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I diritti e il sovrano.

LA SCIENZA DELLA SOVRANITA’ E I DIRITTI NATURAL

4. I diritti e il sovrano.

Nelle pagine del Fragment on Government il più significativo esempio di

esposizione è quello relativo ai termini right e duty, proposto da Bentham nel

capitolo intitolato Duty of the Supreme Power. Egli si domanda se sia ammissibile l’idea che il potere supremo possa avere un dovere, e sembra collocarsi in questo modo nel cuore della storia del presente, in cui l’appello da parte degli americani e dei loro sostenitori alla legge di natura si traduce nella pretesa di opporre al Parlamento i propri «natural inherent rights», vigenti anche nello stato di natura e a maggior ragione necessari nella condizione di governo. Il potere politico, al quale la garanzia dei diritti naturali è affidata attraverso il consenso nella logica dei coloni non può che essere limitato da quegli stessi diritti al cui rispetto è subordinata l’obbligazione politica. Si deve costantemente avere presente questo presupposto, nel momento in cui si considera il discorso di Bentham che

181 A questo riguardo non possiamo che concordare con Philip Schofield, secondo il quale «the

techniques of exposition which Bentham had developed in his theory of logic and language – albeit not explicitly stated in detail until the 1810s – were at the root of his attack on natural law and natural rights, just as they were at the root of his defence of the principle of utility» (P. Schofield, Utility & Democracy, cit., p. 77).

muove, ancora una volta, da una definizione. In questo caso, rispetto al procedimento per genus et differentiam illustrato con riferimento al termine

law, si deve registrare una differenza: parole come «Right, Duty, Power,

Title», infatti, non hanno alcun superior genus; per comprenderli, allora, è necessaria una parafrasi, ovvero la loro traduzione in una frase i cui termini esprimano tutti, direttamente o indirettamente, idee semplici, dunque un rapporto con la realtà sensibile182. La logica empirica del metodo di Bentham

rimane dunque immutata, e produce una definizione sotto specie di parafrasi nella quale i termini right e duty sono logicamente inseparabili:

1) That may be said to be my duty to do (understand political duty) which you (or some other person or persons) have a right to have me made to do. I then have aDUTY towards you: you have aRIGHT as against me. 2) What you have a right to have me made to do (understand a political right) is that which I am liable, according to law, upon a requisition made on your behalf, to be

punished for not doing. 3) I say punished: for without the notion of punishment

(that is of pain annexed to an act, and accruing on a certain account, and from a certain source) no notion can we have of either right or duty183.

Bentham chiarisce che il dovere politico al quale il diritto è correlato è creato dalla punizione o, almeno, «by the will of persons who have punishment in their hands; persons stated and certain – political superiors»184. Ancora una volta, il metodo può essere in grado di spiegare

questa particolare esposizione: il nesso tra diritti e doveri stabilito attraverso la nozione di punishment si giustifica infatti tenendo presente che questo termine rimanda all’idea del dolore legato a una determinata azione e prodotto da una causa e da una fonte certe. Il termine dolore è un’idea

semplice ed è perciò capace di accertare la relazione tra le parole utilizzate e la

realtà e di adeguarsi alla natura sensibile ed edonistica dell’uomo

182 «For expounding the words duty, right, power, title, and those other terms of the same stamp that

abound so much in ethics and jurisprudence, either I am much deceived, or the only method by which any instruction can be conveyed, is that which is here exemplified. An exposition framed after this method I would term paraphrasis. A word may be said to be expounded by paraphrasis, when not that word alone is translated into other words, but some whole sentence of which it form a part is translated into another sentence», le cui parole corrispondono ad altrettante idee semplici. L’introduzione della tecnica della parafrasi è considerata necessaria, da Bentham, dallo statuto specifico di parole come gli specifici concetti politici elencati, i quali sono caratterizzati dal fatto di non avere un superior genus (J. Bentham, Fragment, cit., p. 495, n. b). È esattamente questo statuto a rendere insufficiente la definizione per genus et differentiam applicabile al termine Law e illustrata nelle pagine introduttive del Comment. Sulla tecnica della parafrasi si vedano anche Cfr. H.L.A. Hart, Legal Duty and Obligation, in Id., Essays on Bentham, cit., pp. 127-161, in particolare pp. 129-130; P. McReynolds, Jeremy Bentham and the Nature of Psychological Concepts, in «Journal of General Psychology», vol. 82, 1970, pp. 113, 127, in B. Parekh, Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit., vol. II, pp. 145-159, p. 156; J.E. Crimmins, Secular Utilitarianism, cit., pp. 50-51; P. Schofield, Utility & Democracy, cit., pp. 23 e sgg.)

