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Dentro e oltre la legalità.

LA SCIENZA DELLA SOVRANITA’ E I DIRITTI NATURAL

5. Dentro e oltre la legalità.

L’analisi sviluppata fino a questo momento ha mostrato che il discorso sul metodo proposto da Bentham nelle pagine introduttive del Fragment on

Government deve essere considerato uno sviluppo del piano dell opera redatto

nel 1774 e successivamente adottato come struttura dei Remarks on the Acts of

the Thirteenth Parliament di John Lind. Le differenze messe in luce attraverso

un primo confronto fra i testi sono da imputare all’inedito valore politico assunto dall’incorporazione della «Law of Nature and of Nature’s God» nella costituzione britannica, nel periodo compreso tra il 1774 e il 1776. Come si è visto, infatti, sempre più il discorso giusnaturalistico solleva il problema della legittimità dell’ordine politico. La violazione dei diritti inalienabili sanciti dalla legge di natura e di Dio giustifica la resistenza dei coloni perchè nessuna legge, nessun atto del parlamento britannico può essere considerato valido e, di conseguenza, obbligante, se non si conforma a quell’ordine trascendente dal quale si presume derivare la sua legittimità. Il problema di Bentham di fronte alla controversia, dunque, non è più semplicemente quello di determinare con chiarezza l’estensione del potere che, coerentemente con la costituzione e le charters istitutive delle colonie, il Parlamento può esercitare su di esse. Nel Fragment egli registra i rischi politici derivanti dall’adozione della legge di natura come criterio di giudizio della legge positiva, rischi che la sua concezione edonistica della natura e del comportamento umani gli fa apparire come inevitabili. Proprio perché ritiene impossibile che l’uomo si liberi dalle passioni e dall’interesse, unici motivi del suo agire, Bentham giunge a postulare una teoria della conoscenza radicalmente empirista. I procedimenti di definizione e di parafrasi, l’attribuzione dei nomi alle diverse specie di legge come attività peculiari

dell’Expositor nel momento in cui rimandano a una forma di conoscenza prodotta dai sensi e verificabile attraverso di essi, sovvertono i presupposti epistemologici e antropologici del giusnaturalismo di matrice lockeana: se l’uomo non può trascendere la propria natura edonisticamente determinata, nessuna conoscenza che non sia verificabile empiricamente può rivendicare uno statuto di certezza. Bentham si limita volutamente a quella «conoscenza di particolari» che, secondo Locke, il «padre della scienza intellettuale», caratterizzerebbe la conoscenza empirica e la scienza naturale. Se questa è per Locke una conoscenza di secondo grado rispetto a quella delle aeternae

veritatis, perché non va oltre i limiti dell’umana costituzione, per Bentham

essa è l’unica realmente conforme a una natura umana che non può superare i propri limiti263. È dunque questo genere di conoscenza che impone di ridurre

la legge di natura al rango di entità meramente immaginaria: essa non è altro che un significante vuoto che può solo, in quanto tale, esprimere di volta in volta i giudizi individuali di approvazione o disapprovazione motivati dall’interesse.

Attraverso la definizione, procedura articolata secondo i criteri di un metodo empirico – naturale perché conforme alla natura umana – l’ambito del diritto [Law] è strettamente confinato alla sua dimensione positiva, la legge ricondotta alla volontà dei governanti. In questo modo, Bentham è in grado di spazzare via l’ipotesi di un ordine giuridico superiore al quale l’esercizio del potere dovrebbe conformarsi per ottenere l’obbedienza dei sudditi, e può al contempo affermare un paradigma materialistico del rapporto di comando e obbedienza. I diritti dei sudditi, di conseguenza, non possono essere fatti valere contro il sovrano poiché non sono il presupposto ma il prodotto della legge positiva resa efficace attraverso la punizione. Non solo, ma ogni pretesa di contrapporre i diritti al potere si traduce in una minaccia nei confronti di quegli stessi diritti: la messa in discussione della

