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Definire il diritto.

LA SCIENZA DELLA SOVRANITA’ E I DIRITTI NATURAL

3. Definire il diritto.

La necessità di definire che cosa sia una legge, determinando in questo modo la provincia del diritto e della giurisprudenza espositoria, è il punto di partenza del Fragment on Government. Il problema parrebbe astratto e distante dal contesto storico nel quale intendiamo inserirlo, se non fosse che proprio Bentham ricorda all’amico John Lind che spesso le decisioni su questioni di primaria importanza dipendono dal significato attribuito alle parole, e la sfortunata disputa imperiale ne dà un chiaro esempio:

‘Tis from a particular construction put upon the word liberty and a few others that the popular divine whom you combat with so much force has inferred the impropriety of waging the war against America: with a degree of justice equal to that with which as it seems to you he might have inferred the propriety of a war of the governed of every other country that is or has been upon their governors. It is from /by/ a different construction that you support the propriety of the war in question145.

Una presa di posizione politica nel seno della controversia può dunque dipendere dalla particolare costruzione delle parole. La dimensione del linguaggio è talmente importante, per Bentham, da spingerlo ad affermare che «war against America» si sarebbe potuta evitare se lui avesse completato

144 Cfr, Ivi, p. 208.

in tempo il suo dizionario di termini morali e giuridici146. Non è quindi

azzardato guardare in questa prospettiva politica al Fragment, che Bentham considera una «war of words», una logomachia147 che si combatte in primo

luogo intorno alla necessità di definire il termine legge, distinguendo così tra quegli oggetti reali e immaginari «that are in use to be mentioned under the common name of LAW»148. Nel seno del conflitto imperiale, come si è visto, la

questione non è di poco conto. Sin dal principio gli americani adottano come quadro giuridico di riferimento una costituzione britannica che comprende la legge di natura, invocata con un valore pari a quello degli statuti, della consuetudine e delle charters istitutive delle colonie. Si tratta di un’incorporazione che mette in questione la legittimità del potere politico del parlamento e del suo esercizio, affermando una logica della quale Bentham denuncia il potenziale anarchico. A questo egli risponde con una proposta metodologica che nelle pagine introduttive del Fragment si pone come una soluzione ormai data: sin dal principio è resa esplicita la necessità di distinguere ciò che la legge è da ciò che deve essere e la scelta di annoverare nell’ambito del diritto solo la legge positiva; relegata al campo dell’immaginario, la legge di natura è “eliminata” dall’ambito del diritto. Ripercorrere la genesi della proposta di Bentham è dunque importante per motivare in termini politici il suo positivismo. A questo scopo, sarà opportuno guardare al Comment on the Commentaries dove ampio spazio è dedicato al problema della definizione del termine legge come pure alla critica della law of nature149.

Come si è visto, Bentham dà indicazioni precise rispetto alla fonte della sua riflessione, quella teoria dei modi misti illustrata nell’Essay on Human

146 J. Bentham, Hey, Ucl lxix, pp. 145-6, 156-7, 160-1, 177.

147 Afferma Bentham nelle conclusioni del Fragment: «I now put an end to the tedious and intricate

war of words […] a logomachy, wearisome enough, perhaps, and insipid to the reader, but beyond description laborious and irksome to the writer. What remedy? Had there been sense, I should have attached myself to the sense: finding nothing but words; to the words I was to attach myself, or to nothing. Had the doctrine been but false, the task of exposing it would have been comparatively an easy one: but it was what is worse, unmeaning; and thence it came to require all these pains which I have been here bestowing on it» (J. Bentham, Fragment, cit., p. 500).

