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CAPITOLO TERZO

3.4 Verso il dio impersonale

Gli anni Sessanta del Novecento, a partire ancora dalla leva della società americana, specie nell’alveo del protestantesimo liberal, segnano un’impennata sul movimento di distacco, se non di effettiva eclissi del Dio personale. Sin dall’immediato dopoguerra la situazione sociale ed economica degli Stati Uniti, sembra orientata a condizioni di prosperità, pure dibattendosi tra alcune contraddizioni che, del resto, accompagnano sempre le società umane, anche nei momenti più floridi, giacché sono il risultato di pattuizioni tra esseri finiti e imperfetti. Anche la dimensione religiosa, in genere riferita a tutte le confessioni cristiane presenti nel grande Paese d’oltreoceano, gode di consensi favorevoli e buona influenza sociale, svolgendo, sempre secondo il Nostro, una funzione durkheimiana:

se pensiamo al modo in cui il radicamento neodurkheimiano della religione entro uno Stato, e il suo ruolo come pilastro di una morale civilizzata, specialmente nella sua etica sessuale, si intersecano nella famiglia; il caso più noto di questo radicamento è quello degli Stati Uniti, soprattutto nell’immediato dopoguerra, perché in quel periodo il patriottismo americano, la religione e il senso dei valori familiari sembravano essersi saldati in un blocco perfetto. Da un lato, le nuove opportunità per un ampio segmento della popolazione di vivere appieno la vita della famiglia nucleare nelle nuove zone residenziali apparivano come una realizzazione del sogno americano. L’America era tutta qua: nello schiudersi di questo tipo di opportunità, in cui alla fine tutti avrebbero potuto prosperare. […] Alcuni, specialmente immigrati recenti, avevano un passato di profondo inserimento entro famiglie allargate e vaste reti parentali, rispetto alle quali questa nuova vita non poteva non apparire come una liberazione, che per di più allineava le loro vite ad un modello consacrato nella società americana del tempo116.

Insomma, la possibilità di acquisire rispettabilità secondo i canoni della cultura dominante, segnando l’uscita dalla miseria materiale con tutte le sue derive (delinquenza, alcol, ecc.), specie dopo periodi di grave depressione economica e una guerra mondiale, lasciava immaginare un futuro radioso.

Se questo tipo di prosperità è stato centrale nello stile di vita americano, altrettanto può dirsi della religione. Tale stile di vita poteva apparire come conforme al disegno divino, e l’America come la nazione fondata per la sua realizzazione. I tre lati di questo triangolo si sostenevano reciprocamente: la famiglia era la matrice in cui i giovani venivano allevati affinché fossero buoni cittadini e fedeli credenti; la religione era la fonte dei valori che

animavano sia la famiglia sia la società; e lo stato era la realizzazione e il bastione dei valori essenziali sia per la famiglia sia per le Chiese. E ciò veniva ulteriormente sottolineato dal fatto che la libertà americana aveva bisogno di difendersi dal “comunismo ateo”. […] Lo stretto intreccio tra famiglia, religione e stato è tanto più notevole in quanto, benché nessuno allora lo sapesse, stava per subire un simultaneo assalto in tutte le sue parti costitutive. Gli storici meno simpatetici lo hanno descritto addirittura come “l’orgia conclusiva della moderna famiglia nucleare”. La bontà immacolata dell’American way of life venne messa in discussione nella lotta per l’emancipazione razziale e nelle dolorose polemiche sulla guerra in Vietnam; l’immagine positiva della famiglia nucleare fu criticata dal femminismo, dalla nuova cultura espressiva e dalla rivoluzione sessuale degli anni sessanta, e in quel decennio turbolento, venne esplicitamente ripudiata la blanda religione del conformismo americano117.

