CAPITOLO SECONDO
2.3 Scienza e valori: una questione attuale
La scienza come professione è uno dei saggi più belli, interessanti e attuali della storia del Novecento. Inutile ricordare che le interpretazioni e le riflessioni su questo gioiello del pensiero contemporaneo (al quale si affianca La politica come professione, altra conferenza- saggio dello stesso periodo) abbondano per numero e pregio. Ci sembrerebbe utile, qui, recuperare alcune categorie dell’osservazione weberiana che, per lungimiranza e cogenza con la ricerca di senso che, per sua stessa essenza, vorremmo dire è per forza – anche – questione della filosofia, sono tutt’altro che anacronistiche. In particolare, ci si soffermerà sul concetto di razionalità e sulle sue peculiari declinazioni nell’attualità – specie di tipo tecnologico –, sui limiti e non limiti di questa razionalità che, direttamente o indirettamente investono questioni etiche o bioetiche e, infine, sulla professione scientifica intesa nella direzione della divulgazione del sapere, che è propria dell’insegnamento e che, in via diretta, richiama l’originaria riflessione del grande pensatore tedesco. Scrive Weber:
Il progresso scientifico costituisce un frammento, il frammento più importante, di quel processo di intellettualizzazione a cui sottostiamo da millenni e contro il quale oggi si è soliti prendere posizione in maniera così straordinariamente negativa. Anzitutto va chiarito il significato concreto di questa razionalizzazione intellettualistica che avviene per mezzo della scienza e della tecnica guidata dalla scienza. Forse si tratta del fatto che noi oggi – per esempio chiunque sieda oggi in questa sala – abbiamo una conoscenza migliore delle condizioni in cui si svolge la vita di quanto non ne abbia un indiano o un ottentotto? Difficile. Mentre viaggiamo in tram non abbiamo la minima idea di come esso faccia a muoversi, a meno che non siamo dei fisici. Ma neppure abbiamo bisogno di saperlo. Ci basta poter fare assegnamento sul comportamento della vettura e adeguarvi il nostro, mentre nulla sappiamo di come si costruisca un tram capace di muoversi. Il selvaggio conosce i suoi strumenti in maniera incomparabilmente migliore di noi. Quando oggi spendiamo del denaro, scommetto che perfino gli eventuali colleghi di economia politica presenti in sala avranno pronta ciascuno una risposta diversa alla domanda su come è possibile che per mezzo del denaro si possa comprare qualcosa, a volte tanto, a volte poco. Invece il selvaggio sa benissimo come procurarsi il cibo quotidiano, e quali istituzioni gli servano. Dunque la crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita a cui si è soggetti, ma qualcosa di molto diverso: la consapevolezza, o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di
principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono – in linea i principio – essere dominate dalla ragione. Ciò non è altro che il disincantamento del mondo. […] Ma questo processo di disincantamento che nella cultura occidentale è in corso ormai da millenni, e in generale questo «progresso» di cui fa parte anche la scienza sia come elemento, sia come forza motrice, ha forse un senso che oltrepassi la dimensione meramente tecnica? […] Che posizione dovremo prendere noi? Il «progresso» in quanto tale ha forse un senso riconoscibile che vada oltre il mero fatto tecnico, tanto da rendere ragionevole il dedicarvisi professionalmente? È una questione che va discussa. Ma non si tratta della questione della vocazione individuale alla scienza, cioè del problema del significato della scienza come professione per chi vi si dedica, bensì dell’altra questione: a che
cosa è chiamata la scienza nel contesto della vita dell’umanità? Qual è il suo valore? […]
Premesso tutto ciò, che senso ha la scienza come professione, dato che tutte le illusioni di una volta («via per giungere al vero essere», «via per giungere alla vera arte», «via per giungere alla vera natura», «via per giungere al vero Dio», «via per giungere alla vera felicità») sono ormai naufragate? La risposta più semplice l’ha data Tolstoj: La scienza non ha senso perche non risponde all’unica domanda che è veramente importante per noi: Che dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere? Che essa non risponda a questa domanda è assolutamente incontestabile: la questione è però in che senso essa non dia risposta, e se non possa invece, anziché rispondere, essere in qualche modo d’aiuto a chi pone la domanda giusta58.