148 Ivi, p. 422.

149 Nel capitolo intitolato On the Nature of Laws in General, una sezione è dedicata esclusivamente

alla law of nature (J. Bentham, Comment, cit., pp. 10-21). Si tratta, avvisano i curatori del volume, della seconda di due versioni (il riferimento è ai manoscritti Ucl, xcvi 54-7 e xxviii 39-45) che appare più completa della prima e che per tale ragione è stata privilegiata nella composizione del volume. La prima – in ordine temporale – è stata comunque inserita nell’Appendice B (Ivi, pp. 288-295). Il problema non si limita tuttavia a queste sezioni. La critica alla teologia naturale, infatti, trova spazio anche nella sezione intitolata Divine Law (Ivi, pp. 21-28) la cui prima versione (Ucl, xcvi 57-59), incompleta, è riportata nella Appendice C (Ivi, pp. 296-301). Infine, il rapporto tra Legge di natura, divina e municipale, trova un proprio spazio nella quarta sezione (Connection of Laws Natural, Divine and Municipal, Ivi, pp. 28-33). Per un approfondimento dei criteri redazionali adottati si veda J.H. Burns, H.L.A. Hart, Introduction, cit., in particolare, p. xxxviii e sgg.).

Understanding il cui empirismo consente a Locke di stabilire se ciò di cui si

parla abbia carattere reale o meramente immaginario. Nelle pagine dedicate alla definizione di legge che aprono il Comment on the Commentaries, i termini della riflessione lockeana sono ripresi integralmente: Bentham afferma infatti che una definizione serve in primo luogo a comunicare «to our apprehension some idea as signified by the word defined» consentendoci di distinguere l’idea, il significato di una determinata parola, da ogni altra idea che possa essere espressa con un’altra parola. Tale finalità può essere soddisfatta solo

by referring the thing in question to an assemblage of objects known to us already in some measure by means of other articles with which we are already become familiar. Such an assemblage or the name of such an assemblage, is what logicians call genus150.

Mutuando dalla logica aristotelica il metodo di definizione per genus et

differentiam, Bentham chiarisce che il primo termine individua una serie di

qualità possedute da ciascuno dei singoli elementi che compongono un determinato insieme, mentre il secondo indica una qualità, o un insieme di qualità, posseduti da uno solo degli elementi di quell’insieme e non da un altro. La definizione è in grado di soddisfare la sua funzione comunicativa solo in quanto si esprime attraverso termini che siano già in qualche modo famigliari a chi di tale comunicazione è il destinatario, deve suscitare, cioè, un’“esperienza cognitiva”. Perché ciò avvenga, è necessario che l’insieme di oggetti indicati dal nome generico esistano; in tal caso, essi saranno riconducibili a una delle tre classi cui appartiene qualunque cosa che abbia esistenza: sostanze, modi di sostanze e qualità di sostanze151. Secondo

Bentham, la definizione fornita da Blackstone, per cui la legge sarebbe «that rule of action, which is prescribed by some superior, and which the inferior is bound to obey»152 non risponde a nessuno di questi criteri. L’idea di «rule of

action», che si presume essere la parte della definizione riferita al genus, non suggerisce infatti alcun riferimento alle classi elencate153, e introduce in

150 J. Bentham, Comment, cit., p. 3. Corsivo mio.

151 «The assemblage of objects marked out by the generic name must, as we have said, be such an

one the whole of which we are in some measure acquainted with. For us to be acquainted with it, it must in the first place exist, for it to exist, it must belong to one or other of the only three classes to one or other of which every thing that has existence is reducible, substances themselves, modes of substances and qualities of substances. For us to be acquainted with it then, it must belong to some one or other of these three classes, and we must be able to say which of them it does belong to» (Ivi, p. 5).

152 Ivi, p. 38.

153 «As to myself I know that it is not from hearing pronounced the word ‘rule of action’ that I can

obtain any conception of any class of objects at all, and it is then only that I begin to have some confused conception, when I understand that the term is applied to objects of that class which is signified by the term law. If this be the case with other people, so far then is the definition from

questo modo un “veleno” nella scienza che Bentham intende “purgare” con una definizione adeguata154:

What then is a Law? It is an assemblage of words. Of any words then? No: but of such words alone as are signs of, as serve to express, we may say, a volition. What is a volition? It is an operation of the mind: it is a mode of that sort of substance which we call animal155.