Al riguardo è opportuno chiarire che il triangolo sostenuto dalla famiglia nucleare orientata al conformismo garantito dai lati della religione e dello stato, si esprimeva in particolare nell’ambito dell’area conservatrice del protestantismo, in quella cattolica e, sempre con particolare riguardo alle questioni morali – sessualità in testa – in quella ebraica, senza dimenticare che, all’epoca, cattolicesimo ed ebraismo erano assai minoritari. Diventa indispensabile a questo punto, tentare di cogliere le cause del distacco dalla religione tradizionale fino all’attuale – e pressoché completo – oscuramento del Dio personale, nonché della diffusione, potremmo dire a livello planetario ma senza dubbio per quanto riguarda i primi mondi, di ben’altre orge e di un modo tutt’altro che nuovo di considerare il corpo, anche se così è stato “cantato”, e volendo, proprio anche cantato senza virgolette. Accanto alle questioni sociali summenzionate e ben conosciute, bisogna ricordare che quegli anni segnano un ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro, quindi con minor tempo, in potenza, da dedicare alla eventuale famiglia e, anche per le donne, la possibilità di vivere una maggiore socialità pubblica con tutto ciò che ne consegue sul piano delle relazioni e, non secondaria, l’introduzione di nuovi metodi anticoncezionali. Il mutamento etico occorso, e ormai fatto proprio da pressoché tutta l’umanità occidentale, poggia su precisi pilastri e chiare “rivendicazioni”, che vedremo di recuperare tra poco con la precisione analitica di Charles Taylor. La traiettoria di tale mutamento etico che, in pochissimo tempo raggiunse la “madre” Europa, si nutre delle questioni sociali indicate e ha la sua radice, non proprio in tutta l’America ma in particolare nelle città; anzi, soprattutto nella città: New York. I giovani della East Coast si battono contro il perbenismo conservatore (che in vero spesso tracimava molte contraddizioni, anche riguardo alla sessualità familiare) contro la guerra in Vietnam e in

favore dei diritti degli afroamericani a suon di musica, di vagheggiata vita on the road di cui abbonda la letteratura della cosiddetta Beat generation e, soprattutto, innalzando la bandiera della rivoluzione sessuale. Faceva eco, anche se con toni meno impegnati la West Coast, con i suoi movimenti hippies, con le loro comunità assolutamente anticonformiste che, per qualche verso riverberavano elementi della comunità platonica e, dove, il rifiuto della società si marcava soprattutto nel consumo di droghe, specie marijuana; non che questo fosse assente nella Beat generation, anzi, il consumo di droga diviene l’atto rituale e celebrativo che, proprio attraverso la trasgressione segna la separazione e il rifiuto della società tradizionale che si reggeva sul “triangolo” famiglia, religione, patria o stato. Da allora, musica rock, con varianti definiti tècno o metal e consumo di droga sono divenuti il momento forte di ogni “cerimonia” di trasgressione che, oggidì, assume spesso i connotati dei cosiddetti rave party o di feste private, dove, ovviamente, il tutto culmina quasi sempre nelle espressioni della più libera genitalità.

Ciò che di solito non viene richiamato dalla storiografia ufficiale né dalla narrativa sull’epoca è che a quest’ “altra America” corrispondeva però un’altra America, sempre di giovani. Erano i giovani di quella che alcuni osservatori chiamano “l’America vera”, quella dei paesi e dei piccoli centri dell’entroterra, più fedeli alla tradizione o, se volete, a quel triangolo di cui parla Taylor; se pensiamo all’espressione musicale, forse il veicolo privilegiato della contestazione, questi ad esempio, continuavano a preferire la musica popolare, il folk, al rock dei contestatori. Un’America lontana dai riflettori e poco interessante per i grandi media della città. Di fatto, una tessera sicuramente maggioritaria ma poco rilevante. E, in effetti, l’immagine che tutti abbiamo di quegli anni – anche se non li abbiamo vissuti – è quella dei concerti , dei sitting e della libertà sessuale così come ci è stata recapitata in Europa. Con una differenza che, spesso è trascurata, ma non è di poco conto. Le avanguardie europee che recuperano queste nuove tensioni o espressività d’oltreoceano, le caricheranno di significati politici, spesso vicini alle ideologie del socialismo reale o ai movimenti anarchici; ciò che culminerà nel cosiddetto “sessantotto” europeo che, a differenza dei movimenti americani si proponeva un mutamento soprattutto politico e geopolitico, prima che di costume e di cultura. Per i giovani americani il mutamento è di matrice etico-civile, per i coetanei europei assume, invece, in particolare, le tinte della rivendicazione politico-conflittualista. Il cambiamento nei costumi, in ogni caso, mantiene una dimensione di comprimarietà, che condurrà, come nel caso americano ad un allontanamento dalla religione ortodossa – sempre per usare i termini tayloriani – un distacco dal Dio personale, dal Dio cristiano, anzi, dal Dio “cattolico”. Si tratta di un cambiamento alimentato da istanze che si inquadrano in precisi filoni di pensiero e

