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Il problema John Locke.

LA SCIENZA DELLA SOVRANITA’ E I DIRITTI NATURAL

2. Il problema John Locke.

Nel Fragment on Government Bentham dà indicazioni molto precise riguardo alla fonte del suo discorso sul metodo, la teoria dei modi misti elaborata da Locke nell’Essay on Human Understanding. Il suo intento è quello di spiegare in che cosa propriamente consista una definizione, ed è per questa ragione che è necessario prendere le mosse dalle pagine nelle quali il «padre della scienza intellettuale» postula le finalità e le caratteristiche di questa procedura, inaugurando «an epoch, since which it is no longer so excusable to use words without a meaning as it might have been before»68.

L’utilità della definizione consiste, per Locke, nella sua capacità di trasmettere il significato di una determinata parola, di «rappresentare» o «portare alla vista» di un interlocutore l’idea che a quella parola connette colui che la usa, accertandone il significato attraverso il ricorso a termini non sinonimi69. Alla definizione è così attribuita da una parte una funzione

comunicativa, dall’altra una valenza conoscitiva, la possibilità di accertare il

significato di una determinata parola. Entrambe queste funzioni possono essere assolte attraverso la riduzione di una parola alle idee semplici che la compongono, ovvero al suo fondamento empirico. La fonte delle idee semplici è infatti costituita dalla sensazione e dalla riflessione, da cui deriviamo «i materiali di tutta la nostra conoscenza»70. Sull’esperienza, dunque, «tutta la

nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva»71. Inoltre, poiché nella

68 J. Bentham, Comment, cit., p. 257.

69 «Una definizione non è altro che il mostrare il significato di una parola per mezzo di vari termini non

sinonimi. Il significato delle parole consiste solo nelle idee per le quali esse stanno nello spirito di chi le usa, quindi il significato di un termine è messo in luce o una parola è definita quando, mediante altre parole, l’idea di cui essa è il segno e alla quale è connessa nello spirito di chi parla è, per così dire, rappresentata o portata alla vista di un altro; in tal modo, il suo significato è accertato. Questa è l’unica utilità delle definizioni perciò l’unica misura di ciò che è o non è una buona definizione» (J. Locke, Saggio sull intelletto umano, Torino, UTET, 1971, III, iv, 6, p. 494).

70 «Le idee semplici, che sono i materiali di tutta la nostra conoscenza, sono suggerite e fornite allo

spirito solamente per quelle due vie sopra menzionate, cioè la sensazione e la riflessione» (Ivi, II, ii, 2, p. 149).

71 «Da dove proviene quel vasto deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha

sensazione e nella riflessione lo spirito è interamente passivo, l’uomo è un

semplice ricettacolo di ciò che agisce sui suoi sensi, le idee semplici che compongono il materiale di ogni conoscenza hanno come caratteristica quella di essere sempre reali e vere «poiché rispondono e concordano coi poteri delle cose che le producono nel nostro spirito; infatti, questo è quanto occorre per renderle reali e non finzioni prodotte a piacimento»72.

Questa immediata corrispondenza con la realtà non ha luogo invece per i

modi misti, ovvero le combinazioni di idee semplici messe assieme e unite

sotto un nome generale73, dal momento che «lo spirito dell’uomo fa uso di una

specie di libertà nel formare queste idee complesse»74. I modi misti, dunque,

non possono essere considerati come dotati di un’esistenza in sé; essi non sono altro che nomi, in quanto tali arbitrari, la cui esistenza deriva dall’essere dipendenze o affezioni delle sostanze cui si riferiscono75, ma che tuttavia

esprimono idee comunicabili tramite la loro riduzione a idee semplici anche a chi non ne abbia diretta esperienza76. In questo modo è possibile porre di

fronte alla nostra immaginazione tutte quelle idee che concorrono alla formazione dei modi misti e ne sono parti costitutive77, di rendere cioè le idee

conformi alle cose di cui si intende parlare. Le idee semplici, dunque, rappresentano il fulcro della duplice funzione, comunicativa e conoscitiva, attribuita da Locke alla definizione, che è necessaria a chi voglia essere compreso «quando parla di cose realmente esistenti» e non abbia in mente «di riempirsi la testa di chimere e discorrere con parole incomprensibili»78.

Soprattutto, e questo ci pare particolarmente importante alla luce della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’ESPERIENZA. Su di essa tutta la nostra conoscenza si

fonda e da essa in ultimo deriva» (Ivi, II, i, 2, p. 134).

