Messa così può sembrare certamente un ossimoro o una contraddizione di termini. In verità questo penultimo breve paragrafo si propone come un abbozzo della questione centrale di questo studio, vale a dire la relazione tra cristianesimo e spazio pubblico: quale cristianesimo e, nello specifico italiano, quale cattolicesimo? Va da sé, che possibili risposte non possono rinunciare al contributo fondamentale – in tal senso – della ricerca sociale. A volo d’uccello presenteremo qualche informazione iniziale, riservandoci maggiore dovizia di dati e commenti nell’ultima parte del lavoro.
Se parliamo di decristianizzazione o scristianizzazione, sono innanzitutto i numeri a parlare. Prendiamo a prestito, per esempio, uno degli indicatori usati con maggior frequenza dalla sociologia della religione per tentare di misurare gli effetti della secolarizzazione: la pratica religiosa. Soltanto in tre Paesi europei la maggioranza della popolazione si reca regolarmente in Chiesa (Irlanda, Polonia e Svizzera). Nella maggior parte degli altri Paesi i praticanti sono meno del 20% e, in Germania orientale e Scandinavia si registrano valori a una sola cifra. Se in Polonia, Irlanda, Svizzera, Portogallo, sono meno del 10% coloro che non vanno mai in Chiesa, in ordine crescente sono abbondantemente sopra il 50% in Francia, Gran Bretagna, Olanda e Germania Est. In Italia la frequenza dichiarata alla messa settimanale (a seconda delle indagini campionarie) varia dal 28% circa del Nord Est al 26,5% del dato nazionale. Ma, è assai interessante notare che se frequenta la messa il 48,1% degli ultrasessantenni, la percentuale scende in modo vertiginoso al calare dell’età, fino a giungere al 13% nella classe di età 18-29. Percentuali simili si registrano anche per gli adolescenti. Sempre per restare in Italia, se guardiamo alla tipologia del matrimonio, si scopre che al Nord il 55% dei matrimoni viene celebrato con rito civile e il 51% al Centro. Resiste il Sud con il 75% di matrimoni religiosi ma il dato è certamente in calo.28 Ancora a livello europeo è in rapida diffusione un
fenomeno poco conosciuto e di cui viene data scarsa informazione: la chiusura dei luoghi di culto e, non di rado, la loro trasformazione in luoghi di culto di altre fedi, specie di quella islamica. Recentemente sono usciti i dati sul cosiddetto “sorpasso islamico in Francia”, dove si costruiscono più moschee, e più di frequente, di chiese cattoliche, e ci sono più praticanti musulmani che cattolici: a seconda delle fonti, in effetti, la pratica religiosa domenicale in Francia non supera il 2%. Il più noto leader islamico, Dalil Boubakeur, rettore della gran moschea di Parigi, ha ipotizzato che il numero delle moschee dovrà raddoppiare, fino a
quattromila, per soddisfare la domanda. Al contrario la chiesa cattolica ha chiuso più di sessanta edifici sacri, molti dei quali sono destinati a diventare moschee secondo una ricerca del quotidiano Le Croix. Da anni gruppi musulmani stanno chiedendo ai cattolici il permesso di usare le chiese vuote, anche senza acquisirle, per risolvere i problemi di traffico provocati da migliaia di musulmani che pregano in strada. In Olanda 250 edifici dove per oltre un secolo hanno pregato cattolici, luterani e calvinisti hanno cambiato di mano. In Inghilterra dal 1960 a oggi sono state chiuse 10.000 chiese e si prevede la chiusura di altre 4.000 per il 2020.29 Se guardiamo, infine, al calo delle vocazioni, sempre a titolo di esempio prendiamo
una diocesi del Triveneto – area che fino a pochi decenni or sono veniva definita “bianca” per segnalare la diffusa cultura cattolica anche sul piano politico – quella di Vittorio Veneto nella provincia di Treviso, troviamo 900 presbiteri con età media superiore ai 70 anni. Entro 25 anni, salvo improbabili inversioni di tendenza, scenderanno a 80, con una serie di conseguenze sul culto e sulla ritualità che riprodurranno, anche sul piano sociale, situazioni davvero remote. Ma se tutto ciò dice di una eclissi del Dio cristiano (tanto per usare una fortunata definizione di Sabino Acquaviva, da poco scomparso), altri elementi fanno intravvedere un orizzonte meno secolarizzato. In effetti, di desecolarizzazione o di addio alla secolarizzazione, parlano – pure con lemmi e declinazioni non sempre uniformi – studiosi come Taylor, Gauchet, Beck, per nominare i più citati sull’argomento. La fine della religione istituzionale o di chiesa, non significa, infatti, fine della religiosità soggettiva. Anzi, la religione privatizzata, declina nuove forme di adesione spiritualistica, di fuga dal mondo di adesione a sette; il mondo new age non è l’ultima di queste realtà. La religiosità come fede privata, assume – specie in questo contesto storico particolarmente interessato da azioni terroristiche di stampo religioso e da venti di guerra – anche uno spazio pubblico: religiosità non tanto come espressione di fede ad un credo religioso quanto come appartenenza ad un sistema simbolico di credenza ai fini di sostegno identitario. Qualcosa di simile è già accaduto in situazioni di grave criticità socio-politica. Da non confondersi però con la vicenda del cattolicesimo polacco negli anni Ottanta del secolo scorso, perché se è vera la valenza identitaria dell’appartenenza religiosa, non venne meno in quel caso il senso di una fede che anche esprimeva sia profondità intimistiche e interiori sia espressioni pubbliche di fede collettiva. Non ultimo, la desecolarizzazione si racconta anche con la lenta ma, inesorabile, trasformazione antropologica e culturale che toccherà l’Europa dei prossimi decenni. Come è ormai noto anche ai più sprovveduti, il fenomeno migratorio, sempre più crescente verso
l’Europa e accelerato dagli eventi bellici ben conosciuti, conduce nel vecchio continente un’umanità diversificata ma che, in modo omogeneo, è portatrice di appartenenze religiose “forti”, assolutamente estranee al concetto di secolarizzazione così come si è generato in Europa. Un’Europa forse vecchia culturalmente; sicuramente vecchia e con poche speranze di inversione di rotta, sotto il profilo demografico. Alcuni orientamenti di pensiero immaginano che anche le generazioni future, figlie dell’immigrazione, abbracceranno le tinte della secolarizzazione europea. Certamente è una possibilità. In tanti paesi europei, però, già le seconde generazioni, spesso, smentiscono questa ipotesi. Ci basti, come primo momento di riflessione che, come già ricordato, troverà altra articolazione e più ampia trattazione.