di prassi. Il filosofo canadese ne individua quattro principali: un radicale abbandono della denigrazione della sessualità, così come si poneva nel ceto medio bianco e la riabilitazione della stessa come un bene in sé; l’affermazione della parità dei sessi e di un nuovo ideale di coppia in cui uomini e donne vivono insieme liberi dai rispettivi ruoli di genere; una diffusa percezione dell’effetto liberatorio del dionisiaco e perfino del sesso trasgressivo; una concezione della sessualità come componente essenziale della identità personale che è divenuta anche la base per la liberazione degli omosessuali e di un gran numero di forme di vita sessuale prima ostracizzate. Non manca nemmeno un filone di impronta edonista legato a “Playboy”. La rivoluzione fu parte integrante, o forse la parte integrante degli anni sessanta, orientata all’uguaglianza e alla riabilitazione del corpo e della sessualità, al superamento delle divisioni tra mente e corpo, ragione e sentimento118. Ma tutto ciò bastò a basta a rendere una

umanità, una gioventù fatta di eguali e di felici? Un ideale così articolato non garantiva però la realizzazione degli obiettivi di questa rivoluzione culturale. «Le dolorose discontinuità e i dilemmi che assillano la vita sessuale umana, e che la maggioranza delle etiche tende a ignorare o a sottovalutare, non potevano non far sentire la loro presenza: l’impossibilità di integrare il dionisiaco entro uno stile di vita stabile, la difficoltà di contenere la sensualità all’interno di un rapporto davvero intimo, l’impossibilità di sfuggire completamente ai ruoli di genere, e i grandi ostacoli a una loro ridefinizione, almeno sul breve periodo. Per tacere del fatto che la celebrazione del godimento sessuale poteva creare nuovi modelli di reificazione e sfruttamento maschile delle donne. Furono effettivamente in molti a scoprire a proprie spese che dietro l’abbandono dei codici dei propri genitori si nascondevano anche pericoli, e non solo liberazione»119. E fu così. Ed è così. Non è possibile immaginare qualcosa di duraturo se

si esclude o, meglio, se il Dio personale, che non si rivolge solo alla corporeità, non viene considerato, anzi, viene sostituito dal dionisiaco. A ben guardare, la grande rivoluzione etica di quegli anni trova il suo compimento nella nostra contemporaneità che vede l’identità sessuata in preda al più ingovernabile arbitrio. Ciò che avrebbe dovuto dar valore alle differenze cade trappola delle più disparate e diversificate percezioni dei singoli, ridotti solo a unità corporee da consumo e da consumarsi; consumo di prodotti e consumo di persone, specie attraverso una diffusa esibizione mediatica che, oltre a celebrare un’ubriacatura edonistica di pessimo gusto ha letteralmente demolito – anche – tutti i celebrati auspici del movimento femminista di quegli anni, dato che – è noto a tutti – l’esito dello sfruttamento- svilimento del corpo della donna, proprio oggi. Uno svilimento che dalle variegate forme di