Molto spazio è dedicato a dimostrare che questa definizione corrisponde ai criteri generali precedentemente postulati: Bentham distingue tra parole parlate e scritte come espressioni, rispettivamente, di suoni (da intendersi come vibrazioni, modi dei nostri organi – parti della nostra sostanza – eccitati dalle vibrazioni – modi – della sostanza chiamata aria) o di figure (ovvero la situazione – il modo – delle parti di una certa sostanza in relazione tra loro)156, secondo una logica che continua a rimandare alla sostanza come unico

possibile oggetto di esperienza sensibile. Anticipando alcuni dei temi fondamentali della sua theory of fictions157, Bentham chiarisce che solo

contributing to render intelligible the word defined that it is to that word itself that it owes all the intelligibility it possess» (Ivi, p. 5).

154 «To purge the science of the poison introduced into it by him and those who write as he does, I

know but one remedy; and that is by Definition, perpetual and regular definition, the grand prescription of those great physicians of the mind, Helvetius and before him Locke. Useful and legitimate definition which (not like his) explains terms less familiar by terms more familiar, terms more abstract by terms less abstract, terms with a large assemblage of simple ideas belonging to them, by terms with an assemblage less extensive» (Ivi, p. 346).

155 Ivi, p. 7. Quello che è interessante notare, considerando che la definizione benthamiana di legge

emerge proprio dalla critica al giusnaturalismo, è che «the thesis that a body of law is a collection of expressions of will was certainly not new. On the contrary, it represented the common opinion among writers on what we call legal philosophy or legal theory, but what was then called natural law. Both Grotius and Pufendorf regarded human law as expressions of the will of the sovereign (the potestas civilis) and so did Hobbes» (K. Olivecrona, The Will of the Sovereign, cit., p. 10).

156 «It is, we have said, an assemblage of words: words are either spoken or written. Words spoken

are sounds: sounds are certain vibrations (i.e. motions) of our organs, parts of the substance called the air. Motions are modes: sounds therefore are modes: words spoken therefore are modes […] written words […] are assemblages of the parts of some substance or other disposed in a particular figure. The figure of a substance is the situation of the parts of that substance with respect to one another: situation of a substance is a mode of that substance. Words written, then, if we consider them only as being the figures into which the parts of the substance in question are disposed, are substances» (J. Bentham, Comment, cit., p. 7).

157 Le opera di riferimento sono, a questo riguardo, J. Bentham, Essay on Logic, in Id., Works, cit., vol.

viii; Id., A Fragment on Ontology, in Works, cit., vol. viii; Chrestomathia, in Works, cit., vol. iii; Id., Essay on Language, in Works, cit., vol. viii. Una raccolta dei testi più significativi si trova nel classico C.K. Ogden, Bentham s Theory of Fictions, Paterson, New Jersey, Littlefield - Adams & Co., 1959. La teory of fictions, che evidentemente è centrale nella giurisprudenza e nella scienza politica benthamiana se proprio Bentham la pone a fondamento di «several operations, which, by the help of language, and under the direction of logic, are performed by human minds upon language and thereby upon minds: such as distinction, division, definition, and the several other modes of exposition, including those of methodisation» (J. Bentham, Ontology, cit., p. 198) potrebbe essere considerata, per certi versi, una “traduzione benthamiana” della teoria dei modi misti di Locke. Bentham infatti considera alla stregua

attraverso l’applicazione di questo metodo ciò che risulta è sempre qualcosa di reale, «something the reality whereof we have the testimony of our senses»158. In questo modo, «knowing what is real among the objects

