dell’olfatto, già più volte citato in precedenza; innanzitutto, viene illustrato quello che lui definisce il suo super olfatto, a causa del quale si autoconvince di essere quasi più simile ad un cane che ad un essere umano; secondariamente, si ricorda un episodio dell’infanzia che, verosimilmente, costituisce il motivo scatenante del suo strano sentimento nei confronti dei cani, un misto di gelosia e odio. Un giorno, da bambino, Oreste si trovava a caccia con il padre e, mentre lui non riusciva ad uccidere un uccellino che era sopravvissuto allo sparo del fucile, con disapprovazione del genitore, completava invece l’impresa proprio il cane di allora, Full. A questa scena, ne segue una altrettanto bizzarra, che rovescia la sua identificazione con l’animale, manifestando tutta la sua attrazione per la cagnetta di un amico, Fata, che viene descritta invece come se fosse una persona: “Da un pezzo

309 Ivi, p. 119.

101 non incontravo una persona di simile fascino”311

. Dunque, la sua identità di uomo viene abbassata a quella dell’animale e viceversa, a tal punto che le ultime pagine registrano considerazioni in merito ai sintomi della depressione nei cani. Un finale inusuale insomma e, naturalmente, aperto.

Queste mie annotazioni in merito all’opera, sono integrate dalla lettura di un articolo312 di Lorenzo Mondo apparso poco dopo la pubblicazione del libro. Per prima cosa, il giornalista mette in relazione il titolo, La vita sola, con quello della rubrica tenuta da Del Buono sul Corriere della Sera, La talpa di città, sostenendo che si tratta di “un titolo che allude alla solitudine di chi racconta ma anche a una nudità, a una assenza comunitaria e magari ontologica”313. Anch’egli ritiene le pagine iniziali come vicende minime, essenziali, che “creano soltanto il clima necessario a farci scivolare tra orrore e humor […] nel cuore del libro. Qui l’autore esibisce in presa diretta le storie della sua famiglia che abbiamo imparato a conoscere a partire almeno da I Peggiori anni della nostra vita”314. Dunque, si ribadisce la concentrazione sul privato, tralasciando gli avvenimenti pubblici, storici, del tempo. Per quanto riguarda il genere letterario, egli sostiene che “Viene fuori così, a poco a poco, la struttura possibile del romanzo. Dove la solitudine milanese è come l’esplosione […] di un trauma personale, di qualcosa che è accaduto nella famiglia d’origine”315

; cioè, proprio quell’episodio di caccia, apparentemente

311 Ivi, p. 135.

312 L. Mondo, Del Buono, una talpa che scava tra gli affetti famigliari, Tuttolibri, «La Stampa»,

24 giugno 1989, p. 2.

313 Ibidem. 314 Ibidem. 315 Ibidem.

102 senza importanza ma che costituisce in realtà la causa dei suoi problemi psicologici. Infine, per quanto concerne la scrittura, egli afferma che “In questa zona parentale del libro abbiamo una delle prose migliori che si possano leggere oggi da noi, conversevole e sciolta, mai andante, senza fronzoli ma neanche sbavature, moderna”. Pertanto, si finisce per descrivere l’opera come una specie di trattato scritto dall’autore in vecchiaia, caratterizzato però né da saggezza né da consolazione, ma solo da un sentimento di pietà, nei confronti del mondo e degli individui, sia morti che viventi.

Infine, per citare il solo giudizio critico più recente che appare in merito all’ultimo lavoro dello scrittore, Vanagolli316

sostiene che “soprattutto qui, Del Buono, nello scorcio finale della sua produzione narrativa […] recita la sua ennesima professione di fede nella letteratura, nella quale ha sempre profondamente creduto, anche quando ha fatto finta di non crederci”.

Tant’è vero che, proprio in quest’ultimo libro, egli ribadisce, pur negando ciò con ogni mezzo (ad esempio la posticipazione del messaggio portante, che si carpisce solo nel cuore del libro, l’apparente leggerezza e casualità della scrittura, la negazione della struttura romanzesca), i tratti peculiari della propria produzione narrativa: l’autoreferenzialità, il tema metanarrativo, condotto sul duplice binario del commento al proprio modo di scrivere e dell’amore per i libri in generale, la passione per il proprio mestiere, la curiosità e l’interesse verso i vari e differenti aspetti della cultura del suo tempo, il legame profondo e inscindibile tra il suo vissuto e ciò

316 Vanagolli, cit., p. 232.

103 che va di volta in volta narrando, la sensazione costante di perdersi nel labirinto, quello esistenziale ma anche letterario.

