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133 deboli Attraverso questo paradossale capovolgimento, viene congelato il

Nel documento Il pensiero anarchico (pagine 133-137)

nucleo infiammabile di tutte le promesse di emancipazione al centro delle ‘grandi narrazioni’: anziché promettere agli ultimi di diventare i primi attraverso il superamento della gerarchia, il vittimismo consente ai primi di conservare la loro posizione di potere assumendo i panni degli ultimi. A questo camuffamento opportunistico si deve la deriva vittimaria10

, che rappresenta il principale bersaglio polemico del libro di Daniele Giglioli,

Critica della vittima: «l’ideologia vittimaria è oggi il primo travestimento

delle ragioni dei forti […]. La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualunque potere»11

. Nella cultura vittimaria il richiamo alla condizione di vittima smarrisce la sua funzione critica per diventare un dispositivo, indiretto ma efficace, di legittimazione del potere.

Quando sulla debolezza vittimaria si erige il diritto del più forte, que- st’ultimo può sottrarsi a ogni responsabilità perché è in nome della difesa dei più deboli che ha conquistato una posizione di potere e, pur di difen- derla, può ricorrere alla forza. Ne è un esempio il cosiddetto ‘vittimismo di Stato’, che in nome di una o più vittime avvia una guerra di aggressione ‘per potersi difendere’ da ulteriori attacchi; da questo punto di vista, prima ancora che venisse pubblicamente teorizzata e annunciata all’indomani dell’undici settembre, la guerra preventiva contro l’incarnazione del male rientra fra le principali dinamiche implicite nella violenza internazionale12

. Come aveva lucidamente colto Elias Canetti in Massa e potere:

i despoti che vogliono suscitare una guerra sanno molto bene che è loro indispensabile procurarsi o inventare un primo morto. L’importanza che il primo morto aveva nel suo gruppo non è determinante. […] Ciò che importa è la sua morte, null’altro; bisogna credere che il nemico ne sia responsabile. Tutte le ragioni che possono aver condotto all’uccisione sono messe da canto dinanzi alla constatazione che è stato ucciso un membro del gruppo cui si appartiene13.

L’esempio appena riportato dimostra che il vittimismo dei potenti non è una novità dei giorni nostri; «nuovo e sinistro è però che una condizione negativa sia divenuta la principale fonte di legittimità dell’azione posi-

10 Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/vittimario/: «vittimàrio s. m. [dal lat. victimarius]. – In

Roma antica, l’addetto al sacrificio che aveva il compito di condurre la vittima all’ara e ucciderla, estraendone quindi le viscere; anche, l’allevatore e mercante di animali adatti a essere sacrificati come vittime».

11 D. Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo, Roma 2014, p. 9. 12 Cfr. http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=18453. 13 E. Canetti, Massa e potere (1960), Adelphi, Milano 2006, p. 167.

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tiva»14

. Una volta tramontate le grandi promesse emancipative del passato da cui è stata tratta, l’immunità critica della vittima si è trasformata in

instrumentum regni e, di riflesso, tale trasformazione ha consentito di ca-

nalizzare – depotenziandola – l’ira giusta delle vittime reali in direzione di una richiesta di riconoscimento pubblico del loro status, anziché di un tentativo di emancipazione dalla loro condizione di subalternità. Se «il dispositivo vittimario è il vaccino con cui i potenti reagiscono alla dis- sacrante esclamazione del bambino alla fiaba di Andersen»15

– o, quanto meno, tentano di prevenire la constatazione della loro nudità – a sua volta il vittimismo può fungere da meccanismo compensatorio per le vittime reali: se dichiararsi vittima conferisce potere, parte del potere di cui sono prive le vittime reali può essere attinto rivendicando tale status sulla scena pubblica, anziché pretendendo che vengano eliminate le relazioni asimmetriche di potere che lo hanno generato16