characterized by the name of law, we shall see what is imaginary»159. Che

cosa sia immaginario dell’insieme di oggetti elencati da Blackstone attraverso l’applicazione del nome law è presto detto: definito come espressione della volontà di una «sostanza animale», infatti, il termine legge può essere applicato solo alla volontà dei governanti, mentre la legge di natura in quanto espressione della volontà di un legislatore divino è definitivamente relegata a una dimensione immaginaria, eliminata dal corpus giuridico. Dal punto di vista strettamente metodologico, questa conclusione è possibile perché Bentham, pur muovendo dai medesimi presupposti che conducono Locke alla costruzione logica della legge di natura, sottolinea l’importanza della testimonianza dei sensi come strumento di verifica empirica della conoscenza. Una verifica alla quale la legge di natura, in quanto espressione della volontà di Dio non può, evidentemente, essere in alcun modo sottoposta.

delle idee semplici lockeane quelle che definisce perceptible entities, «every entity the existence of which is made known to human beings by the immediate testimony of their senses, without reasoning i.e. without reflection» (Ivi, p. 195). Spicca, evidentemente, una differenza niente affatto secondaria con i presupposti di Locke, poiché la riflessione è distinta dalla percezione ed esplicitamente esclusa dal novero delle idee semplici, ovvero quelle perceptible entities che proprio perché derivate e testimoniate dai sensi hanno un immediato statuto di realtà (Cfr. Ivi, p. 196). Prodotto della riflessione, o comunque dell’attività deduttiva e inferenziale dell’intelletto, sono le inferential entities (Ivi, pp. 195 e 196), alle quali Bentham non nega, almeno apparentemente, uno statuto di realtà, sebbene di fatto giunga almeno a ridimensionare il loro statuto di certezza. Le entità inferenziali sono tendenzialmente assimilate a quelle che Bentham definisce fictitious entities, ovvero quelle entità la cui esistenza è puramente nominale (Ivi, p. 197) e che sono strettamente necessarie al linguaggio al quale devono la loro «impossible, yet indispensable, existence» (Ivi, p. 198). Le entità fittizie, che non sono altro che astrazioni – o più precisamente nomi di astrazioni – costituiscono per Bentham un chiaro pericolo a causa del fatto che non hanno una diretta corrispondenza con la realtà. Eppure, è precisamente il rapporto con la realtà (che può essere più o meno diretto – da qui la distinzione tra fictitious entities del first o second remove) a legittimare l’uso linguistico delle entità fittizie: «Every fictitious entity bears some relation to some real entity, and can no otherwise be understood than in so far as that relation is perceived, – a conception of that relation is obtained» (Ivi, p. 197). Più avanti, almeno in nota, si cercherà di vedere in che modo la distinzione tra sensi e riflessione agisca nella critica di Bentham alla teologia naturale di Locke. Per un’analisi della teoria delle finzioni e del suo ruolo nell’ambito della scienza giuridica e politica benthamiana si rimanda a J.E. Crimmins, Bentham s Metaphysics and the Science of Divinity, in «Harvard Theological Review», vol. 79, n. 4, 1986, pp. 387-411, in B. Parekh, Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit., vol. II, pp.72-93, in particolare p. 73; L.J. Hume, The Political Functions of Bentham s Theory of Fictions, in «The Bentham Newsletter», 1979, pp 18-27, ora in B. Parekh, Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit., vol. III, pp. 522-533, P. Schofield, Utility & Democracy, cit., cap. 1.

158 J. Bentham, Comment, cit., p. 7. Corsivo mio. A partire dal sensismo e dall’empirismo

benthamiani, Olivecrona giunge a considerare quello di Bentham come il tentativo di stabilire, in termini moderni, «a purely sociological theory of law» (K. Olivecrona, The Will of the Sovereign, cit., pp. 10-11).