263 Budge sottolinea come «in this context Bentham see himself in Newton’s role i.e. laying down

fundamental laws which will sum up all the scattered discoveries of the past and which will guide research in the future» (I. Budge, Jeremy Bentham: A Re-evaluation in the Context of Empirical Social Science, in «Political Studies», vol. 19, n. 1, 1971, pp. 18-36, ora in B. Parekh, Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit., vol. II, pp. 272-294, cit., p. 282). Più interessante, tuttavia, ci sembra considerare che Bentham si colloca in continuità con Hobbes, sebbene alla filosofia di quest’ultimo apporti un contributo originale. Il comune intento è certamente quello di costituire la scienza politica su fondamenta comparabili a quelle della scienza naturale a partire dalla centralità dell’analisi linguistica: «at the core of this idea stood the realization of the significance of “signs” and the concomitant demand for correct definitions» (J.E. Crimmins, Bentham and Hobbes, cit., p. 680). Sebbene tanto Bentham quanto Hobbes fossero materialisti e proponessero una metafisica nominalista, «the empirical elements of Bentham’s work were vastly more pronounced, his inductive method contrasting in marked fashion from Hobbes’ deductive approach modelled on geometry» (Ibidem). Proprio tale differenza specifica determina il giudizio di Bentham sul Leviatano, «an ideal being fabricated to give the appearance of a visible foundation to a set of unintelligible discussions» (J. Bentham a E. Dumont, 14 maggio 1802, in Id., Correspondence, January 1802-December 1808, a cura di J.R. Dinwiddy, vol. 7, Oxford, Clarendon Press, 1988, pp. 25-26).

validità delle leggi positive o del diritto [right] del potere sovrano rischia di

sovvertire l’ordine politico, la sicurezza che solo le leggi sono in grado di garantire. È possibile allora affermare che proprio questa logica determini la rinuncia ad alcune delle parole chiave del piano dell’opera del 1774, orientato ad analizzare il potere della corona e del legislativo sulle colonie «in point of right», determinando su queste basi la validità del suo esercizio. Proprio perché registra l’uso politico di questi termini nel seno della controversia e il portato radicale che essi esprimono attraverso il loro fondamento giusnaturalistico, Bentham propone il metodo della giurisprudenza espositoria come criterio di lettura dello scontro imperiale attraverso le lenti della legge positiva. Questa è considerata un fatto, esattamente come un fatto sono le azioni determinate che costituiscono l’oggetto delle singole leggi. Distinguendo essere e dover essere, Bentham propone allora uno strumento di analisi che non contempla alcun giudizio di merito relativo alle ragioni della legge e dell’obbedienza. In questione non è il fondamento dell’obbligazione politica quanto piuttosto una valutazione della condotta dei coloni in termini di legalità, di conformità al diritto. Ciò che muove questa particolare impostazione, come si è detto, è l’urgenza di arginare i rischi connessi all’inversione di prospettiva collocata al cuore del processo rivoluzionario, la minaccia derivante dalla pretesa di considerare

illegale o nullo ogni atto del sovrano emanato in opposizione alla presunta

legge di natura e di Dio.

È questa prospettiva che emerge dalla bozza redatta da Bentham in risposta alla Dichiarazione di Indipendenza, dove si afferma chiaramente che con l’invocazione dei propri diritti naturali e inalienabili gli americani di fatto cercano di nascondere dietro a una nebbia di parole le enormità dei loro

crimini e dei loro misfatti264. Se fosse vero, come affermano, che il diritto alla

vita è un diritto inalienabile di ogni uomo, come si spiega la loro invasione delle province reali del Canada e la distruzione non provocata della vita dei loro abitanti?265 Se il diritto di godere della libertà fosse inalienabile, come si

spiega che tanti sudditi pacifici di sua maestà che non hanno compiuto alcuna offesa siano stati messi in carcere per il solo fatto di essere sospettati di non approvare quelle enormità?266 Forse gli americani ritengono di essere

portatori di una particolare virtù – o santità, o privilegio – capace di rendere

264 «[In margin: It is thus they endeavour by a cloud of words to cover (veil) the atrocity enormity of

their (crimes) (misdeeds) enterprizes]» (J. Bentham, Answ. to Declar. Preamble, cit., p. 342).