72 Ivi, II, xxx, 2, p. 436.

73 «Poiché ogni modo misto consiste di più idee semplici distinte, sembra ragionevole chiedersi da

dove gli provenga la sua unità, e come una tale moltitudine precisa venga a formare una sola idea, dal momento che quella combinazione non esiste sempre, così unita, nella natura. A ciò io rispondo: è chiaro che la sua unità gli proviene da un atto dello spirito, che combina quelle varie idee semplici assieme e le considera come un’idea complessa che consista di quelle parti; e il segno di questa unione, ciò che viene generalmente considerato come il suo compimento, è l’unico nome dato a quella combinazione» (Ivi, II, xxii, 4, p. 343).

74 Ivi, II, xxx, 3, p. 436.

75 «Chiamo modi le idee complesse che, comunque composte, non contengono in sé la supposizione

di sussistere di per sé, ma sono considerate come dipendenze o affezioni delle sostanze» (Ivi, II, xii, 4, p. 202).

76 «Un modo solito di ottenere quelle idee complesse è la spiegazione dei termini che le

rappresentano. Poiché consistono in un insieme di idee semplici combinate, si può, mediante parole che rappresentano quelle idee semplici, rappresentarle allo spirito di una persona che comprende quelle parole, anche se quella combinazione complessa di idee semplici non venisse mai offerta al suo spirito dall’esistenza reale delle cose. Così un uomo può giungere ad avere l’idea del sacrilegio o dell’assassinio se gli vengono enumerate le idee semplici che queste parole rappresentano, anche se non ha mai visto commettere l’uno o l’altro». (Ivi, II, xxii, 3, p. 343).

77 Ivi, II, xxii, 9, p. 346 78 Ivi, III, vi, 28, p. 531.

differenziazione tra le diverse specie di leggi compiuta da Bentham a partire dal loro statuto ontologico, la definizione, la riduzione delle idee complesse al loro fondamento empirico, permette secondo Locke di fare chiarezza su «quali di queste combinazioni sono reali e quali soltanto immaginarie»79. Sono

queste conclusioni che rendono evidente tutto il peso esercitato dal discorso lockeano su Bentham, che se ne serve per contrastare il ricorso alla legge di natura come parte del diritto che, nel seno dell’American Controversy, mostra ai suoi occhi un potenziale sovversivo. Tuttavia, non si può trascurare che proprio la teoria dei modi misti rappresenta per Locke lo strumento attraverso il quale postulare la legge di natura come norma morale e principio del governo. Per comprendere dunque come sia articolata la critica benthamiana è necessario ripercorrere la struttura del progetto lockeano.

In primo luogo è importante rilevare che, pur riconoscendo una funzione dimostrativa ai sensi e, attraverso di essi, alle idee semplici di piacere e di dolore80, Locke non crede che questo tipo di dimostrazione – fondata su un

rapporto immediato tra idea e realtà, o quanto meno mediato esclusivamente dai sensi e non da un’attività dell’intelletto – sia l’unica possibile fonte di conoscenza. Al contrario, Locke giudica addirittura «pazzesco e stolto» che l’uomo si limiti alla conoscenza – in sé limitata – delle cose passibili di dimostrazione, dal momento che egli è stato dotato della ragione per giudicare della certezza o della probabilità anche di ciò che non è immediatamente suscettibile di una dimostrazione empirica, fondata sui sensi81. Attraverso la ragione l’uomo può superare la propria natura sensibile

che Locke considera un limite angusto, e questa possibilità di superamento riposa precisamente sullo statuto arbitrario, sull’esistenza puramente nominale attribuita ai modi misti82. Per rendere reali questi ultimi, afferma

l’autore del Saggio, non è sufficiente indicare la loro mera possibilità di esistere, dunque ridurli alle idee semplici che li compongono, ma è necessario che i loro significati siano compatibili col nome comunemente assegnato a essi. Non sarebbe corretto, in altri termini, «dare il nome di giustizia all’idea che l’uso comune chiama libertà». Ciò significa, secondo Locke, che la possibilità che in quanto arbitrari i nomi esprimano carattere fantastico o

79 II, xxx, 3, p. 436. Corsivo mio. 80 Ivi, IV, xi, 8, p. 725.

81 «Da ciò possiamo ancora osservare quanto sia pazzesco e stolto per un uomo dotato di

conoscenza ristretta ma al quale è stata data la ragione per giudicare della differente evidenza e probabilità delle cose ed esserne guidato in conformità – aspettarsi dimostrazioni e certezza in cose che non ne sono suscettibili; e rifiutare l’assenso a proposizioni ragionevolissime e agire contrariamente a verità semplicissime e chiare perchè non possono essere rese così evidenti da superare anche la minima pretesa (non la chiamerei ragione) di dubitare» (Ivi, IV, xi, 10, p. 727).