183 J. Bentham, Fragment, cit., p. 495, n. b.

trasmettendo di conseguenza il significato dei termini right e duty185. Anche in

questo caso, la necessità di accertare il significato delle parole attraverso il costante riferimento alla realtà, è all’origine di una concezione interamente

positiva del concetto di right, che segnala immediatamente una decisa

distanza dal discorso giusnaturalistico: i diritti sono diritti politici, prodotti dalla volontà efficace di un superiore politico. È chiaro che l’orizzonte dei diritti naturali è già stato abbandonato. Si tratta di comprenderne le ragioni per valutare compiutamente la critica benthamiana al discorso degli americani.

La reciproca implicazione di diritti e doveri costituisce il cardine dell’esposizione di Bentham: affinché un individuo possa considerarsi titolare di un diritto, è necessario che tale diritto si configuri come dovere di un altro individuo. Si tratta di un nesso inscindibile la cui prima implicazione consiste nel ruolo centrale attribuito alla legge e, attraverso la legge, alla

punizione capace di rendere effettivo un determinato diritto. Questa effettività,

infine, è possibile solo in presenza di un superiore politico, una figura terza capace di governare il rapporto tra gli individui secondo criteri di certezza. È questa struttura logica che rende impossibile pensare la condizione naturale degli uomini come condizione ordinata e di diritto. Se si considera infatti la dottrina lockeana, la possibilità di affermare che nello stato di natura gli uomini siano titolari di diritti naturali riposa su una specifica gerarchia antropologica che differenziando uomini ragionevoli e bestie feroci consente di mantenere la separazione tra stato di natura e stato di guerra. Si tratta, come si è visto, di una distinzione precaria, poiché se da una parte l’effettività dei diritti è garantita dal fatto che ciascuno è titolare del potere esecutivo della legge di natura, dall’altra la corruzione degli individui e il loro agire secondo l’immediato interesse minacciano continuamente l’ordine naturale, rendendo necessaria l’istituzione di un giudice comune. L’uguaglianza naturale si configura dunque come una minaccia, e tuttavia la distinzione tra stato di natura e stato di guerra è fatta salva – e con essa la possibilità di immaginare l’istituzione di un potere politico limitato dai diritti che lo precedono – attraverso la continua distinzione tra l’ordine naturale e la sua “corruzione”. L’uguaglianza degli individui è così neutralizzata, proprio perché inscritta nella gerarchia antropologica di cui si è parlato. Dal momento che la libertà su cui è fondata la proprietà di sé è accessibile solo a coloro che mettano in

pratica quella capacità di agire moralmente concessa da Dio a tutti gli uomini,

l’uguale capacità di diritto esibisce un carattere essenzialmente escludente: gli uguali sono i ragionevoli, i ragionevoli sono i proprietari. L’uguaglianza,

185 «I said punished: for without a notion of punishment (that is of pain annexed to an act, and

accruing on a certain account, and from a certain source), no notion can we have of either right or duty» (Ivi, p. 495, n. b).

in questo modo, è tale da non contenere in sé alcun elemento di conflittualità, poiché il conflitto è semmai introdotto da quanti non corrispondono pienamente alla loro umanità. È dunque questa uguaglianza tra simili che garantisce uno spazio ordinato, e che prelude al consenso sull’istituzione di un potere politico limitato dalla sua conformità all’ordine “giuridico” e morale che lo precede.