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Il vittimismo segna dunque una cesura rispetto al paradigma eroico della modernità, che raffigurava un soggetto intento a trasformare se stesso tra- sformando il mondo. La dialettica hegeliana tra servo e padrone smarrisce la sua carica sovversiva, che prefigurava l’emancipazione del primo grazie alla sua alienazione oggettiva nel lavoro. A questo sovvertimento è suben- trata l’ansia del riconoscimento identitario: il servo non aspira più a porre fine alla propria condizione di subalternità, ma desidera che gli sia pubbli- camente riconosciuto il ruolo di subordinato, al punto che, spesso, le pre- sunte vittime dell’ingiustizia entrano in concorrenza per contendersi un ‘primato vittimario’, quasi partecipassero a una sorta di ‘aristocrazia del dolore’ o di ‘meritocrazia della sfortuna’. Prima ancora di testimoniare una svolta politica, il ripiegamento identitario impresso alle istanze emancipa- tive sollevate dalla critica sarebbe uno dei segni più tangibili e perversi del vittimismo contemporaneo17

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Mettere in discussione il paradigma vittimario che imputa ai più deboli di una relazione di potere un certo grado di responsabilità nei confronti della propria liberazione rischia di aggiungere un insulto verbale alle ferite materiali e simboliche da loro ricevute nella vita quotidiana. Una com- plicità benintenzionata nasce però tra le righe di questa postura teorica. Non

14 D. Giglioli, Stato di minorità, cit., p. 44. 15 Ibidem, p. 45.

16 Un atteggiamento, questo, che nel linguaggio filosofico può essere accostato alla nozione di servitù

volontaria coniata nel XVI secolo da Étienne de la Boétie, cfr. É. de La Boétie, Discorso sulla servitù

volontaria, Feltrinelli, Milano 2014.

17 Cfr. N. Fraser, Giustizia sociale nell’era della politica dell’identità: redistribuzione, riconoscimento

e partecipazione, in N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, Meltemi, Roma 2007, pp. 15-133.

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ponendo mai in discussione la condizione passiva che il termine ‘vittima’ ascrive ai subordinati, il paradigma vittimario rischia di assecondare una duplice deriva: da una parte, sottovaluta il ruolo di attori morali che i subordinati potrebbero interpretare, se solo lo status di vittima venisse disgiunto da una condizione di inevitabile impotenza e fosse riferito a una condizione di dominio sociale, oltre che a un torto soggettivamente esperito come tale; d’altra parte, si sopravvaluta quello di chi assiste al dolore degli altri, come se la sofferenza di costoro non potesse conoscere tregua o rivincita, senza l’intervento di un eroico soccorritore o, addirittura, la con- versione dei responsabili dell’ingiustizia.

A proposito di questi ultimi, infine, il vittimismo non complica solo la loro individuazione – se tutti sono vittime di certe condizioni, nessuno ne è responsabile – ma ne confonde i diversi gradi di responsabilità. La luce riflessa da questo gioco multiplo di specchi restituisce un esito paradossale: estendendo a chiunque il diritto di essere ascoltato per il solo fatto di aver rivendicato tale status, il vittimismo rischia di ridurre al silenzio le vittime reali. L’‘isegoria’ – l’eguale diritto di parola vigente nell’antica democrazia ateniese – estesa a tutte le presunte vittime dell’ingiustizia priva le vittime reali del diritto di essere pubblicamente ascoltate.

Decostruire l’immunità critica associata a tale status non significa ripro- porre il classico ‘dilemma della vittima’, secondo cui riconoscere un certo grado di autonomia ai subalterni li renderebbe artefici della loro subor- dinazione, mentre il riconoscimento del ruolo di vittime ricoperto da alcuni attori li priverebbe del potere di emanciparsi. Sottoporre a critica uno status finora immunizzato da ogni problematizzazione significa piuttosto sondare la possibilità di coniugare l’innocenza di soggetti, sottoposti (loro mal- grado) a relazioni asimmetriche di potere, con la loro capacità di eman- ciparsi insieme a quanti condividono analoghe condizioni di dominio.

Se chi parla in nome delle vittime dell’ingiustizia può contribuire – in buona o in cattiva fede – a stigmatizzarle ulteriormente, non è inverosimile ipotizzare che un testo che sottopone a critica una condizione ritenuta inattaccabile possa dischiudere una prospettiva di emancipazione, anziché di autocommiserazione per le vittime reali e di ipocrita legittimazione per i responsabili delle ingiustizie: «la critica è il servizio che la ragione offre alla pietà, se s’intende quest’ultima come pietas, sollecitudine per le sorti comuni. La mitologia della vittima toglie forza ai più deboli, e la accumula nelle mani sbagliate. Criticarla significa redistribuire le carte»18

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Enrico Garzenna

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