82 «Il carattere dimostrativo della morale risiede nella sua organizzazione linguistica, e non nel suo

oggetto, per questo aveva elaborato la teoria dei modi misti» (C.A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all illuminismo, Torino, Einaudi, 1960, p. 173).

chimerico «si riferisce più alla proprietà del linguaggio che non alla realtà delle idee»83.

Collocando il problema all’altezza del linguaggio, dunque, Locke giunge a distinguere due specie di conoscenza o, più precisamente, di proposizioni: una conoscenza empirica, riguardante l’esistenza «di qualcosa che risponde a un’idea data» e che può essere solo «conoscenza di particolari», poiché nessuna cosa che esista al di fuori di noi, con l’eccezione di Dio, può essere conosciuta con certezza se non attraverso i sensi84; l’altra, una conoscenza

matematica in cui si esprimono «l’accordo o il disaccordo delle nostre idee astratte e la loro dipendenza reciproca»85. Tale accordo o disaccordo non

corrisponde dunque alla certezza fornita dai sensi ma è nondimeno all’origine di aeternae veritates, proposizioni la cui «universalità e certezza» discende dalla supposizione che i nomi corrispondano perpetuamente alle stesse idee e le stesse idee abbiano immutabilmente le stesse disposizioni reciproche86. Sulla base di questo processo cognitivo, dunque, è possibile

pervenire a una certezza dei principi che è tale non perché assunta senza mai dubitare della loro verità, ma perché al contrario quella verità può essere sempre passibile di una dimostrazione fornita «dalla percezione che abbiamo dell’accordo o disaccordo delle nostre idee», e dunque capace di farci ottenere «idee chiare, distinte e complete e di annettere a esse nomi adatti e costanti»87.

Si tratta di una dimostrazione di carattere matematico attraverso la quale è possibile, secondo Locke, pervenire a conclusioni certe, ed è esattamente questo tipo di certezza che contraddistingue la moralità: «le idee che sono trattate dall’etica sono tutte essenze reali e come tali immagino abbiano connessione e accordo reperibili l’una con l’altra; e, nella misura in cui possiamo trovare tra loro rapporti e relazioni, saremo in possesso di verità certe e generali»88. La funzione delle idee semplici, in questo quadro, non è del

tutto negata, ma viene piuttosto fatta coincidere con la possibilità di stabilire relazioni di compatibilità e incompatibilità tra idee morali definite e di confrontare regole e fatti, offrendo la possibilità della loro coincidenza e della loro discrepanza89. A partire dalla teoria dei modi misti, dunque, Locke fonda

83 J. Locke, Saggio, cit., II, xxx, iv, p. 436. 84 Ivi, IV, xi, 13, p. 728.

85 Ivi, p. 729.

86 Ivi, IV, xi, 14, p. 729. 87 Ivi, IV, xii, 6, p. 734.

88 Ivi., IV, xii, 8, p. 735. Viano sottolinea che la pretesa di Locke è quella di far derivare la forza

obbligante delle aeternae veritatis dalle sanzioni portate dal linguaggio (C.A. Viano, John Locke, cit., p. 157), ovvero dalla correttezza della procedura linguistica che ne è la fonte. Tuttavia, come vedremo a breve, l’insufficienza della sanzione linguistica è ciò che induce Locke a rinunciare alla morale dimostrativa reintroducendo la struttura teologica nel discorso morale.

la certezza delle norme morali su un principio di non contraddizione e colloca la possibilità di dimostrare la realtà della verità morale all’altezza della sua coerenza linguistica. I presupposti sensibili ed empirici della conoscenza non vengono meno ma sono considerati come limiti rispetto alla possibilità dell’uomo di superare la propria immediata natura sensibile attraverso una corretta applicazione della ragione.