Ciò che attacca questa logica alla radice è l’antropologia politica proposta da Bentham che, come si è visto, considera l’agire mosso dall’interesse non come degenerazione ma come carattere distintivo e universale della natura umana. Gli individui sono uguali, e questa uguaglianza radicale determina una altrettanto radicale differenza che si traduce nell’impossibilità di affermare una norma certa e riconosciuta precedente l’ordine politico. La legge di natura, come si è detto, proprio perché trascendente è inaccessibile all’unica conoscenza ammessa da Bentham, quella empiricamente fondata, e non può che corrispondere di conseguenza a giudizi di approvazione e disapprovazione. Da qui la necessità di comprendere nella definizione di

right e duty una fonte certa, individuando nella legge umana come

espressione della volontà dei governanti l’origine dei diritti e dei doveri. D’altra parte, se pure si riconoscesse alla legge di natura il carattere di legge, essa sarebbe ineffettiva in una condizione di perfetta uguaglianza come quella naturale, nella quale per definizione nessun individuo ha un potere politico superiore a un altro186, dal momento che secondo Bentham una

volontà priva di un potere che la sorregga è niente187. Per questi motivi egli

esplicita nella sua definizione che la legge coincide con la volontà di coloro che detengono il potere di punire, ovvero i political superiors. Ancora una volta, dunque, all’origine della definizione fornita da Bentham vi è una concezione della natura umana alla luce della quale risulta impossibile l’ipotesi di uno stato di natura come condizione di diritto. Piuttosto, la radicale eguaglianza degli individui che si esprime nella loro natura desiderante sembra condurre all’ipotesi di un bellum omnium contra omnes di derivazione hobbesiana, prodotto da quella coincidenza tra jus e utile alla luce della quale il diritto di tutti a ogni cosa corrisponde a non avere alcun diritto188.

186 «’But as all the members of Society” (meaning natural Society) ‘are naturally EQUAL’ (i.e. I

suppose, with respect to political power, of which none of them as yet have any)» (J. Bentham, Fragment, cit., p. 449). Si tratta evidentemente di un riferimento alla definizione lockeana dello stato di natura, «a State also of Equality, wherein all the Power of jurisdiction is reciprocal, no one having more than another» (J. Locke, Second Treatise, cit., ii, 4, p. 269.

187 J. Bentham, Comment, cit., p. 102.

188 «Nature hat given all things to all men; insomuch that Jus & Utile, Right and Profit, is the same

thing. But that right of all men to all things, is in effect no better than if no man had Right to any thing» (T. Hobbes, De Corpore, cit., p. 4). In questa «radicale carenza di ordine naturale» che si può ricercare la novità dell’artificio politico hobbesiano il cui fine non è più «attingere politicamente il summum bonum

Se da una parte la definizione positiva del termine right deriva dalla sistematica decostruzione dell’ordine naturale lockeano, dall’altra la mossa decisiva compiuta da Bentham consiste nella radicale negazione dell’ipotesi logica dello stato di natura come condizione di perfetta uguaglianza distinta, se non contrapposta, dalla condizione di governo. Criticando la confusione del discorso di Blackstone189, egli chiarisce infatti che:

The idea of a natural society is a negative one. The idea of a political society is a positive one. ‘Tis with the latter, therefore we should begin. When a number of persons (whom we may style subjects) are supposed to be in the

habit of paying obedience to a person, or an assemblage of persons, of a known

and certain description (whom we may call governor or governors) such persons altogether (subjects and governors) are said to be in a state of political society. The idea of a state of natural society is, as we have said, a negative one. When a number of persons are supposed to be in the habit of conversing with each other, at the same time that they are not in any such habit as mentioned above, they are said to be in a state of natural society190.

