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L’uomo come essere simbolico. Nella radice stessa di questo carattere, l’essere umano è insieme inscindibile di patrimonio biogenetico e di acquisizione ambientale30, di natura e

cultura, esito del grembo materno ma, forse ancor più, del grembo sociale, come segnalava già Aristotele. Simbolo: da symbállein, mettere insieme; una co-implicatio di elemento visibile ed elemento invisibile, dove l’invisibile attribuisce significato e valore altissimo al visibile. L’uomo che nella capacità simbolica, cui primo tratto espressivo è il linguaggio, si distingue dall’animale; perché l’uomo pensa, può pensare se stesso (il dialogo dell’anima con se stessa in Platone). E attraverso il linguaggio – che è anche “visibilità” del pensiero e delle tensioni più intime dell’anima – l’uomo ha realizzato il mito, la poesia, i sistemi filosofici, le espressioni artistiche, le formalizzazioni scientifiche; costruisce “cose belle”. E le cose belle sono tali perché riassumono una relazione dinamica fra terra e cielo, immanente e trascendente, visibile e invisibile: simbolo, appunto. A cominciare da quel cerchio variamente dipinto o inciso su pareti rupestri dai remoti antenati dell’età preistorica, che indica l’infinito, la congiunzione di terra e cielo e, più tardi, per gli sposi (anello-cerchio), promessa di amore eterno. Anche se non sembra più così apprezzato. O, ancora, l’attenzione per i morenti: l’uomo non muore solo, o non dovrebbe. La tomba: forse il primo segno della espressività simbolica umana, il primo atto culturale. Luogo di passaggio, non ultima dimora; segno della memoria per la comunità. La capacità simbolica che sta a fondamento dell’agire umano è il motore dell’attività cognitiva e orienta l’uomo in relazione alla costruzione dei sistemi simbolici di cultura; a quella risposta particolare, locale, che gli esseri umani in quanto membri di gruppi sociali sin dalla nascita, sanno fornire a bisogni vitali universali. Bisogni di natura morale, affettiva, fisiologica, pratica, in una parola soltanto: esistenziale. Una risposta specifica a esigenze universali perché, si è detto, gli uomini sono, soprattutto, differenti. La natura simbolica però, come universale umano, offre una situazione originaria comune a tutte le culture, poiché non costituisce solo il motore della conoscenza umana ma anche la condizione costitutiva dei sistemi simbolici di credenza religiosa. E, sotto tutti i cieli, la dimensione centrale di ogni sistema culturale è quella religiosa; un fatto inoppugnabile suffragato dalla lunga verifica delle scienze storico-sociali. Da questa parte, in effetti, procedono principi, valori, norme che guidano la vita degli esseri sociali, degli esseri in

30 Per un approfondimento circa la definizione della identità culturale e sociale degli esseri umani, si rimanda ad

un’ampia bibliografia resa disponibile dalle Scienze sociali e dalla Filosofia.Per la trattazione di questo paragrafo vedi, tra le altre, U. Bernardi, Del Viaggiare, Franco Angeli, Milano, 1997; si veda anche L’Altro possibile, interculturalità e religioni nella società plurale, EMP, Padova 2013, pp. 15-17.