Il fatto importante, che consente di sottolineare ancora una volta la rilevanza politica di questa dottrina, è che lo scopo di Locke è di determinare un accordo generale sui nomi che si può considerare coestensivo alla teoria del governo fondato sul consenso sviluppata nel Second Treatise90. Egli

intende porre al principio dell’ordine politico un criterio di giustizia che si configura come morale dimostrabile, e tuttavia il carattere arbitrario dei modi misti espone il suo progetto al rischio di una corrispondente arbitrarietà delle norme o al loro relativismo, ed è questo che rende per certi versi necessario il ricorso a Dio per giustificare il carattere obbligante delle

aeternae veritates91. Per Locke, infatti, «senza la nozione di legislatore è

90 «La politica corrispondente a una legge naturale, che si configura come l’insieme delle condizioni

generali del consenso, è l’organizzazione di una tecnica del consenso mentre, d’altra parte, le norme generali di una legge naturale di quel tipo hanno il loro banco di prova soltanto nella possibilità di orientare l’istituzione delle tecniche del consenso, e di rendere possibili il maggior numero possibile di rapporto consensuali. Via via che metteva a punto il suo progetto di una morale dimostrata, Locke veniva elaborando anche la politica fondata sul consenso» (Ivi, p. 175). È tuttavia importante sottolineare che la legge naturale non si identifica con il consenso il quale ne è piuttosto l’effetto (M. Seliger, Locke s Natural Law and the Foundation of Politics, in «Journal of the History of Ideas», vol. 24, n. 3, 1963, pp. 337-354, in particolare p. 345 e 346; a tal riguardo si veda anche L. Strauss, Locke s Doctrine of Natural Law, in «The American Political Science Review», vol. 52, n. 2, 1958, pp. 490-501, p. 491. Strauss, a questo riguardo, mette in luce la continuità del discorso lockeano con quello di Hobbes.

91 In primo luogo, è possibile sottolineare che l’analisi lockeana «delle idee morali, dei modi misti e

del linguaggio morale non si preoccupa di mettere in evidenza l’obbligo effettivo ma di mostrare la possibilità di costruire un linguaggio morale coerente che gli uomini potrebbero usare in modo coerente per organizzare la loro comprensione della rettitudine morale e della corruzione. Il punto di rottura del Saggio è quello in cui cerca di dimostrare una simile chiarezza nella struttura degli obblighi» (J. Dunn, Il Pensiero politico di John Locke, cit., p. 223). Sebbene l’empirismo lockeano andasse esattamente nella direzione di scoprire il «meccanismo tutto umano dell’obbligazione, mettendo questo fondamentale strumento di direzione politico sociale a disposizione degli uomini, fuori da ogni ipoteca di carattere teologico», e dunque di costruire su questi presupposti, le norme generali del diritto naturale, la possibilità stessa del consenso, questo progetto non riuscì a esaurirsi. «Nel corso della sua realizzazione si ruppe il difficile equilibrio che Locke aveva cercato di raggiungere tra i diversi motivi che agivano sulla problematica che stava trattando. L’interpretazione puramente umana delle leggi si avvicinò a una forma di radicale relativismo; per scongiurarlo, Locke fece di nuovo ricorso all’impostazione teologica che sembrava messa in ombra per sempre» (C.A. Viano, John Locke, cit., pp. 156-157). Il problema risiedeva, in altri termini, proprio nel carattere arbitrario dei modi misti su cui la sua teoria si fondava, che rischiava di tradursi nell’arbitrarietà delle norme: «Locke poteva invocare un legislatore come autore del collegamento tra la norma e la sanzione: ma se non voleva introdurre alla base dell’etica dimostrata un presupposto arbitrario, quale non poteva non essere quello legato all’intervento del legislatore umano, doveva fare ricorso alla divinità» (Ivi, pp. 161 e 162). Infine, vale almeno la pena accennare che sebbene proprio il linguaggio avrebbe dovuto costituire lo strumento di congiunzione tra morale apodittica e morale storica, il riferimento alla convenzione

impossibile avere una nozione della legge e dell’obbligo di osservarla»92, e

poiché la conoscenza di Dio si configura essa stessa come certezza di carattere matematico, la sua volontà – promulgata tramite la ragione naturale o la voce della rivelazione – è ciò che fornisce la norma rispetto alla quale misurare della moralità di un’azione93, mentre la sua sanzione – ricompense e

castighi di portata e durata infinita in un’altra vita – determina la forza obbligante della legge stessa94.