In conclusione, vivendo passo dopo passo il dispiegarsi progressivo della produzione romanzesca di Del Buono, si ha l’impressione che l’autore, proprio quando appare sull’orlo di quel labirinto, all’interno del quale sembra non trovare una via d’uscita, in realtà sappia dominare, organizzare e plasmare la sua materia, quale indagine personale della propria storia famigliare e del proprio tempo, che tuttavia riflette le costanti del pensiero collettivo e della sua evoluzione negli anni. Evidente risulta, tra l’altro, la maturità della scrittura, una sorta di monologo interiore, di flusso di coscienza che segue libere associazioni mentali, sollecitate dal percorso nell’itinerario cittadino da parte dell’io narrante, che si sovrappongono come dei flash, di ricordi passati e di esperienze presenti; proprio questa particolare tecnica narrativa rende più gradevole la lettura, snellisce questo grande accumulo di fatti, in parte conosciuti e in parte nuovi per il lettore, e ciò costituisce un tratto distintivo di quest’opera nei confronti delle precedenti, talvolta più difficoltose nella lettura e comprensione del testo, nel quale il lettore rischiava spesso di perdersi nel labirinto, proprio come l’autore stesso.

104

Conclusioni:

vita e letteratura in OdB

A conclusione della ricostruzione di un completo profilo biografico di Oreste del Buono e di un’attenta lettura critica dei suoi romanzi, sorgono alcuni interrogativi e appaiono evidenti alcune questioni, che intendiamo qui di seguito illustrare e sviluppare.

Innanzitutto, viene da chiedersi il motivo dell’esiguità, entro i dizionari biografici, le enciclopedie e le raccolte dei ritratti degli scrittori italiani, di notizie su del Buono, pur essendo una personalità di spessore, caratterizzata per tutto il corso della sua vita da una profonda passione per la cultura e dalla poliedricità dei suoi interessi. Probabilmente una risposta plausibile a questo interrogativo potrebbe essere quella fornita da Sergio Antonielli che, accingendosi a stendere un resoconto della vita e delle opere del nostro autore, dapprima nel 1977 e poi nel 1980, dunque quando del Buono era ancora in vita, lamentava già questa scarsezza di informazioni. Il critico attribuiva ciò a un determinato taglio stilistico dell’autore, cioè “la scelta di un autobiografismo mirante a risolvere in letteratura i casi della vita”317

. Tuttavia, del Buono nelle sue opere afferma, di persona o tramite la voce dei suoi personaggi, che scrivere non ha senso, che esistono dei dubbi riguardo alla letteratura (a questo argomento dedica addirittura un intero libro, Né vivere né morire del 1963), ma proprio per questo motivo egli non smette di insistere nel suo percorso e ricerca nelle

317 Antonielli, cit.

105 pagine scritte quelle soluzioni che la vita non può fornire. Tant’è vero che lo scrittore dedicherà gran parte del suo tempo e dei suoi romanzi all’insistenza e alla concentrazione su un determinato punto, e questa continuità costituisce proprio il tratto distintivo e peculiare della sua arte. Infatti, i suoi testi sono caratterizzati dalla ripetizione di scene, di frasi, persino di capitoli interi e si tratta di un gioco evidente, ostentato, che non può non essere avvertito dal lettore. Nonostante tutto, vita e letteratura non combaciano perfettamente: i personaggi, soprattutto i protagonisti, quasi tutti in prima persona, assomigliano molto al loro autore, ma non costituiscono un tutt’uno con lui, non ne rappresentano l’alter ego.

Tutto questo spiega la costante ripetizione nei numerosi romanzi degli stessi temi principali, ad esempio la prigionia, il matrimonio, la malattia, il lavoro, nella duplice dimensione di giornalista e scrittore, e delle ripercussioni di queste vicende nella coscienza dell’uomo che le vive.

Se da un lato questa tecnica narrativa può richiamare il modello di Italo Svevo, per la sottile analisi introspettiva che mette in luce i