118 Cfr. C. Taylor, L’età secolare, cit., pp,631-632. 119 C. Taylor, L’età secolare, cit., p.632.

vita sessuale (potremmo dire pure perversioni) tracima nelle peggiori violenze fino alla ri- emersione del femminicidio. Anche le femministe degli anni sessanta e settanta in America e in Europa, si erano preoccupate, soprattutto, di liberare il corpo, richiamando l’attenzione e, a volte anche i pruriti dell’opinione pubblica, esclusivamente sul corpo della donna, la donna come corpo, vale dire solo femmina, cioè la pura animalità, anche se stavolta non chiamata alla riproduzione ma alla liberazione del sé – o del presunto sé – attraverso l’appagamento sessuale o, meglio, genitale, visto che la sessualità come tale non implicherebbe solo il consumo di corpi. Sì, si avanzavano, in pari tempo istanze di emancipazione, di eguaglianza tra i sessi, di sovrapposizione dei ruoli ma, questo, a meno che non si voglia sposare l’ipocrisia ideologica, è passato davvero in secondo piano. E certamente, è stato l’esito di una rivoluzione fondata su un’ontologia umana forgiata al e dal materialismo. Sia per le donne sia per gli uomini, ma con evidente beneficio – se così si può dire, nello sforzo di adeguarci a questa ontologia animale – solo per i secondi. Si potrebbe definire con uno slogan: dalla rivoluzione femminista alla beffa della donna. Fu la base per un mutamento di valori, costumi e consumi che andò di pari passo e che si travasò, pure con qualche ritardo, dovuto senz’altro ad una maggiore impermeabilità della cultura cattolica, anche nella vecchia Europa, culla degli Stati Uniti che, specie oggi, restituiscono i loro frutti. Buoni o cattivi, dipende dalle prospettive, anche se l’aver ridotto l’humanum a mera corporeità animale, forse con un po’ di mente o di mentalismo, non pare far molto onore alla fatica per la civiltà. Non si pensi a questa, come alla considerazione dei tradizionalisti che non accettano la sconfitta del tempo e degli eventi. Peraltro, la tradizione piantata sulla religione di chiesa o sulle religioni di chiesa ha serie colpe a proposito della rivoluzione sessuale ed espressiva in questione, come ricorderà puntualmente lo stesso Taylor e, a nostro parere, la colpa più grave è quella di non aver saputo adeguatamente comunicare la corporeità e con la corporeità del Dio personale, a cominciare dal metodo, che non fu certamente improntato alla proposta ma all’imposizione. E, tosto o tardi, gli esseri umani, se possono, si ribellano ad ogni imposizione che non sia accettata o gradita. Altri e illustri osservatori commentarono l’illusione di quegli anni e l’esito paradossale che ne scaturì, in modo speciale se non si dimentica che quel periodo segna anche la nascita di un fenomeno nuovo per la società industriale avanzata, vale a dire la società di massa, massa di consumatori, come si è già ricordato. Al riguardo, diventa obbligatorio richiamare gli studi e l’interpretazione della Scuola di Francoforte, una importante tradizione di filosofi sociali che guadagnò uno spazio significativo nella sociologia contemporanea.

L’accortezza dei francofortesi fu quella di cogliere come, contrariamente alle apparenze, la società di massa non significhi di per sé una riduzione del dominio esercitato dai detentori del potere economico o politico su tutti gli altri. La novità introdotta, sta piuttosto nel fatto che tale dominio non si limita alla sola dimensione lavorativa dell’esistenza (sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti), ma permea la vita individuale in tutti i suoi momenti incluso il tempo libero. La libertà individuale, che in apparenza nella società contemporanea sembra aumentare, si rivela una mera finzione: nelle democrazie occidentali ci sembra di essere sempre più liberi nelle nostre scelte, invece siamo sempre più soggetti a strumenti di dominio e a rapporti di coercizione, esplicitati dall’industria culturale in genere, e di cui non ci si rende conto. La società di massa è vista in definitiva, come uno strumento per facilitare l’esercizio del potere da parte della classe dominante sull’intera società. La teoria critica si caratterizza per un forte intreccio metodologico fra ricerca sociale, filosofia e psicanalisi.

In sostanza la critica dei francofortesi si sviluppa su tre livelli. La critica al positivismo e all’illuminismo: nella Dialettica dell’Illuminismo120, Adorno e Horkheimer criticano sia il