Il carattere dimostrabile di queste leggi, inoltre, le rende universali, ovvero accessibili a chiunque applichi le facoltà che Dio ha concesso all’uomo per metterlo nelle condizioni di conoscere la sua volontà. L’universalità della legge naturale, tuttavia, si traduce in una logica di carattere condizionale che può essere collocata a fondamento della “gerarchia antropologica” che, come si è visto nel capitolo precedente, caratterizza il discorso lockeano. Sebbene infatti nel Second Treatise si affermi che la legge di natura sia chiaramente «writ in the hearts of all mankind»95, «intelligible and plain to all rational

creatures»96, sebbene, come affermato nel Saggio, essa sia talmente conforme

linguistica come fondamento della morale storica rischiava di condurre a un inaccettabile relativismo. Per questo, «non dalla società ma da Dio steso doveva trarre inizio la deduzione delle regole morali, che solo così avrebbero potuto dare vita a un sistema assoluto, coerente, indipendente dagli usi tradizionali (Ivi, p. 178).

92 J. Locke, Saggio, cit., I, iii, 8, p. 113.

93 «Il bene e il male […] non sono altro che piacere o dolore oppure quello che produce o procura a

noi piacere o dolore. Il bene e il male morali, dunque, sono solamente la conformità o il disaccordo delle nostre azioni volontarie con qualche legge, mediante la quale il bene o il male è attirato su di noi dalla volontà e dal potere del legislatore; e quel bene o male, quel piacere o dolore, che accompagnano la nostra osservanza o infrazione della legge per decreto del legislatore, è ciò che chiamiamo ricompensa e castigo», (Ivi, II, xxviii, 5, p. 413).

94 Tra le leggi «cui gli uomini riferiscono generalmente le loro azioni» vi è in primo luogo «la legge

divina, da cui deriva quella legge che Dio ha posta alle azioni degli uomini – sia essa promulgate tramite i lumi della natura o la voce della rivelazione. Credo che nessuno sia così grossolano da negare che Dio ha dato una regola mediante la quale gli uomini devono governarsi. Egli ha il diritto di farlo, giacché siamo le sue creature: egli ha la bontà e la saggezza per dirigere le nostre azioni verso ciò che è meglio, e ha il potere di imporlo mediante ricompense e castighi di durata infinita in un’altra vita, giacché nessuno può sottrarci alle sue mani» (Ivi, II, xxviii, 8, pp. 413-414). «La sua analisi della moralità attraverso tutto il ragionamento del Saggio, come per il seguito, combina un sistema deduttivo formale di norme appropriate e intelligibili in modo naturale attraverso un’indagine razionale sulla base dei dati sensoriali, un’etica dimostrativa fondata sulla teologia naturale, con una serie di sanzioni sostanziali che apportano agli ordini di un Dio il sostegno di poteri di applicazione infiniti. La rettitudine è una relazione formale fra una regola e un’azione. L’obbligatorietà una relazione sostanziale fra un’autorità fornita del potere di fare applicare i suoi comandi e un individuo soggetto a quell’autorità» (J. Dunn, Il Pensiero politico di John Locke, cit., pp. 222-223). Suggerendo che per Locke fosse impossibile fornire una prova razionale dell’esistenza di Dio proprio alla luce della sua teoria cognitiva strettamente empirista, alcuni hanno ipotizzato che il ricorso all’idea di Dio come «the idea of a punishing deity» avesse piuttosto il valore psicologico di un mito politico (si veda a riguardo W.T. Bluhm, N. Wintfeld, S. H. Teger, Locke s Idea of God: Rational Truth or Political Myth? In «The Journal of Politics», vol. 42, n. 2, 1980, pp. 414-438, cit., p. 437).

95 J. Locke, Second Treatise, cit., ii, 11, p. 274. 96 Ivi, ii, 12, p. 275.

alla ragione97 che una gran parte dell’umanità ne rende testimonianza pur

non avendo raggiunto la matematica certezza dell’esistenza di Dio98,

l’esercizio delle facoltà necessarie ad accedere alla sua conoscenza può avere luogo a condizione che l’uomo lo voglia99 ed è al contempo pregiudicato dalla

corruzione prodotta da passioni e interessi100. Il problema che Locke si trova

di fronte sembra dunque articolarsi in questi termini: com’è possibile che gli uomini, corrotti dall’interesse e dalle passioni, possano accedere alla