relazione. Il tratto comune, infatti, si individua proprio nell’origine del termine: relazione, che cade direttamente da lògos, inteso come parola creatrice, ciò che sta prima (dal prologo al Vangelo di Giovanni: “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio” Gv, 1, 1-18) che regge il verbo greco legéin, che significa legare, legame, da cui re – ligare, vale a dire se non la sola, l’accezione più nota del termine religione, quindi re – lazione. Ciò che lega o dovrebbe legare l’uomo all’altro uomo e ciò che lega l’uomo a Dio, l’umano al divino, il visibile all’invisibile. Tanto che diventa difficile separare relazione culturale da relazione religiosa, se non per un’epoca a facile “rottura di memoria”, e per una quota significativa di umanità che appartiene al “primo mondo” o ai “primi mondi”. Al riguardo, varrebbe la pena ricordare l’origine sacra di quell’adagio che dalle scienze sociali passa al senso comune per sancire che “la persona è relazione”; così come al sacro si riferisce il concetto stesso di persona e la genesi della separazione tra dimensione culturale e dimensione religiosa, pure nello specifico dei “primi mondi”, o del portato della cultura occidentale, per essere più espliciti. Senza indugiare qui sul quesito – peraltro sempre attuale – se sia l’uomo che fa la religione o se sia Dio autore dell’uomo che si dona all’uomo, la questione dell’origine rimane la questione previa di ogni altra questione, capace di affascinare l’essere umano motivato da curiosità intellettuale, a prescindere persino dall’atto del credere o del non credere e indipendentemente dal patrimonio di conoscenze disponibili. Una questione che è strettamente legata ai destini ultimi dell’umano esistere e, in questo senso, la possibile risposta è vincolata alle prospettive. Ora si tratta di capire se esistenzialismo tragico, ateismo ideologico, agnosticismo filosofico, tragedia nietzschiana, libertinismo dei liberi pensatori bastano o basteranno a rispondere alle questioni ultime dell’esistenza e, più ancora, a costruire un’esistenza individuale e, possibilmente, collettiva, non disperante. La possibilità di ciò che appare impossibile, la vittoria della croce, parafrasando Kierkegaard o la condanna a trovare le risposte da sé – magari anche fuori di sé – e che questo sia sufficiente garanzia per non sprofondare nella disperazione? Questioni e domande che attraversano il tempo. Le affidiamo a due filosofi, figli della stessa terra, anche se di epoche differenti.

Blaise Pascal, prima scienziato e poi filosofo, ci invita a riflettere intorno alla sua famosa scommessa:

Che ragione hanno gli atei, per dire che non si può resuscitare? Che cos’è più difficile, nascere o resuscitare? Che quello che non è mai stato cominci ad essere o che quello che è già stato sia ancora? È più difficile cominciare ad essere o tornare? L’abitudine ci rende l’una cosa facile e la mancanza d’abitudine rende l’altra impossibile. Criterio davvero popolare! La nostra anima

è presa dentro il corpo, dove trova numero, tempo, dimensioni. Essa ragiona su questo, e chiama questo natura, necessità, e non può concepire altra cosa […] Noi conosciamo che c’è un infinito, e ignoriamo la sua natura. In egual modo sapendo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c’è un infinito numerico; ma noi non sappiamo come sia: È falso che sia pari, è falso che sia dispari; infatti aggiungendovi l’unità non cambia affatto di natura; tuttavia è un numero, ed ogni numero o è pari o è dispari (quantunque questo s’intenda del numero finito). E così si può ben dire che Dio c’è senza sapere che cosa è. Non c’è forse una verità sostanziale, poiché vediamo tante cose vere che non sono esse la verità stessa? […] Esaminiamo dunque questo punto, e diciamo: «Dio c’è, oppure non c’è». Ma da qual parte inclineremo? La ragione non può stabilire nulla. Un abisso infinito ci separa da Dio. All’altra estremità di questa distanza infinita si gioca un gioco in cui riuscirà testa o croce. Che cosa scommetterete? In base alla ragione non potete fare né l’una né l’altra cosa; in base alla ragione non potete sostenere né l’una né l’altra. Un abisso infinito ci separa da Dio. Non rimproverate dunque di sbagliare quelli che hanno fatta una scelta, perché voi non ne sapete nulla. No; ma io li rimprovererò non di aver fatta quella scelta, bensì di aver fatta una qualsiasi scelta; infatti, essendo uguale l’errore di scegliere testa come di scegliere croce, entrambe le scelte sono errate; la via giusta è nel non scommettere. Sì, ma scommettere bisogna; non dipende dalla nostra volontà: siamo imbarcati. Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo quello che vi interessa meno. Voi avete due cose da perdere: la verità e il bene; e avete due cose da impegnare: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra felicità; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l’errore e l’infelicità. La vostra ragione non viene ferita, poiché è inevitabile scegliere: per il fatto stesso che se non si sceglie l’uno si sceglie l’altro. Ecco esaurito un punto; ma la vostra felicità? Bilanciamo perdita e guadagno scegliendo croce, e che cioè Dio c’è. Calcoliamo questi due casi: se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che c’è, senza esitare. […] Poiché non serve a nulla dire che è incerto se si guadagnerà, e che invece è certo che si arrischia; e che l’infinita distanza che è tra la certezza di quello che si arrischia e l’incertezza di quello che si guadagnerà, pareggia il bene finito che è incerto. Non è così. […] Non c’è infinita distanza tra la certezza di ciò che si arrischia e l’incertezza del guadagno: ciò è falso. C’è, in verità, infinita distanza tra certezza di guadagnare e certezza di perdere. Ma l’incertezza di guadagnare è proporzionata alla certezza di ciò che si arrischia, secondo la proporzione dei casi di guadagno e di perdita: donde deriva che se ci sono altrettante probabilità da entrambe le parti, la regola è di giocare pari a pari; allora la certezza di ciò che si arrischia, ben lungi dall’essere infinitamente distante, è uguale all’incertezza del guadagno: e così la nostra proporzione ha una forza infinita, quando c’è ugual possibilità di guadagno e di perdita, e il