265 «If […] the right of enjoying life be the unalienable right of all men, whence came their invasion

of his Majesty’s province of Canada, and the unprovoked destruction of so many lives of the […] inhabitants of that province?» (Ivi, p. 343).

266 «If the right of enjoying Liberty be an unalienable right whence came so many of his Majesty’s

peaceable subjects among them (without any offence or so much as any pretended offences), (merely for being suspected not to whish well to their enormities) to be held by them in durance?» (Ibidem).

legali per loro cose che sono illegali per il resto del mondo?267 Oppure sono

illegali solo quegli atti di coercizione, provocati dalla loro delinquenza ed esercitati da un governo regolare, durevole e consueto, che limitano la libertà e restringono la ricerca della felicità?268

Queste domande retoriche permettono di fare emergere le implicazioni di un metodo che struttura l’analisi alla luce di ciò che è il diritto [Law], riferendosi alla legge come il prodotto della positiva volontà del legislatore e dunque escludendo dalla valutazione ogni riferimento alla legge di natura come ipotetico dover essere. In questo testo, Bentham non solo mostra i paradossi impliciti al giusnaturalismo e alla sua fittizia pretesa universalistica, ma anche e soprattutto attacca la logica dell’appello al cielo, in virtù della quale dovrebbe essere considerata nulla ogni legge che non si conformi alla legge di natura e i diritti da essa sanciti. Se si assume come unico criterio la legge positiva, gli atti compiuti dagli americani sono allora imprese criminose e la coercizione esercitata dal governo britannico è solo una risposta punitiva a un insieme di atti di delinquenza. Dal punto di vista dell’Expositor, le pretese avanzate dai coloni e la loro conseguente condotta non hanno alcuna giustificazione nella legge positiva e sono, semplicemente, illegali.

Sarebbe tuttavia un errore credere che il criterio di valutazione degli eventi adottato e proposto da Bentham si riduca a questo. Bisogna infatti tenere presente che, nel momento in cui rinuncia a una prospettiva “costituzionale” come quella assunta nel piano dell opera e si interroga sulla controversia in termini di diritto, egli non può fare a meno di affrontare il nodo politico suscitato dagli americani, quello del rapporto tra comando e obbedienza. Mettere al centro la legge positiva significa inevitabilmente invocare la dimensione politica del rapporto tra governanti e governati, poiché proprio l’obbedienza al comando del sovrano espresso dalla legge positiva costituisce il cuore della definizione benthamiana di società politica. L’habit of obedience, come si è visto, per quanto si proponga come categoria meramente descrittiva di fatto rimanda inevitabilmente alle ragioni o ai motivi della legge e, con essa, dell’obbligazione. Attraverso questa definizione è aperta la strada alla giurisprudenza censoria come criterio politico di lettura della controversia.

267 «Or would they have it believed that there is/in themselves/ that peculiar (virtue) (sanctity)

(privilege) that makes those things lawful to them which are unlawful to all the world besides?» (Ibidem).

268 «Or is it (that coercion only is unlawful which is imposed by regular accustomed government?)

among acts of coercion those only (whereby life or liberty are taken away and the pursuit of happiness restrained those only are unlawful which their delinquency has brought upon them, and which are exercised by regular, long-established, accustomed Government?» (Ibidem).

Si deve tenere presente che Bentham non considera la legge umana come obbligante per sé stessa o, più precisamente, non identifica la legge positiva con l’unico criterio di determinazione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Da questo punto di vista è certamente significativa l’obiezione che Bentham rivolge alla critica di John Lind nei confronti della distinzione tra

mala in se e mala prohibita stabilita da Blackstone a partire dall’assunzione

della legge di natura e di Dio come criterio superiore di giustizia. A questa distinzione Lind risponde con un esempio:

to bring goods from France to England, to use them, to sell them, to carter them, without advising anyone thereof, is surely not malum in se, but malum

prohibitum merely: for, if the laws of land had not declared it an evil, it never

could be proved an evil269.