Il processo di razionalizzazione è inteso come l’elemento essenziale della vita moderna, e corrisponde alla conquista di una specifica efficienza e produttività delle procedure che sono applicate per dominare tecnicamente i diversi aspetti dell’esistenza: ma corrisponde anche alla crescente convinzione nella fiducia che in linea di principio tutte le cose possano essere dominate dalla ragione. «Lo sviluppo di questa fiducia, tipicamente espressa dalla mentalità scientifica – commenta Paolo Jedlowski – comporta un disincanto del mondo, nel senso che progressivamente viene espulso dall’atteggiamento fondamentale degli uomini ogni riferimento a spiegazioni e a comportamenti magici, animistici o religiosi. Il tipico soggetto moderno si aspetta che tutto possa essere, oggi o domai, nell’infinito progresso della scienza, spiegato razionalmente: questo atteggiamento sostiene uno straordinario sviluppo delle sue capacità tecniche, ma tende anche a sostituire all’antico senso del mistero,
58 M. Weber, La scienza come professione (1919), a cura di Paolo Volonté, Bompiani, Milano, 2008, pp.87-91;
e al sentimento di una fondamentale complicità tra l’uomo e la natura, un radicale disincanto e un atteggiamento esclusivamente strumentale verso la natura»59.
I quesiti che il filosofo tedesco pone – tutt’altro che superati – si fondano sull’osservazione, ineccepibile diremmo, che l’idea moderna di ragione o meglio che l’idea di ragione azzerata sul concetto di razionalità scientifica e sulle sue conseguenze/applicazioni tecnologiche sia di per sé un’idea o un presupposto irrazionale. E questo è il primo paradosso della modernità, poiché l’idea che tutte le cose in linea di principio possano essere dominate dalla ragione, esprime una fiducia che razionalmente non è giustificabile. La scienza, infatti, e le sue applicazioni possono dirci come sia possibile tecnicamente dominare il mondo, come eventualmente provare a risolvere problemi o rispondere a bisogni ma, sul come sia possibile fare ciò o, ancor più, se sia bene o male, questo la scienza non può dirlo. Per questo compete all’etica e di conseguenza, al mondo dei valori: ma per la scienza moderna c’è il rischio che il mondo dei valori sia per eccellenza considerato extrascientifico e perciò extrarazionale. E la spaccatura tra razionalità tecno-scientifica e valori è una questione che tocca direttamente il problema del senso nella cultura moderna e, ancor, più contemporanea. Weber affida alla responsabilità personale il fondamento dell’etica. Ma, anche questo implica una ricerca di senso che orienti il proprio agire, specie in ambito scientifico e tecnologico, fondandolo su valori alti, su questioni ultime. Ed è proprio quello che, sin dall’epoca di questa celeberrima riflessione, tende a venir meno, assorbito, come spiega lo stesso pensatore tedesco, dal politeismo dei valori: «Diceva il vecchio Mill, la cui filosofia non intendo elogiare, ma che su questo punto aveva ragione: se si parte dalla pura esperienza si perviene al politeismo»60. Un
politeismo che al giorno d’oggi si può leggere come relativismo assoluto e che, specie nello strapotere tecnologico di derivazione scientifica (ma che a volte si contrappone agli stessi principi del fare scientifico), esprime una serie di paradossie maligne che, irrazionalmente, sono incapaci di porsi questioni di senso e domande di tipo etico-morale, rendendo davvero attuali le perplessità di Max Weber, che non era certo un relativista.