possibile guadagno è l’infinito. Questo è un argomento dimostrativo: e se gli uomini sono capaci di una qualche verità, questa ne è una31.

Ma la questione dei destini primi e ultimi, del senso profondo dell’esistenza umana ha incontrato e incontra, quasi naturalmente, altre prospettive. Così, ad esempio, vediamo come risponde a Blaise Pascal (e non necessariamente, solo a Pascal), un suo connazionale moderno, Jean-Paul Sartre:

Dostoevskij ha scritto: «se Dio non esiste tutto è permesso». Ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l’uomo è «abbandonato» perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità d’ancorarsi. E anzitutto non trova delle scuse. Se davvero l’esistenza precede l’essenza non si potrà mai fornire spiegazioni riferendosi ad una natura umana data e fissata; in altri termini non vi è determinismo: l’uomo è libero, l’uomo è libertà. Se, d’altro canto, Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e ciò non di meno libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa. L’esistenzialista non crede alla potenza della passione. Mai penserà che una bella passione è un torrente devastatore che porta fatalmente l’uomo a certe azioni e che quindi vale da scusa. Ritiene l’uomo responsabile della passione. L’esistenzialista non penserà neppure che l’uomo può trovare aiuto in un segno dato sulla terra, per orientarlo: pensa invece che l’individuo interpreta da solo il segno a suo piacimento. Pensa dunque che l’uomo, senza appoggio né aiuto, è condannato in ogni momento a inventare l’uomo32.

Senza addentrarci in percorsi che ci allontanerebbero dall’obiettivo principale di questo lavoro, il rimando della considerazione sartriana al Dasein di Heidegger è ineludibile e, forse, sempre per un ragionare intorno ai destini ultimi, la riflessione del filosofo tedesco sulla morte: «la morte è in generale, un male da temere o la promessa della liberazione dell’uomo? Rivela essa in modo radicalmente definitivo l’assurdità di tutta la nostra esistenza o è

31 B. Pascal, Pensieri (1870), tr.it. F. Montanari (a cura di), La Scuola editrice, Brescia, 1958, pp. 114-121. 32 J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo (1946), tr. it. G. Mursia Re (a cura di), Mursia Editore, Milano,

2016, pp. 40-42. Nota del commentatore: È bene ricordare che il concetto di libertà, qui svolto in chiave essenzialmente etico-pratica, assumeva in L’essere e il nulla, una portata ontologica: la libertà «coincide nel suo fondo col nulla che è nell’intimo dell’uomo», cioè è innanzitutto negatività, possibilità permanente del per-sé di realizzare una rottura annullatrice nei confronti dell’ in-sé dato, trascendendolo in direzione di un fine. P.41.

l’approdo continuamente presente nella nostra vita a cogliere l’essenziale e giungere all’autentico essere se stessi? E aggiunge Ugo Maria Ugazio: la morte di cui si parla… non è il decesso fisico. Ciò che qui deve essere elaborato è un concetto antropologico-esistenziale di essa, tale da far parte delle strutture esistenziali dell’Esserci, l’estrema possibilità… il morire appartiene costitutivamente al suo essere… (la)… non considerazione della morte… è la ragione per cui il mondo occidentale ha perso ogni “fondamento che fondi”»33. Aggiunge