Con idea negativa Bentham intende qualcosa che è possibile definire solo alla luce di un’assenza191, nel caso specifico l’assenza di quell’habit of obedience

che contraddistingue la società politica strutturando il rapporto tra governanti e governati. Ridurre la società naturale a idea negativa non significa negarne in astratto l’esistenza, ma corrisponde piuttosto alla necessità di prendere le mosse dalla realtà, ovvero dalla società politica, ma consentire al singolo di fuggire il summum malum, la morte fisica angosciosa e prematura. […] La crisi dell’ordine tradizionale genera dunque, in Hobbes, una risposta che si manifesta come nuova interpretazione dei mezzi e dei fini della politica; perché tale risposta sia possibile, perché si instauri il potere impersonale e stabile della legge, perché l’ordine artificiale neutralizzi il conflitto naturale, è necessaria non solo una ‘decisa’ opzione (una ‘fede’) a favore della capacità ordinativa della ragione, ma anche un’alienazione tanto brusca e totale da essere descritta da Hobbes, come è noto, nei termini di una rinuncia integrale al diritto naturale, alla naturale facoltà di azione illimitata di ciascuno» (C. Galli, La «macchina» della modernità. Metafisica e contingenza nel moderno pensiero politico, in Id. (a cura di), Logiche e crisi della modernità, Bologna, il Mulino, 1991, pp. 83-142, cit. pp. 102-103).

189 «The world ‘SOCIETY’, I think it appears, is used by him, and that without notice, in two senses

that are opposite. In the one,SOCIETY, or aSTATE OF SOCIETY, is put synonymous to aSTATE OF NATURE; and

stands opposed toGOVERNMENT, orSTATE OF GOVERNMENT: in this sense, it may be styled, as it commonly

is, naturalSOCIETY. In the other, it is put synonymous toGOVERNMENT, or aSTATE OF GOVERNMENT; and

stands opposed to aSTATE OF NATURE. In this sense it may be styled as is commonly is a politicalSOCIETY»

(J. Bentham, Fragment, cit., p. 428).

190 Ivi, pp. 428-429

191 Bentham scriverà in seguito che «the idea of non non-existence is the idea of absence extended.

Take any place, and therewith, any real entity – any body existing in that place, suppose it no longer existing in that place, you suppose its absence, its relative non existence. Expel it, in like manner, from every, from all, place, you suppose its absolute non-exixtence» (J. Bentham, Ontology, cit., p. 210). Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo descrivendo le diverse possibili forme dell’habit of obedience, è precisamente questa idea di assenza relativa che Bentham applica, come vedremo, nella descrizione della forma federale del rapporto imperiale.

invertendo in questo modo la priorità logica che il giusnaturalismo attribuisce alla condizione naturale degli uomini. Nella prospettiva di Bentham non è pensabile una condizione umana che non sia sociale, e questa convinzione stabilisce per motivi molto diversi una presa di distanza tanto dal radicale atomismo che caratterizza la condizione naturale hobbesiana, quanto da quella condizione di libertà e uguaglianza che costituisce, per Locke, il perfetto stato di natura192. Bentham in primo luogo nega qualsiasi

successione cronologica e logica tra la condizione naturale e quella politica. La società naturale non è quella condizione in cui non si è condannati all’obbedienza in virtù della propria forza, come avviene per Hobbes, o grazie alla ragionevole uguaglianza della proprietà, come è per Locke. Né la società politica è quella condizione nella quale un potere supremo può legittimamente pretendere l’obbedienza e quindi la subordinazione dei suoi sudditi in virtù della finzione consensuale o rappresentativa. Le “due società” per Bentham non si escludono reciprocamente, né l’una può essere considerata il presupposto dell’altra. Egli afferma chiaramente che nonostante le definizioni consolidate di società politica e di società naturale trasmettano a un primo sguardo l’idea di una perfetta presenza o assenza dell’abitudine all’obbedienza, una simile perfezione è soltanto una stravagante supposizione193. Conformemente al suo empirismo, Bentham