Ci sembra di poter affermare che, l’ultramodernità presenta il segno di una spaccatura che pare insanabile, tra razionalità e valori, con particolare evidenza nel farsi delle tecno- scienze sia in ambito comunicativo sia – con maggiore criticità tocca registrare –, negli ambiti della bioetica e biopolitica, dove questa scissione assume i toni di un totalitarismo culturale. Per esempio, l’agenda digitale europea fissa per il 2020 la disponibilità di 30 megabytes per
59 P. Jedlowski, Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociologico, Carocci, Roma, 1998,
pp.144-145.
tutti i cittadini europei, che tradotto anche per chi ostenta con fierezza la propria “ignoranza” informatica, significa la possibilità di collegarsi con il mondo in tempi velocissimi. Si parla di misure ancora più elevate per alcune percentuali di utenti. L’Italia sembra in ritardo e uno dei motivi del “ritardo” italiano è che non è stato investito “in verticale”. Vediamo di capirci: questa potenza comunicativa dipende dalla fatidica fibra ottica che, se non ho mal compreso, dovrebbe veicolare la cosiddetta banda larga. Ora, se si dispone di grattacieli che ospitano come microbi accatastati, centinaia o migliaia di famiglie o di attività è piuttosto facile raggiungere ampie aree di popolazione. Ciò accade in Giappone, Corea, Aree del Sud Est asiatico, Stati Uniti, insomma, si pensi alle immagini dei luoghi ultramoderni del pianeta. Quindi dovremmo rimpiangere i grattacieli. Poco importa se in quei paesi gli indici di stress, anomia, solitudine, disagio sociale, suicidio, siano altissimi. Soprattutto, facciamo attenzione alla scarsa memoria di noi ultramoderni: una condizione che facilita il proliferare delle paradossie maligne, sempre in nome del dio denaro. Mi sbaglio o hanno gonfiato i media, e per questa via le agenzie educative, per trent’anni con la storia della tutela del patrimonio artistico e ambientale italiano, con la protezione dell’ecosistema, con la costruzione di città a misura d’uomo e una serie infinita di altre verdi intuizioni, anche apprezzabili? Naturalmente (sempre a proposito di paradossie) intuizioni attentissime al territorio e agli animali e assolutamente disinteressate ai destini dell’humanum in sé, inteso qui come persona e non come animale, più o meno evoluto; mi riferisco a questioni come l’aborto, il diritto ad avere figli a tutti costi, eutanasie varie, demolizione della famiglia e altri sproloqui in pedissequa cerca di legislatore.
In sostanza, per riprendere il punto di questa pure breve riflessione, si è tutelato l’ambiente (non tanto la persona) e il patrimonio artistico, ma si è rimasti “indietro” per quanto attiene l’uso dei nuovi media. Ma, siamo davvero rimasti indietro, oppure – anche se credo non ancora per molto – ci siamo salvati? Senza considerare che lascio a voi di immaginare costruzioni ciclopiche svettare accanto ai paesini medievali o rinascimentali del centro Italia. In diverse occasioni di convegno, seminario, conferenza, si sente ripetere che dovremmo assomigliare ai paesi “avanti”; quei paesi che sono avanti nella liberalizzazione di tutte le libertà (cioè di nessuna), dal consumo di droga all’etica individuale e familiare che si fonda sul primato dell’individualismo liquido, per parafrasare il fortunato conio di Zygmunt Bauman. Un io che decide chi nasce e chi muore e quando, quale sia il commercio di organi moralmente accettabile o meno (perché non si possono comprare reni e, invece, è possibile comperarsi ovuli, spermatozoi, ecc. ?) e via spersonalizzando… Sono avanti questi paesi anche per le nuove tecnologie comunicative, e la connessione globale, spesso, riesce a
raccontare ciò che si pensava di aver consegnato ad un orribile oblìo, fatto di paradisi neri e razze superiori ma che, invece, è qui, adesso. Nell’Illinois – uno degli stati USA – una coppia di donne bianche desiderava un bambino. A questo punto, grazie ad artificio umano non certo alla natura, le due donne si sono rivolte ad una agenzia che vende seme maschile; un po’ come se voi vi rivolgeste a questo o a quel concessionario per acquistare un’auto. Solo che gli esseri umani non sarebbero cose… evitando di soffermarci sulle procedure d’impianto, ci basti ricordare che a un certo punto è nata una bella bambina, nera! Le donne – così come fareste voi se non otteneste l’auto del colore desiderato – si rivolgono al tribunale per nascita “errata”. Ora a parte l’approccio evidentemente razzista (le due si sono giustificate dicendo che la bambina si sarebbe trovata male a crescere in un ambiente di bianchi) le due perdono la causa ma la conclusione del giudice del tribunale dell’Illinois potrebbe essere pure peggiore: «la nascita non è errata perché la bambina è sana». E se fosse stata malata? Credo possa bastare. Ciò che da subito, in questo “quadro” appare assolutamente ignorato, è ogni benché minimo riferimento all’etica della responsabilità, alla negazione di quell’ama il prossimo tuo come te stesso che è divenuto (o era…) principio fondativo della civiltà, inteso così – pure con tensioni irrisolte – anche da numerosi pensatori e osservatori sociali non credenti. Vivere nella condizione di amare solo se stessi, esprime una vita priva di significati, affogata dentro egoismi e narcisismi patologici; è non amare, nemmeno se stessi, perché l’amore è relazione, è movimento dall’interno all’esterno, verso l’altro, perché è l’altro che identifica e dà senso all’essere, all’esistere del sé. Il senso della vita è proprio in questo ex-sistere, in questo star fuori o andar fuori di se stessi per ritrovare se stessi. È la gioia del dono, che rende vivida di sapori la vita nei tuoi mondi e la tua esistenza. Basti pensare a qualsiasi traguardo o successo raggiunto; se non trova la condivisione degli altri, anche solamente di pochi altri che popolano i tuoi mondi vitali, si ammanta di vera tristezza. E questo star fuori, implica necessariamente l’atto della responsabilità. Spiega Fabrizio Turoldo, docente di Bioetica ed Etica Sociale all’Università Ca’ Foscari di Venezia:
Un’etica della responsabilità potrà infatti essere intesa in molti modi, ma mai in senso solipsistico. Il soggetto responsabile non potrà mai essere pensato come il soggetto atomistico di una malintesa tradizione liberale. Il soggetto responsabile non è nemmeno il buon selvaggio di Rousseau e di una certa tradizione giusnaturalista, secondo cui le relazioni sociali e le strutture comunitarie si sovrappongono in modo artificiale ed estrinseco all’esistenza del singolo. Il soggetto responsabile, al contrario, è un soggetto naturalmente sociale, originariamente immerso in una rete di rapporti sociali. È l’animale sociale di Aristotele. È
l’essere gettato in un mondo linguisticamente caratterizzato, è colui che, quando viene al mondo, ascolta un linguaggio che lo precede, come scriveva Heidegger nei tesi successivi alla
Kehre. Non è qualcuno a partire dal quale si costruisce un mondo o qualcuno che viene al
mondo prendendo lui la parola per primo, come poteva lasciar pensare lo Haidegger di Essere e Tempo. Il soggetto responsabile è quello la cui natura deve essere intesa fine, come telos: un
telos che tende verso una realizzazione relazionale, dove la relazione è con gli altri, ma anche
con l’Altro. […] un’etica della responsabilità è un’etica della reciprocità e dell’intersoggettività. Tutti i significati elencati sopra hanno infatti questa comune radice e questo minimo comun denominatore: la responsabilità come imputazione significa essere responsabili davanti a un altro che è vittima, è dover rispondere davanti a un altro che è il giudice, che è la società, oppure che è l’altro in noi, cioè il giudice interiore, la voce della coscienza; la responsabilità in senso antecedente è l’essere responsabili di un altro che ci è dato in carico, come può essere un figlio, oppure un altro che non conosciamo o che non conosceremo mai, come sono le generazioni future; la responsabilità come risposta a un altro che mi viene innanzi con la sua voce ed il suo volto richiama la virtù dell’amicizia, in cui l’intersoggettività e la reciprocità trionfano; la responsabilità come re-sponsio, è un impegno solenne preso nei confronti di un altro, è una promessa che gli viene fatta. Essa trova il suo paradigma nel matrimonio, dove lo sponsus e la sponsa si impegnano in un legame di reciprocità che deve valere per la vita; la responsabilità come rem ponderare, come capacità di valutazione, come phronesis si situa anch’essa nella dimensione delle relazioni; la responsabilità come resistenza, implica una regola nel rapporto con l’altro, regola senza la quale la reciprocità finirebbe per contraddirsi. Che cosa accade infatti se applichiamo la regola del “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” ad un masochista? Ma anche se interpretassimo la regola come un “fai agli altri ciò che loro desiderano”, ci troveremmo di fronte all’enigma di desideri autodistruttivi od etero distruttivi. […] Io devo rispettare l’altro come me stesso e me stesso come un altro, nella misura in cui questo non neghi gli ideali di umanità e di dignità. Responsabilità come resistenza significa allora resistenza dell’umano contro il disumano, significa rispettare non solo l’altro, ma anche l’ideale di umanità che posso intravedere in lui, anche quando egli si umilia: fare il salto dalla pura e semplice intersoggettività (l’essere con gli altri) alla reciprocità (l’essere per gli altri); infine la responsabilità come gestione sociale del rischio che implica il rapporto preferenziale e l’attenzione privilegiata per l’altro debole, fragile e vulnerabile61.