Franco Battistrada: «Pietro Chiodi, nella sua nota alla prima edizione italiana di Sein und Zeit, privilegia il riferimento a Kierkegaard: queste pagine rivelano scopertamente la loro ascendenza kierkegaardiana; all’esito religioso è sostituito però il richiamo all’assunzione del destino di nullificazione a cui l’uomo è votato con la morte»34. A questo punto Sartre

concluderebbe: «L’esistenzialismo non vuole esser ateo in modo tale da esaurirsi nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio non esistesse, ciò non cambierebbe nulla; ecco il nostro punto di vista. Non che noi crediamo che Dio esista, ma pensiamo che il problema non sia quello della sua esistenza; bisogna che l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che niente può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio. In questo senso l’esistenzialismo è un ottimismo, una dottrina d’azione, e solo per malafede – confondendo la loro disperazione con la nostra – i cristiani possono chiamarci «disperati»35.

L’argomento dimostrativo della scommessa di Pascal, parrebbe apparire convincente nella sua struttura logica. Ma non è bastato a una robusta maggioranza di filosofi successivi, specie moderni e contemporanei; anche se l’argomentare del geniale pensatore del Seicento si presenta più solido, per esempio, di talune riedizioni dell’Essere parmenideo. La scommessa di Pascal, parla del Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, del Dio di Gesù Cristo, non dei filosofi e dei dotti, come è scritto nel famoso Memorandum, «un foglietto che cucì nel proprio abito, e lo passò quindi di abito in abito segretamente con le sue mani: tanto bene sapeva che l’uomo non è puro spirito ma ha bisogno di impegnarsi anche nella materia esterna. Dio non basta pensarlo; prima ancora che pensato da noi Dio è reale in sé e reale in noi, col suo operare; né nei nostri rapporti con Dio il primo passo è nostro; né la nostra vita a Dio è possibile senza il Redentore Gesù Cristo, Dio e uomo»36. Che è lo stesso Dio di Soren

Kierkegaard che «nel cristianesimo vedeva l’unica dottrina vera per la vita dell’uomo e, al

33 U.M. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia Editore, Milano, 1976, pp.30-32. 34 F. Battistrada, Per un umanesimo rivisitato. Da Scheler a Heidegger, da Gramsci a Jonas, Jaca Book, Milano,

1999, pp.51 e segg.; M. Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi, Milano, 1953/1970, p. XI.

35 J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., pp. 86-87. 36 B. Pascal, Pensieri, cit., p.15.

tempo stesso, l’unica capace di offrire, con l’aiuto soprannaturale della fede, un modo per sottrarre l’uomo all’angoscia e alla disperazione, che costituiscono strutturalmente l’esistenza»37. E la frattura con la maggioranza dei moderni e dei contemporanei sta proprio

qui, nella negazione, pure con sfumature differenti, del Dio di Gesù Cristo, per ri-consegnare però l’umano al «destino di nullificazione», come afferma Heidegger. Ora, si potrebbe ricordare a Sartre che i cristiani una grande speranza ce l’hanno e che, forse, sono state proprio alcune scie esistenzialiste a concludersi con destini disperanti. E, pure sommessamente, ci si potrebbe chiedere quale speranza o quale consolazione o quale gioia tanta filosofia moderna o contemporanea abbia lasciato – e continui a lasciare – a quella enorme maggioranza di esseri umani che filosofi non sono, anche se di fronte alle grandi questioni, gli umani – almeno quelli curiosi – diventano o tentano di diventare filosofi, anche se con categorie inappropriate. I filosofi facilmente obietterebbero che non è compito della filosofia suscitare gioia, consolazione o speranza. Tanto più che, nella storia d’Occidente, le categorie dell’amore e della speranza sono state introdotte proprio dal cristianesimo, da Gesù di Nazareth, anche se alcune importantissime categorie etiche si devono al trio dei giganti greci, e dato che l’uomo non è puro spirito, come ci ha ricordato Pascal, alcune fondamentali indicazioni etiche del cristianesimo si ritrovano in pensatori enormi, come Emmanuele Kant, e persino gli studiosi dello stesso Sartre, spiegano che in alcune opere dell’esistenzialista francese non mancano riferimenti diretti o indiretti a Tommaso d’Aquino. E dunque? Dunque, la questione è sempre la stessa: si accolgono, eventualmente, insegnamenti etici del Gesù uomo ma si esclude il Gesù Dio. Resta in sospeso il compito della filosofia, sempre che si pensi che la filosofia sia il “piccone” che aiuta a scavare nel senso della vita, un senso che, possibilmente, non lasci l’uomo abbandonato a se stesso o, peggio, innalzato in un razionalismo che apparentemente basta a se stesso, almeno fintanto che non ci si trova dinnanzi al momento decisivo, o che non si traduca nella “libertà” estrema, alla Hegel o alla Virginia Woolf (che l’ha pure praticata), che è quella di togliersi la vita, che in fondo annienta la libertà stessa – dato che per essere liberi è necessario essere, e per essere è necessario essere vivi – e annulla il senso stesso del fare filosofia. A onore dei filosofi è doveroso ricordare che la riflessione, la speculazione alta sui destini ultimi dell’uomo è esercizio doloroso. Del resto in più di qualcuno, come Schopenauer ad esempio, si legge che senza la

