CAPITOLO SECONDO
2.4 Scienza e teologia
Si può pensare di ridurre la diffusività di quella che riteniamo di poter definire dittatura culturale di una certa tecno-economia asservita a egoismi ormai sedimentati che pretendono l’investitura del diritto? Max Weber chiude il saggio che ha ispirato la nostra riflessione con un paragrafo che titola: Scienza e teologia: i profeti della cattedra e il sacrificio dell’intelletto, che tenteremo di parafrasare per evidenziare la soluzione proposta dal grande pensatore tedesco, e che non potrà risolversi nell’elogio dello scientismo. Credo si possa affermare che il filosofo e sociologo tedesco voglia dirci che i presupposti che guidano l’agire umano e quindi anche l’agire tecno-scientifico, nonché la trasmissione del sapere, dato che in primis si rivolge a studenti e a docenti universitari, abbiano una cittadinanza differente da quella tecnica, e che il primo fine non sia quello di realizzare prospettive utilitaristiche o particolaristiche ma il Bene comune, almeno come tensione ideale.
E se in voi dovesse risorgere Tolstoj chiedendo: «se non lo fa la scienza, chi ci dice che dobbiamo fare e come dobbiamo regolare la nostra vita?», oppure nei termini che abbiamo utilizzato questa sera: chi ci dice al servizio di quale degli dèi in lotta dobbiamo porci? O forse di un altro ancora? E di quale mai? Risponderemo allora: solo un profeta o un redentore. Se il redentore non c’è o se il suo annuncio non viene più creduto, non riuscirete certo a farlo scendere in terra per il solo fatto che migliaia di professori nelle loro aule, come migliaia di profetucoli benestanti o posti al soldo dello Stato, cercano di rubargli il mestiere. […] Io credo che usare un surrogato, come lo sono tutti questi profeti della cattedra, per celare il fatto fondamentale che il nostro destino è di vivere in un’epoca estranea a dio e senza profeti, mai e poi mai possa tornare utile all’intimo interesse di un uomo realmente religiosamente «intonato». Mi sembra che l’onestà della sua sensibilità religiosa dovrebbe ribellarvisi. A questo punto sarete indotti a chiedervi: come si spiega il fatto dell’esistenza della «teologia» e della sua pretesa di essere una «scienza»? […] Tutta la teologia non è altro razionalizzazione intellettuale del patrimonium salutis. Nessuna scienza è assolutamente priva di presupposti, e nessuna può dimostrare la propria validità a chi ne rifiutasse i presupposti. Ma ogni teologia introduce ancora per la sua attività, e quindi per la giustificazione della sua propria esistenza, alcuni presupposti specifici e lo fa in un’ottica e con un’intensità che sono differenti. […] I presupposti in quanto tali stanno dunque per la teologia al di là della scienza. Non sono un sapere nel senso abituale del termine, ma un avere. Se uno non li ha, se non ha la fede o gli altri stati di Grazia, nessuna teologia potrà procurarglieli. Né, a maggior ragione, alcun altra disciplina scientifica. Al contrario, in ogni teologia positiva il credente giunge al punto in cui
vale la massima agostiniana: credo non quod, sed quia absurdum est. Questa virtù del sacrificio dell’intelletto è il carattere peculiare del credente, e questo fatto dimostra che nonostante (o forse grazie a) la teologia (da cui esso è rivelato), la tensione tra la sfera dei valori della scienza e quella dei valori della salvezza religiosa resta insanabile. […] Fa parte del destino del nostro tempo, con la sua peculiare razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i più alti e sublimi valori si siano ritirati dalla sfera pubblica per rifugiarsi vuoi nel regno extramondano della vita mistica, vuoi nel senso di fratellanza proprio dei rapporti interpersonali diretti68.
Questa sintesi sulle ultime pagine della famosa conferenza-saggio, offre alcuni momenti cruciali anche per la nostra contemporaneità: l’irriducibilità della frattura tra scienza e fede, come l’indiretta invocazione alla possibilità-necessità del dialogo tra fede e ragione, che trova solo rari pertugi negli ambiti della relazione feconda tra la curiosità filosofica e le istanze teologiche, ma che quasi sempre rimane roba da specialisti; così come la privatizzazione del credere – uno degli effetti più evidenti della secolarizzazione – e di cui si dirà meglio in altra parte del nostro lavoro e, infine, la questione della responsabilità personale sia nella trasmissione del sapere sia nelle scelte bioetiche e biopolitiche che hanno chiara matrice scientifica e definizione-definibilità tecnologica. Poiché appare chiaro che, la risoluzione di problemi e le risposte cui si deve riconoscenza sia alla scienza sia alle ultramoderne tecnologie, non solo lasciano invariata la domanda o le domande sul senso ultimo dell’umano esistere ma, non hanno reso nemmeno le relazioni umane più compassionevoli né gli esseri umani più felici. Ciò che Maximilian Weber sembra additare con una evidente nostalgia del mondo “incantato” è la mancanza di quella che vorremmo chiamare etica della vocazione, un sentire dell’essere che evidenzia la necessità della responsabilità personale sia per gli uomini di scienza sia per gli uomini di cultura, specie se chiamati alla trasmissione del sapere e dei valori alle nuove generazioni. Una carenza che appare difficile da “misurare” ma che tutti sentiamo essere vera, in particolare modo in certi ambiti della formazione delle giovani generazioni; al riguardo, in altra parte si darà conto di questa affermazione che trova particolare legame col processo di secolarizzazione, per come lo si vorrà intendere qui. Anche oggi, insomma, sia per gli uomini di scienza sia per i tecnologi sia per i docenti, vale il ricordo della propria ignoranza. Non solo perché in ordine alla conoscenza del mondo tutti muoiono ignoranti, e questa e un’ovvietà, quanto perché il sapere prodotto dall’uomo non è mai onnipotente, nemmeno in potenza, ancor più se l’uomo
non tiene conto del fine della conoscenza, che non è mai un fine materiale, perché se fosse tale, sarebbe comunque limitato, superabile e perfettibile. È necessaria perciò l’onesta intellettuale che permette di riconoscere che ognuno è responsabile della propria ignoranza, perché questa produce le ragioni proprie per fare il male; ognuno cioè è responsabile di quella ignoranza che non gli consente di fare il bene, inteso non come il bene per i propri amici ma, idealmente, il Bene per l’humanum in sé, per l’umanità. E questo fine, almeno in Occidente, ha le sue corde nella tradizione di scienza e sapienza ellenico-cristiana69. Ecco perché il
disincantamento del mondo, ancor più oggi, a un secolo dalla lezione di Max Weber, racconta tristi e disumane derive.
«Ma questa stessa onestà intellettuale ci impone di dire che la situazione attuale di tutti coloro che attendono nuovi profeti e nuovi redentori è la medesima che viene descritta nel bellissimo canto della sentinella di Edom, poi raccolto tra gli oracoli di Isaia: “Mi gridano da Seir: Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare tornate un’altra volta”. Il popolo a cui fu data questa risposta ha domandato e atteso per ben più di duemila anni, e ne conosciamo il triste destino. Morale: desiderare e attendere non basta. Noi faremo diversamente, ci metteremo al lavoro e risponderemo alla sfida che ogni nuovo giorno ci lancia sia come uomini sia come professionisti. È una cosa facile e immediata, purché si sia riconosciuto e dato ascolto al demone che tira le fila della propria vita»70.
69 Al riguardo vedi anche T. D’Aquino, La Somma Teologica, Vol.2, Seconda Parte, I, ESD, Bologna, 2014. 70 M. Weber, La scienza come professione, cit., pp. 131-133.