In una nota a margine, Bentham redarguisce Lind:

yes, it could: or it never ought to have [been] forbidden. It lessened the national found of riches, and consequently of strength, it increase that of rival nation. So at least it was supposed to do270.

In questa nota mostra ancora una volta la continuità tra la filosofia del linguaggio che fonda il metodo proposto da Bentham nel Fragment on

Government e la sua concezione del rapporto tra governanti e sudditi271, e

consente di mettere in luce il senso politico della natural nomenclature che egli include tra i compiti riservati alla giurisprudenza espositoria. Si tratta, come si è detto, di una classificazione delle leggi o istituzioni alla luce di quelle proprietà cui gli uomini sono, per loro natura disposti a prestare attenzione. Proprietà che Bentham individua nel carattere utile o dannoso delle azioni che

269 J. Lind, Our Author s Account of Municipal Law, in Appendix G John Lind on Blackstone, in J.

Bentham, Comment, cit., pp. 351-389, p. 378.

270 Ivi, n. 1.

271 A proposito della coestensività tra la teoria del linguaggio e la scienza politica benthamiane, ci

sembra importante quanto affermato da Crimmins: «it is the reduction to science and philosophy to “metaphysics”, defined in terms of a theory of language which insists upon the correspondence between words, ideas and propositions, on the one hand, and perceptible physical entities on the other. But it is not merely that for Bentham metaphysics becomes linguistic analysis; more importantly this step means that the structure of reality itself is now seen, can only be seen, in terms of the structure of language» (J.E. Crimmins, Bentham s Metaphysics, cit., p. 88). Così anche Tyler: «All statements which make use of fictions possess meaning only due to their grounding in concepts which are not based upon ideas about pleasure and pain, lack a coherent basis. They must express an ‘empty declaration’, then, if Bentham is correct. […] Bentham founds his utilitarisnism squarely on his theory of language and ontology. Essentially the same points applies with relation to his political theory» (C. Tyler, The Metaethics of Pleasure: Jeremy Bentham and his British Idealist critics, in A. Dobson, J. Stanyer (a cura di), Contemporary Political Studies, Nottingham, Political Studies Association of United Kingdom, 1998, vol. I, pp. 261-268, cit., pp. 262-263).

costituiscono l’oggetto delle leggi, la loro tendenza o divergenza dalla felicità intesa come fine comune a ogni uomo. È precisamente da questo fine comune che Bentham prende le mosse per postulare il principio della maggior felicità per il maggior numero come criterio deputato non solo a istruire i sudditi ma anche a biasimare o giustificare il legislatore:

that principle which states the greatest happiness of all those whose interest

is in question, as being the right and proper, and only right and proper and universally desiderable end of human action: of human action in every situation; and, in particular, in that of a functionary, or set of functionaries, exercising the powers of Government. The word utility does not so clearly point to the ideas of pleasure and pain as the word happiness or felicity do: not does it lead us to the consideration of the number, of the interests affected: to the number, as being the circumstance which contributes, in the largest proportion, to the formation of the standard here in question; the standard of

right and wrong, by which alone the propriety of human conduct, in every

situation, can with property be tried272

In questo modo, Bentham ammette l’esistenza di un criterio pre-legale o meta-giuridico al quale la legge umana dovrebbe conformarsi273, ma lo

sottrae alla trascendenza della law of nature, che in virtù del suo statuto ontologico meramente immaginario è continuamente esposta al carattere sovversivo e arbitrario del giudizio individuale. Attraverso il principio della maggior felicità per il maggior numero, le ragioni che presiedono al governo e alla legge sono espresse in modo tale che ogni uomo può vederne la forza, perché «pain and pleasure are words which a man has no need, we may hope, to go to a lawyer to know the meaning of»274. Così, una nomenclatura naturale,

