Non c’è pensiero se non quello che si sforza di rendere produttivo il negativo1.
Nel testo che meglio sintetizza il suo programma di ricerca, Il dominio e
l’arte della resistenza, James Scott ha introdotto il concetto di ‘verbale
pubblico del dominio’ per designare i discorsi, i gesti e le pratiche che scandiscono l’interazione palese fra dominanti e subordinati, di contro al cosiddetto ‘verbale segreto’ che si svolge ‘dietro le quinte’ di tale rela- zione2
. Tale distinzione consente di fare luce sulle pratiche ‘oscene’ di or- dinaria resistenza adottate dai subalterni quando il loro raggio d’azione fuoriesce dal campo d’osservazione dei superiori, come sui rari colpi di scena che trasformano il verbale pubblico del dominio3
.
Rientra fra questi la trasgressione di alcuni tabù linguistici, come testimoniano le recenti rivendicazioni dello status di vittime sulla scena pubblica delle democrazie occidentali4
. D’altra parte, la fortuna di cui oggi
∗ Contro la presunzione d’impotenza. Il presente contributo è stato rielaborato a partire dai commenti
ricevuti a seguito della presentazione di un omonimo intervento tenuto il 30 marzo 2015 al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Milano, in occasione del seminario Il vittimismo come paradigma politico: etica, retorica o ideologia?. Ringrazio tutti i partecipanti del seminario, che con le loro osservazioni hanno sollecitato alcune modifiche al testo.
1 D. Giglioli, Stato di minorità, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 83.
2 J.C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza. I ‘verbali segreti’ dietro la storia ufficiale (1990),
Elèuthera, Milano 2006, p. 31: «il termine pubblico si riferisce qui a un’azione apertamente indirizzata all’altra parte nella relazione di potere, e verbale è usato quasi nel suo senso giuridico (procès verbal, processo verbale) di registrazione completa di quanto viene detto. Tale registrazione completa, tuttavia, include anche le azioni non verbali, come i gesti e la mimica».
3 L’aggettivo ‘osceno’ è qui utilizzato in un’accezione diversa da quella più comune di ‘indecente’, in
quanto si riferisce a pratiche sociali che si svolgono al di fuori della scena osservabile dai soggetti contro cui sono messe in atto.
4 Quanto più diffuse e sistematiche diventano tali trasgressioni, tanto più rapido sarà il cambio di
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gode tale nozione non è il sintomo di una maggiore attenzione istituzionale nei confronti delle vittime dell’ingiustizia. Il superamento del divieto di pronuncia in pubblico pendente sul termine ‘vittima’ è stato controbilan- ciato da una perversione del suo significato.
Originariamente vittima era un «essere vivente, animale o uomo, consa- crato e immolato alla divinità»5
. Una volta tramontato l’orizzonte religioso che legittimava il sacrificio di un essere vivente a beneficio degli dei, tale status ha iniziato a chiamare inevitabilmente in causa le responsabilità di chi sopravvive alla morte o sottomette la vita altrui. Dichiararsi pubblica- mente vittime di un’ingiustizia è sempre stato percepito dalla controparte come un annuncio del conflitto sociale che sarebbe seguito, dal momento che il riconoscimento pubblico di tale status chiama in causa i responsabili storici di certe forme di dominio.
Ad esempio, le giustificazioni avanzate a sostegno della tratta degli schiavi e del dominio coloniale hanno sempre evitato di associare lo status di vittime ai subalterni, considerati responsabili della loro condizione di schiavitù (salvo poi rifiutare loro ogni responsabilità non appena si concre- tizzò la possibilità di una loro auto-emancipazione): «in questa fantastica inversione della realtà, le carneficine perpetrate dagli Europei vengono attribuite al disprezzo degli uccisi per la propria vita»6
. Le strategie difensive oggi adottate dai responsabili di certe forme di oppressione hanno mutato registro: lungi dal bandirne l’uso, il termine ‘vittima’ è stato riabilitato nel verbale pubblico del dominio a uso e consumo di quanti oc- cupano posizioni di potere privilegiate. Anziché venire legittimate attra- verso un processo ideologico che naturalizza l’inferiorità dei subalterni o la superiorità dei dominanti, certe forme di oppressione vengono pubblica- mente giustificate facendo sistematicamente ricorso a una delle più classiche strategie di ipocrisia politica, consistente nell’assumere le sem-
vigenti in un verbale pubblico dipende dalla libertà di parola formalmente riconosciuta ai subordinati: da ciò dipende il nesso fra democrazia e la velocità delle trasformazioni che interessano il verbale pub- blico del dominio.
5 http://www.treccani.it/vocabolario/vittima/.
6 G. Chamayou, Le cacce all’uomo, manifestolibri, Roma 2010, pp. 58-59. Solo di rado la respon-
sabilizzazione dei subalterni è stata adottata da chi intendeva dischiudere nuovi orizzonti di eman- cipazione: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ad esempio, Etienne de la Boétie intendeva re- stituire ai sudditi di un potere dispotico la possibilità di liberarsene. Anziché argomentare a favore della schiavitù alla luce del (presunto) ingresso volontario in questo stato da parte delle prede, La Boétie osò sondare la possibilità di una fuoriuscita volontaria da esso, dal momento che non era mediato dalla coercizione ma dal consenso delle prede stesse: «il fatto che gli schiavi vengano riconosciuti come attori della loro liberazione, nel senso che questo obiettivo gli appartiene, non presuppone averli resi responsabili della loro oppressione, nel senso che l’avrebbero voluta. L’idea secondo la quale bisognerebbe imputare agli oppressi la responsabilità storica del loro asservimento, onde restituire loro l’obiettivo della propria emancipazione non è un sofisma», ibidem, pp. 54-55.
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bianze delle vittime reali per dissimulare le proprie responsabilità. È il caso della favola di Fedro, in cui il lupo si traveste da agnello dopo aver fatto indossare a quest’ultimo (e a suo padre) le vesti del predatore.
Benché non si tratti di una strategia del tutto originale, questo trave- stimento ha oggi assunto dimensioni inedite, al punto da trasformare il vitti- mismo in uno dei principali dispositivi di legittimazione del potere. Questa forma di ipocrisia politica non si limita solo a presentare i responsabili di certe forme di ingiustizia sotto le false spoglie delle vittime, ma finisce per incolpare le vittime reali della loro condizione di subalternità. Al fine di disinnescare questo duplice processo, una teoria negativa della giustizia si propone di fornire dei criteri utili a distinguere fra reali e presunte vittime dell’ingiustizia, senza tuttavia ricorrere a principi o criteri idealistici per differenziare le une dalle altre: il punto di partenza è piuttosto fornito da una fenomenologia critica del dominio incentrata sulle ipocrite giustifi- cazioni avanzate a sostegno della asimmetrie di potere esistenti. Pur par- tendo dal senso di ingiustizia delle (presunte) vittime, una teoria negativa della giustizia evita il rischio della deriva vittimaria restituendo ai subor- dinati di asimmetrie di potere la possibilità di diventare gli attori della pro- pria emancipazione.