61 F. Turoldo, Bioetica ed etica della responsabilità, dai fondamenti teorici alle applicazioni pratiche, Cittadella
Per l’altro che non può decidere, perché non è ancora nato, giusto per chiudere questo “decalogo” sulla responsabilità richiamato da Turoldo, purtroppo quasi ovunque, sistematicamente ignorato.
È necessario però, non confondere quello che vuol essere un momento di riflessione critica, con un canto nostalgico che risulterebbe inevitabilmente anacronistico e, perciò stesso, poco utile. Non c’è dubbio che l’impegno di tecnici, informatici, ingegneri, per sostenere la medicina, le tecniche della cura, la nostra sicurezza sia un lavoro benedetto. Questo, con altre parole è richiamato anche da Max Weber. Così come è apprezzabile il fatto che si possa comunicare con amici e parenti in ogni parte del globo o rivedere immagini di un passato che ci è intimo e caro. Non ultima, è senza dubbio una grande opportunità disporre – in potenza – di una biblioteca elettronica in casa; che naturalmente andrebbe vagliata con i termini di una conoscenza che non può essere virtuale. E allora? Allora il punto sta nel chiedersi se davvero i nuovi media di “comunicazione” rappresentino una sorta di nuova liberazione per l’umanità o se possano imporsi come una nuova «gabbia d’acciaio» di weberiana memoria. Dipende dall’uso che se ne fa, sarà facile rispondere. Certo, ma l’uso dipende dalle coscienze e bisogna capire di che cosa vengano nutrite le coscienze, specie quelle di chi cresce; vale a dire, come per ogni generazione, le fasce d’età più vulnerabili e di più facile manipolazione, come ha dimostrato almeno un secolo di scienze sociali e neurologiche: ci sono livelli della coscienza dove è abbastanza facile condizionare gli umani; sono livelli che tutti comprendiamo e che solo con la ragione irrobustita dai valori che conducono alla maturità, possiamo controllare e dominare. A parte schiere di umani che, a prescindere dall’età, muovono per le strade, in auto e nei mezzi pubblici col capo chino oppure parlando al vento grazie a cordicelle pendenti e altre microfonie che, in fondo – altro paradosso – segnano tante solitudini se non indifferenze al destino gli uni degli altri, viandanti con lo sguardo perennemente abbassato, talvolta trainati da simpatici cagnolini e, troppo spesso, incapaci di guardare in alto, verso altezze più celesti, imprigionati dalla «visione senza sguardo» come direbbe il filosofo francese Paul Virilio che, da anni rivolge una critica interessante all’information technology e ai global media, filiazioni della «dromologia», un suo fortunato conio che spiega come la «scienza della velocità» sostenga la relazione tra politica e territorio, potere e territorio, che passa non solo attraverso internet ma anche nelle pretese di clonazione, eutanasia, alimentazione transgenica, così come nel cinema, nella televisione e nella information warfare; velocità che procura beneficio a chi ha il potere di gestirla62. Così come attraverso i media si procede in modo incessante a
“socializzare” – non soltanto i giovani – a tutte le nuove modalità etiche, a cominciare da ciò che si intenda per famiglia, secondo un registro ben affermato di manipolazione delle coscienze: in fondo, come ha già dimostrato la storia in più occasioni, se un’idea o un asserto, per quanto falso, viene ripetuto all’infinito, prima o poi ci si convince che sia vero. Questa