Bentham prende dunque decisamente le distanze dalla pretesa lockeana di pervenire a una morale dimostrativa i cui principi siano caratterizzati da una certezza matematica in virtù della loro coerenza linguistica. La possibilità di accertare il significato delle parole riposa interamente sulla capacità di ricondurre alla realtà sensibile le idee che quelle parole esprimono; è questo il nodo centrale dell’intera riflessione epistemologica benthamiana, ed essa è gravida di conseguenze importanti se la si considera come argine alla pretesa di fare della legge di natura il criterio di ciò che è politicamente giusto o sbagliato.

Bentham sa che proprio questa è la prospettiva politica della natural

theology di Locke e Blackstone: determinare «what is politically right and

wrong» attraverso la conoscenza della volontà di Dio che si esprime nella legge di natura160. Bentham sa anche che per accedere alla conoscenza della

volontà di Dio è necessario ricostruirla con un procedimento di carattere inferenziale, dal momento che essa non viene comunicata attraverso nessun «ostensible instrument»161, un segno visibile che possa darne testimonianza

sensibile. Egli sembra inoltre cogliere il problema che si determina quando a dover intraprendere questo processo cognitivo è un uomo che può accedervi solo a determinate condizioni, e cita infatti interamente quei passi dei

Commentaries in cui Blackstone sostiene che parte dell’umanità sarebbe

rimasta nell’ignoranza se il benevolo intervento di Dio non avesse infuso negli uomini l’amor di sé, universale principio d’azione, facendolo coincidere con il rule of right162. Una soluzione che, come si è detto, non fa che riproporre

la “gerarchia antropologica” che caratterizza il discorso lockeano e alla quale Bentham risponde in questi termini:

he seems to put a supposition, that mankind were divested of self-love: meaning, I suppose of sensibility, of the capacity of receiving pain and pleasure. On this supposition, he supposes that ‘a part of mankind’ would have rested in ignorance, not that this same self-love is so necessary as one might imagine: for another part he seems to suppose, might go on without it weaving ‘a chain of metaphysical disquisitions’. In that case what would serve them for a motive to that employment or to any other is, I confess, more than I am able to comprehend163.

Questo secco commento vuol mettere in luce le contraddizioni del discorso di Blackstone, il quale sembrerebbe supporre che, priva d’amor di

160 «Talk of natural duties and natural rights invariably entailed a reference to the natural law

commands of a divine sovereign» (J.E. Crimmins, Bentham and Hobbes: An Issue of Influence, in «Journal of the History of Ideas», vol. 63, n. 4, 2002, pp. 677-696, cit., p. 693).

161 J. Bentham, Comment, cit., p. 22.

162 Cfr. W. Blackstone, Commentaries, cit., p. 40. 163 J. Bentham, Comment, cit., pp. 18-19.

sé, una parte degli uomini sarebbe rimasta dell’ignoranza, eppure non sembra riconoscere una così grande importanza a quello stesso amor di sé, visto che un’altra parte degli uomini avrebbe potuto farne a meno, attivando una catena di disquisizioni metafisiche. Contraddizioni che non chiariscono inoltre cosa mai dovrebbe indurre questi uomini a compiere quel ragionamento, quali motivi se non proprio l’amor di sé, la capacità di ricevere dolore e piacere che però, dal punto di vista di Blackstone, è solo il ripiego dettato dalla naturale indolenza degli uomini. La risposta della teologia naturale non può che rimandare al libero arbitrio, una volontà svincolata dalle passioni o una piena razionalità che consentirebbe di accedere alla conoscenza del Bene, ed è proprio questa che Bentham attacca frontalmente affermando che «it is the nature of the will (that is of man in the business of volition) to be governed by motives and by nothing else than motives. Motives are the idea of pain and pleasure»164. In questo modo, egli mostra di

adottare una concezione hobbesiana della volontà – come volontà non volontaria, come volontà necessitata165 – che non ammette in nessun caso una

sospensione della dinamica desiderante ed edonistica del comportamento umano, la possibilità che l’uomo si liberi dalle passioni trascendendo