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Teorie idealistiche vs teorie negative della giustizia

Nel documento Il pensiero anarchico (pagine 139-141)

Nella Premessa al corso dedicato alla teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Norberto Bobbio scriveva che, «se una ragione d’essere ha un corso di filosofia politica, distinto da quelli di storia delle dottrine politiche e di scienza della politica, questa è lo studio e l’analisi dei cosiddetti temi ricorrenti»21. Tra le questioni più dibattute nel corso della storia del pensiero politico occidentale, la giustizia ha attratto un’attenzione tale da condizionare lo statuto epistemico della filosofia po- litica stessa:

il modo più tradizionale e più ricorrente d’intendere la filosofia politica è d’intenderla come descrizione, progettazione, teorizzazione dell’ottima repubblica, o, se si vuole, come la costruzione di un modello ideale di stato, fondato su alcuni postulati etici ultimi, di cui non ci si preoccupa se, quanto, come possa essere effettivamente e totalmente realizzato22.

21

N. Bobbio, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 1976, p. I.

22

N. Bobbio, «Dei possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica», in Id., Teoria generale

della politica, Einaudi, Torino 1999, p. 5. Accanto a questo filone interpretativo di stampo normativo

della filosofia politica, Bobbio citava altre tre modalità di indagine inerenti tale disciplina, concernenti la legittimazione dell’obbligo politico, la definizione dell’autonomia del politico e il discorso meta- scientifico sui presupposti stessi della materia. A.K. Sen conferma ulteriormente la tendenza propria della filosofia politica contemporanea a privilegiare la ricerca di principi che dovrebbero essere osser-

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Non a caso, le opere più illustri della tradizione filosofica dedicano par- ticolare rilievo a esempi evidenti di ingiustizia del loro tempo, come se sullo sfondo delle divergenti soluzioni teoriche prospettate in materia di giustizia emergesse un comune movente pre-teorico, stante il quale «il fine della politica è quello di eliminare l’ingiustizia»23. Gli autori che a vario titolo si sono cimentati nel tema in questione sembrano condividere una

definizione minimalistica della giustizia: giusta è quella società in cui sono

assenti le ingiustizie.

Quando si tratta di specificare il significato della nozione di ingiustizia, però, le teorie iniziano a divergere sostanzialmente e, nel contempo, anche e soprattutto a convergere formalmente su una concezione privativa dell’in-

giustizia: quest’ultima nozione coinciderebbe con la violazione pratica del-

le norme o dei principi ideali di giustizia prescritti da una certa teoria. Per mera comodità espositiva, le teorie che si ispirano a tale pretesa possono essere raggruppate entro il paradigma delle cosiddette teorie idealistiche della giustizia. L’aggettivo in questione segnala anzitutto la priorità ac- cordata a livello teorico alla definizione di una serie di prescrizioni, attuate le quali si sarà sradicata l’ingiustizia.

Sotteso a un simile modello si staglia una logica escludente, secondo cui la presenza della giustizia negherebbe alla radice la possibilità stessa del- l’ingiustizia. Malgrado nessuna teoria della giustizia ostenti indifferenza nei confronti del senso d’ingiustizia esperito dagli esseri umani che con-vivono in una stessa comunità politica, l’enfasi che scandisce tali diagnosi funge solitamente da premessa per traghettare l’attenzione del lettore in direzione dell’idea positiva di giustizia che a distanza di qualche pagina verrà dipanata. All’iniziale denuncia carica di pathos da parte del filosofo – cui fa da corredo l’intenzione di scardinare i moventi o le cause sociali e istituzionali dell’ingiustizia presente – subentra la pacata descrizione del modello di giustizia da somministrare come un valido rimedio alla co- munità politica di appartenenza. L’attenzione prestata a episodi o fenomeni diffusi di ingiustizia si configura, quindi, come una mossa concettuale propedeutica a ricondurre l’essenza di ogni ingiustizia all’insieme di quelle azioni od omissioni che contraddicono quanto, rispettivamente, proibito o prescritto dalle norme legali vigenti o dai principi avallati da una data teoria idealistica della giustizia. Come suggerisce Avishai Margalit nel suo The

Ethics of Memory, questa tendenza del pensiero politico occidentale sembra

vati in una società perfettamente giusta: «identificare i caratteri di istituzioni perfettamente giuste è di- ventato il terreno di ricerca principale delle moderne teorie della giustizia», A.K. Sen, L’idea di

giustizia, Mondadori, Milano 2010, p. 24.

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presupporre che sia «più economico concentrarsi su di un’idea positiva di giustizia, e guadagnare in questo modo unità coerente, piuttosto che fare assegnamento su aneddoti sparpagliati in merito all’ingiustizia»24.

A una simile concezione idealistica della giustizia si accompagnano im- plicazioni politiche di una certa rilevanza. Solo quelle azioni o relazioni sociali che palesano una certa distanza o che contraddicono la definizione positiva di giustizia possono essere propriamente classificate come ‘in- giuste’. Di conseguenza, non potrà essere tenuta in debito conto la voce di quanti lamenteranno di aver subito un’ingiustizia, se gli atti o le condizioni di cui sono vittime non contraddicono apertamente il modello normale di giustizia postulato nella corrispondente teoria. Da tali premesse consegue un’indebita sottovalutazione di quei conflitti sociali che nel corso della sto- ria aspirano a mettere in discussione il modello normale o istituzionale di giustizia e, quindi, la distinzione legalmente dominante tra istanze sociali legittime e rivendicazioni illegittime. A questo proposito, Axel Honneth ha notato come:

negli ultimi tre decenni la critica della società si è limitata essenzialmente a valutare l’ordine normativo delle società chiedendosi se esse si conformino a determinati principi di giustizia. Ma, nonostante tutti i successi della fondazione di questi standard e nonostante tutte le differenziazioni degli approcci adottati, essa ha perduto di vista il fatto che le società possono incorrere, sul piano normativo, in un fallimento diverso dalla violazione di principi di giustizia universalmente validi. Per questi deficit, ai quali si applica benissimo il concetto di “patologie sociali”, la critica della società manca non soltanto di attenzione teorica, ma anche di criteri plausibili25.

Nel documento Il pensiero anarchico (pagine 139-141)