positivismo di Comte, specie in ordine al concetto e alla funzione della filosofia che, essi sostengono, non può mai essere positiva; la filosofia è semmai negativa, nel senso che nega l’evidente, cioè non si accontenta di ciò che è immediatamente dato ma, come sappiamo, cerca l’essenza dei fenomeni. Inoltre se la scienza positivista dà spiegazione di tutto, non si capisce a cosa possa servire la filosofia; evidenziano così la contraddizione di Comte. La critica dell’età contemporanea, poi, interessa anche l’illuminismo. Essi affermano che il potere economico e politico non si limita più principalmente allo sfruttamento della forza- lavoro ma permea qualsiasi momento della vita degli individui, compreso il tempo libero. Nella società di massa la totale riduzione dell’individuo entro uno schema sociale prestabilito e finalizzato al dominio delle coscienza, rende la stessa libertà individuale, pure proclamata come inviolabile, e gonfiata dai venti della rivoluzione sessuale-espressiva, una pura finzione. Anche le variazioni di opinione tra individui sono preordinate nei loro contenuti e nei loro limiti. L’illuminismo aveva avuto lo scopo di liberare l’uomo dal mito, ma lo ha poi chiuso in una logica formale e immutabile, correlata alla logica meccanica e disumana della organizzazione economica capitalista, finalizzata al dominio di cose e uomini reificati, ridotti cioè a cose. E’ un orientamento che risente delle influenza di Lukàcs e della critica nord- americana. Interessa una tematica sociale, sempre «sotto osservazione».

Al secondo livello la critica riguarda la società politicamente bloccata, la Blockierte Gesellschaft, sia nelle società occidentali, dove il “reggimento” della struttura capitalistica fa sì che, garantita l’alternanza di governo le politiche non mutino di segno, sia nella società collettivista dell’Est Europeo che avrebbe dovuto “liberare l’umanità”. Una disillusione che si avverte in queste righe di Marcuse: «Se lo stravolgimento della condizione dell’uomo operata dal capitalismo è così radicale, altrettanto radicale dovrà esserne l’abolizione. La rivoluzione che Marx preconizzava non dovrà essere solo politica e neppure riguardante la sola sfera della produzione: dovrà essere una rivoluzione totale». Ma chi è il soggetto di questa rivoluzione, si chiede Jedlowski? Nel corso degli anni Trenta, la fiducia marxista dei membri dell’Istituto nella classe operaia scema drasticamente. Del resto (per quanto dapprima il tema sia affrontato solo implicitamente e con una certa reticenza) l’esperienza del totalitarismo stalinista rende sempre più difficile identificare la rivoluzione di cui parla Marx con il “comunismo”. La critica della Scuola di Francoforte diventa d’ora in avanti una critica senza soggetto: allontanandosi sempre di più dal marxismo, non intende se stessa come espressione degli interessi di una classe, bensì come un richiamo costante – contemporaneamente e paradossalmente disperato e fondato solo sulla speranza – alle possibilità di emancipazione di cui si conserva il ricordo. Come scriveranno Adorno e Horkheimer, “è un messaggio nella bottiglia”.121

Il terzo livello di critica, tocca l’industria culturale di massa e il suo operare per produrre una cultura di massa omologante e individualistica: de-personalizzata. In questo senso anche l’ultima enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi, ha fatto riferimento ai francofortesi. Al riguardo si propongono due brani tratti da opere di Adorno e Marcuse. Nel secondo filosofo tedesco, in particolare, emerge la singolarità di applicazione di alcune categorie della psicanalisi freudiana, per spiegare il «controllo delle coscienze» operato sapientemente attraverso collaudati codici di coinvolgimento sociali, posti in atto dai sempre più sofisticati strumenti del comunicare a disposizione dell’industria culturale. Scrive Adorno in Minima moralia (sottotitolo:Meditazioni della vita offesa): «Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale di produzione, senza autonomia e senza sostanza propria […] ma il rapporto tra vita e produzione, che abbassa la prima, nella realtà, ad una manifestazione effimera della seconda, è perfettamente assurdo. Mezzo e fine sono invertiti. Il sospetto di questo assurdo qui pro quo non è ancora del tutto cancellato dalla

121 P. Jedlowki, Il mondo in questione, cit.,pp.188-191. Per questa sintesi sul pensiero dei “francofortesi”, vedi

vita»122. Anche da queste riflessioni, prende linfa oggi l’impegno degli economisti-umanisti,

per trasformare la vita economica in quello che dovrebbe essere, cioè in mezzo, non in fine. Anche se non sarà facile trasformare le logiche finanziarie globali. Herbert Marcuse, nell’Uomo a una dimensione, pubblicato negli Stati Uniti nel 1964, tradotto in Europa nel ’67 e ’68, un testo che per molti delle avanguardie di quegli anni divenne una sorta di “bibbia” del sessantotto europeo e, comunque, che si distingue nella letteratura sull’epoca, scende ancor