registra che la storia non fornisce alcun esempio delle due condizioni

perfette194, perché la perfezione pretende, secondo lui, la continuità nel tempo

e l’irreversibilità della condizione. Rovesciando l’idea madre del giusnaturalismo, che nega la presenza di qualunque rapporto politico nello stato di natura, Bentham afferma che gli individui nascono in una perfetta condizione di subordinazione ai propri genitori e che tale subordinazione costituisce una perfetta società politica. Si tratta tuttavia di una subordinazione che col tempo si trasforma al punto da far venir meno l’obbedienza, dando vita a un rapporto di perfetta società naturale195. Proprio

per l’inevitabilità dell’obbligazione, la family society può essere considerata il “prototipo” di una società politica destinata però a decadere e quindi a rivelare la propria “imperfezione”. La subordinazione è determinata in prima istanza dalla necessità, ovvero dalla debolezza fisica dei bambini, e può sussistere oltre questa necessità in virtù di principi morali come l’affetto, la gratitudine, il timore reverenziale o la forza dell’abitudine. Questi principi, però, sono destinati a indebolirsi man mano che si estendono, e non possono essere considerati fondativi della società politica allargata la quale dovrebbe

192 J. Locke, Second Treatise, cit., vii, 87, p. 324. 193 J. Bentham, Fragment, cit., p. 431.

194Ibidem. 195 Ivi, p. 433.

essere in grado di continuare per sempre in virtù dei principi che l’hanno costituita196.

Il rovesciamento compiuto nel Fragment è gravido di conseguenze. La condizione di subordinazione dei figli, che per Locke non contraddice l’uguaglianza in cui tutti gli uomini si trovano rispetto al dominio o alla giurisdizione degli uni sugli altri, poiché viene meno quando l’età adulta scioglie quei legami lasciando l’uomo alla sua libera disposizione197, è per

Bentham l’immagine di un rapporto esplicitamente politico. La presenza di potere e subordinazione nega alla radice la possibilità di considerare la condizione naturale come condizione di uguaglianza, e questa constatazione si rivelerà centrale nella critica di Bentham alla Dichiarazione di indipendenza. Ciò non produce, evidentemente, una “naturalizzazione” del potere patriarcale di stampo filmeriano – posto che, anche in questo caso in continuità con Hobbes, Bentham non prende le mosse da una presunta naturale inferiorità della donna e ammette che i figli possano sottrarsi alla subordinazione198 – ma è il segno di una logica che non si pone il problema

196 «To constitute what is meant in general by that phrase [political society] a greater number of

members is required, or, at least, a duration capable of a longer continuance. Indeed, for this purpose, nothing less, O take it, than an indefinite duration is required. A society, to come within the notion of what is originally means by a political one, must be such as, in its nature, is not incapable of continuing for ever in virtue of the principles which gave it birth» (Ivi, p. 431). A identificare nella capacità di durata l’unica distinzione possibile tra società naturale e politica è Hume, (L. J. Hume, Bentham and Bureaucracy, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 64-66) il quale tuttavia conclude che proprio per questo il rapporto di comando e obbedienza all’interno della famiglia non può essere considerato politico. Ci sembra, in realtà, che la conclusione non sia condivisibile, ma che al contrario, in questo modo, Bentham stia esattamente riconoscendo il carattere politico dei rapporti sociali, dunque una politicità che eccede la dimensione dello Stato. Su questo punto si tornerà nelle conclusioni di questa ricerca.

197 J. Locke, Second Treatise, cit., vi, 55, p. 304. Sulla critica di Bentham allo stato di natura lockeano

nell’ambito più generale della sua critica al contratto originario mi permetto di rimandare al mio Governare la felicità. Riflessioni sulla rinuncia al contratto originario nel pensiero politico di Jeremy Bentham, in S. Chignola, G. Duso (a cura di), Storia dei concetti. Storia del pensiero politico, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, pp. 63-117, in particolare pp. 87 e sgg.

198 Con Hobbes, Bentham condivide che la differenza sessuale non coincida con una differenza di

razionalità, e per questo definirà tirannica la subordinazione della donna sulla base di una simile giustificazione (J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, a cura di J.H. Burns, H.L.A. Hart, Oxford, Clarendon Press, 1996, ch. XVI, iii, p. 245, n. f4). Come Hobbes, ancora, egli