Contrariamente a quanto suggerito dal titolo, Critica della vittima non è ispirato da un’irragionevole e pregiudiziale avversione contro le vittime dell’ingiustizia, ma dallo sconforto dovuto al sentimentalismo contempora- neo; una forma di pathos che sgancia sistematicamente il sentire dei soggetti dall’agire. È alle ‘vittime che non vogliono più essere tali’, infatti, che è dedicato questo agile pamphlet. Per poter essere coerentemente as- secondata, questa dedica richiede una critica radicale della cultura vittimi- stica che ha fornito a chiunque un lasciapassare per auto-rappresentarsi pubblicamente come una vittima e legittimare o addirittura acquisire una posizione di potere in ragione della sua presunta debolezza. Per sfruttare appieno le potenzialità insite nella critica sviluppata da Giglioli, tuttavia, si rendono necessarie alcune integrazioni, volte a contestualizzare il para- digma vittimario entro la cornice del nuovo spirito del capitalismo e, in seconda istanza, a combinare questa diagnosi con una teoria della giustizia disposta a porsi in ascolto delle vittime dell’ingiustizia senza fare conces- sioni alla deriva vittimaria.
Oltre ad aver condannato al silenzio o alla ‘dispersione acustica’ la voce delle vittime reali dell’ingiustizia, il vittimismo è uno dei dispositivi discor- sivi (e non) con cui il senso di ingiustizia diffuso nelle società contem- poranee viene spesso trascurato o relegato in secondo piano nell’agenda pubblica democratica. Oltre al processo di vittimizzazione dei responsabili fotografato e criticato da Giglioli, il ‘discorso del capitalista’ oggi egemone ne asseconda uno ulteriore, non meno essenziale: la cultura vittimaria è solo una faccia della medaglia ideologica che nel corso degli ultimi decenni ha legittimato e premiato l’iper-responsabilizzazione individuale dei dominati, assunti come unici responsabili della condizione di marginalità in cui si vengono a trovare19.
Nel Nuovo spirito del capitalismo, Boltanski e Chiapello hanno notato come questa forma di vita abbia saputo superare le crisi di consenso 19
Secondo Giglioli, il postmoderno avrebbe inaugurato il passaggio dal Discorso del Padrone al Discorso del Capitalista diagnosticato da Lacan. Il primo si fonda su un ideale di vita ascetico caratteristico del primo spirito del capitalismo industriale – quello descritto da Weber – e insiste sulla dialettica tra proibire e reprimere, mentre esalta il risparmio, l’accumulazione, il continuo reinve- stimento del profitto e il futuro. Il secondo, invece, incita al consumo, allo spreco, al godimento e privilegia l’hic et nunc a un’incerta procrastinazione dei desideri. Da qui si sviluppa una concezione proprietaria dell’identità, che si impone rivendicando riconoscimento per sé: «il Discorso del Padrone non scompare, si traveste, tollerante con se stesso e intollerante con gli altri. Il “tu” del tu devi perde la sua flessione riflessiva, autopoietica» – arco di volta del disagio della civiltà diagnosticato da Freud, laddove questa richiede la rinuncia soggettiva al soddisfacimento immediato delle pulsioni – «e si estroflette in un tu reale, esterno, un perenne “voi dovete”, “voi mi dovete”. Vince chi si procura il più efficace, il più ricattatorio», ibidem, pp. 52-53.
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incontrate lungo il suo sviluppo storico assorbendo le critiche preceden- temente mobilitate contro di essa: autonomia, libertà, auto-realizzazione so- no diventati i nuovi principi morali ed etici su cui si fonda l’organizzazione sociale del lavoro interna alle imprese. L’enfasi posta dal new management sulle parole chiave elaborate dalla critica d’artista nel corso degli anni sessanta e settanta esemplifica un dispositivo indiretto di assoggettamento, veicolato dal riconoscimento di una maggiore autonomia e libertà indi- viduale, anziché da un sistema di relazioni gerarchiche. Ogni individuo si configura come nodo di una rete, appositamente creata per conseguire gli obiettivi in vista dei quali è strutturato il lavoro a progetto. Tutti devono concorrere al raggiungimento dell’obiettivo e, per farlo, possono godere della massima libertà organizzativa, purché vengano rispettati i termini e le scadenze definite dai vertici aziendali. Il non detto di tale riconoscimento risiede nella colpevolizzazione dei lavoratori che falliranno: se ogni lavora- tore è corresponsabile del buon andamento di un progetto professionale che è stato assegnato a lui o alla sua équipe di lavoro, un eventuale fallimento non potrà essere ricondotto a cause estrinseche alla sua buona volontà. Si tratta di una deriva pervasiva, che dal mondo delle imprese sta coloniz- zando altre dimensioni della vita sociale, compresa la condizione di chi og- gi è escluso dal mondo del lavoro20.
Le conseguenze teoriche di una simile impostazione sono facilmente de- sumibili: poiché il fallimento individuale e professionale è riconducibile solo ed esclusivamente agli individui responsabili dell’andamento delle lo- ro sorti professionali e biografiche, la condizione di marginalità in cui si possono venire a trovare non sarà imputabile ad altri che a loro stessi. In questo modo, viene squalificata come assurda ogni potenziale protesta con- tro la condizione di esclusione vissuta in prima persona dai soggetti. Il senso di ingiustizia eventualmente esperito dagli individui marginalizzati viene così disgiunto dall’ingiustizia stessa e, dunque, considerato indegno di considerazione pubblica.
Il processo è dunque duplice: la vittimizzazione dei responsabili e la responsabilizzazione delle vittime individuano il doppio binario su cui cor- re l’ideologia neoliberale oggi egemone, che è riuscita nel miracolo di di- sperdere le fonti del malcontento sociale nel mare magnum dell’indigna- zione impotente. Il vittimismo consente ai responsabili diretti e indiretti della sofferenza indebita di immunizzarsi da ogni critica. Le vittime reali di ingiustizie saranno rappresentate pubblicamente come le responsabili della condizione in cui si trovano e dei disagi eventualmente procurati all’azien- da, qualora scelgano di ribellarsi; viceversa, i suoi vertici potranno auto- 20 Cfr. L. Boltanski, É. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.
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proclamarsi e autorappresentarsi come vittime dell’operato di lavoratori ‘scansafatiche’.
A fronte di uno scenario così sconfortante, non è sufficiente sottoporre a critica il vittimismo e l’annessa deriva vittimaria per restituire voce alle reali vittime dell’ingiustizia che non vogliono più essere tali; occorre anche disporre di una teoria della giustizia capace di sfidare l’indebita parifi- cazione ideologica fra i casi di iniquità e quelli di cattiva sorte ponendosi in ascolto del vissuto soggettivo delle vittime coinvolte in relazioni asimme- triche di potere, senza per questo cedere alla deriva vittimistica e alla ‘presunzione d’impotenza’ proiettata sulle vittime reali dell’ingiustizia. Onde evitare tali rischi, occorre distinguere tra le presunte e le reali vittime dell’ingiustizia; in caso contrario, lo status di vittima potrebbe essere assegnato – come di fatto accade oggi – a quei lavoratori unitisi in uno sciopero per rinegoziare le loro condizioni lavorative, come a quegli amministratori delegati che lamentano di subire l’atteggiamento reazionario di dipendenti aziendali, che – lottando per i propri diritti – si rifiuterebbero di comprendere e adattarsi ai nuovi imperativi del mercato globale.