272 J. Bentham, Fragment, cit., p 446, n. z.

273 In questo senso, McLauchlin sottolinea una continuità tra giusnaturalismo e positivismo, pur tra

le evidenti differenze: «For natural lawyer […] such rules [of positive law] may truly be described as laws only if they are capable of moral justification, derivable from tenets discovered by reason, either directly from basic principles or from such principles in conjunction with the social requirements of a particular society. […] For the legal positivists, positive laws are properly called laws whether or not they are implied in the [moral] standard». In ogni caso, secondo McLaughlin «for each theory of legal duty and whether the theory is to be described as expressing a natural law or positivist point of view, there is a group of pre-legal prescriptions and permissions, inconsistency with which deprives positive laws of their obligatory status» (R.N. McLaughlin, On a Similarity Between Natural Law Theories and English Legal Positivism, in «The Philosophical Quarterly», vol. 39, n. 157, 1989, pp. 445-462, cit., pp. 445 e 446). Sulla continuità tra giusnaturalismo e positivismo interviene anche Harrison: «Bentham needs a stanpoint very like natural law from which he can criticise established law. Bentham’s critical basis, the foundation for his censorial jurisprudence, is the principle of utility; so the point could be made by saying that the principle of utility is very like a principle in natural law. Indeed the bit of natural law in Blackstone […] that Bentham thinks can be made intelligible is the claim that performance of actions tending to man’s real happiness are part of the law of nature» (R. Harrison, Bentham, cit., p. 102).

274 J. Bentham, Fragment, cit., p. 418. Sottolineando ancora una volta la continuità tra la filosofia del

linguaggio e la filosofia morale di Bentham, Schofield sostiene che «a statement of morality grounded on the principle of utility had a basis in the physical world which consisted of real entities, and it was

continuamente attenta a ricondurre la legge positiva ai suoi contenuti esposti attraverso le idee semplici di dolore e piacere è in grado di fare emergere le

ragioni della legge e, con essa, dell’obbligazione. Sono queste ragioni che

guidano l’attività del Censor, ed esse sono chiaramente contrapposte al carattere costitutivamente incerto, arbitrario ed escludente della legge di natura.

In primo luogo, quelle ragioni non hanno bisogno di essere scoperte attraverso l’attività di una razionalità svincolata dalle passioni, dal momento che possono essere prodotte275 secondo un procedimento che per via induttiva

prende le mosse dall’osservabile natura del comportamento umano per farsi, attraverso l’applicazione di un criterio numerico, principio guida dell’azione del governo276. Proprio perché costruite sulla natura umana, le procedure

linguistiche della definizione, dell’attribuzione dei nomi e dell’arrangement sono in grado di trasformare la giurisprudenza in un linguaggio universale perché universalmente accessibile a ogni uomo in virtù della sua stessa natura e non contro di essa277. Nella misura in cui è continuamente

this basis which distinguished it from all other pretended moral standards» (P. Schofield, Utility & Democracy, cit., p. 47). Sulla stessa linea argomentativa si muove Steintrager, il quale mette in luce che secondo la logica di Bentham, «ideally all terms should have but one fixed and determinate meaning. They should be perfectly unequivocal and convey the same meaning to everyone». Tuttavia, la questione aperta rimane «whether it would be possible to fix the meaning of words, that is adhere to Bentham’s prescriptive teaching concerning the function of language, in a society where his prescriptive individualism was the order of the day» (J. Steintrager, Language and Politics: Bentham on Religion, in «The Bentham Newsletter», 1980, pp. 4-20, in B. Parekh, Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit., p. 103 e 109). Ci sembra utile rimandare anche a Baumgardt, il quale sottolinea che per Bentham sono le passioni empiriche il fattore più rilevante del giudizio morale (D. Baumgardt, Bentham s Censorial Method, in «Journal of the History of Ideas», vol. 6, n. 4., 1945, pp. 456-467, in particolare p. 466).

275 «There are no such things as any ‘precepts’, nothing ‘by which man is commanded’ to do any of

those acts pretended to be enjoined by the pretended law of Nature. If any man knows of any let him