37 Si veda S. Kierkegaard, Aut-Aut (1843), Rizzoli, Milano, 1986; S. Rivieccio, Morire, perché? Pensare la

morte tra filosofia e teologia, Museopoli Press, Napoli, 2009; C. Fabro, Dall’Essere all’Esistente. Hegel, Kierkegaard, Heidegger e Jaspers (1957), Marietti, Genova, 2004.

morte sarebbe impossibile filosofare38; significativo detto da uno che in vero, teneva separato

il suo filosofare dalla vita, spesso annichilita dentro “mollezze” tipiche di soggetti lontani sia dalla filosofia sia dal ben dell’intelletto, e spesso guardati con sufficienza. E perciò, rispetto alle grandi questioni dell’esistenza la filosofia consegna solo il proprio dolore? Forse è possibile pensare a una filosofia che si apra ad un’altra speranza senza negare la propria autonomia epistemologica; senza sostenere che tutto sia finzione e proiezioni palliative per reggere le difficoltà di un’esistenza che, quasi come in una maledizione biblica, sia sempre destinata ad esiti di tragicità? Perché, appare chiaro – si ammetta o meno – che l’autoconsapevolezza razionale del proprio essere limitato e condannato al nulla, rende le esistenze – forse anche quelle di chi sostiene tale visione dell’uomo e del mondo – ancora più grigie e che, se è vero, per dirla ancora con Pascal, che l’uomo è limitato nelle sue possibilità e infinito nei suoi desideri, né filosofie razionaliste né grandi utopie riusciranno a colmare il desiderio intimo dell’uomo. E a questo punto, si potrebbe sostenere: meglio i palliativi; secondo quell’adagio popolare che recita: “chi pensa poco, vive meglio”, anche se c’è il rischio grave di non sapere e di non chiedersi come si vive, perché si vive, per chi si vive. E quantomeno questo, è sufficiente all’esistenza della filosofia, del suo porsi come sentinella acuta che, grazie alla speculazione critica, veglia sulla libertà e sulla giustizia, perché rispetto a queste fondamentali dimensioni della vita umana e sociale sa farsi “carne e sangue”, sa guardare lontano, sopra i limiti di larga parte degli esseri umani; limiti che scaturiscono dalla mancanza di opportunità, dalla costrizione dentro contingenze e necessità, oppure per superficialità e per facile acquiescenza a collaudati sistemi di manipolazione delle coscienze. Questo spetta sempre alla filosofia, perché il suo atto costitutivo, per così dire, è la ricerca della verità. Una ricerca che ha stretta parentela anche con i destini ultimi dell’esistenza umana, ed è qui che i filosofi o, quantomeno, molti tra i filosofi moderni e contemporanei consegnano solo il loro dolore. È un dolore che suscita un rispetto alto, ma non è dato di sapere se il pensiero di un abbandono senza vie d’uscita, basterà all’esistenza di chi cerca, di chi invoca domande di verità.

Dopo questo tentativo, senz’altro insufficiente, di interfacciare alcuni filosofi sulle questioni fondamentali dell’esistenza umana, riprendiamo il nostro sguardo sull’uomo come essere simbolico. Sin dalle origini la capacità simbolica dell’uomo si esprime nelle tensioni e