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Il tempo della rivoluzione.

UN FRAMMENTO SULL’AMERICAN

1. Il tempo della rivoluzione.

L’impatto del conflitto imperiale impone un ripensamento delle categorie fondamentali della scienza del governo. Su queste basi, Bentham elabora una proposta politica che si dipana da una comprensione degli eventi americani come rivoluzione ormai compiuta. Egli non abbandona la tensione critica nei confronti dei discorsi politici che danno voce alla controversia coloniale, tanto che la sua interpretazione dei fatti non può mai essere separata dalla decostruzione sistematica delle retoriche adottate dai coloni per giustificare la rivolta contro la madrepatria. Questa è la prospettiva della polemica ingaggiata da Bentham con il contrattualismo di Sir William Blackstone che attraversa il primo capitolo del Fragment, dedicato alla formazione del governo.

La critica di Bentham al contratto originario come fondamento dell’ordine politico legittimo prende le mosse dalla distinzione tra natural e political

society che si è analizzata nel capitolo precedente, la cui particolare

declinazione non lascia dubbi in merito all’oggetto della sua attenzione. Egli afferma infatti che per chiarire se un uomo, o una compagnia di uomini, si trovino nell’una o nell’altra condizione, è necessario fare riferimento a una parte diversa da quella di cui si parla1:

the difference between the two states lies, as we have observed, in the habit

of obedience. With respect then to a habit of obedience, it can neither be

understood as subsisting in any person, nor as not subsisting in any person, but with reference to some other person. For one party to obey, there must be another party that is obeyed2.

In virtù del carattere necessariamente relativo della condizione naturale e di quella politica, continua Bentham, è possibile dire che una parte può allo

1 «A remark there is, which, for the more thoroughly clearing up of our notions on this subject, it

may be proper here to make. To some ears, the phrases, ‘state of nature’, ‘state of political society’, may carry the appearance of being absolute in their signification: as if the condition of one man, or a company of man, in one of these states, or in the other, were a matter that depended altogether upon themselves» (J. Bentham, Fragment, cit., pp. 431-432).

stesso tempo obbedire e non obbedire in relazione a differenti persone o a differenti oggetti d obbedienza, oppure che può essere o non essere in uno stato di natura rispetto ai differenti termini di riferimento adottati3. Si tratta di una

spiegazione generale che però non ha niente di generico, perché rimanda chiaramente ai problemi ampiamente dibattuti nell’ambito della controversia imperiale. Già i termini con i quali la riflessione è introdotta sono significativi, poiché la distinzione tra un uomo e una compagnia di uomini richiama in modo molto preciso i soggetti titolari delle charters coloniali, distinti in proprietari e compagnie commerciali4. Inoltre, nel momento in cui

esplicita la necessità di considerare diverse persone nella prospettiva di definire la sussistenza di un rapporto di subordinazione, Bentham sembra riferirsi a uno dei nodi cruciali del problema imperiale, se le colonie siano o meno tenute ad obbedire al parlamento. Non c’è dubbio che il suo sguardo sia rivolto all’impero, e gli esempi adottati per dare ragione del carattere relativo dell’habit of obedience sono, in questo senso, molto significativi:

in the same manner we may understand how the same man, who is

governor with respect to one man or set of men, may be subject with respect to

another: how among governors some may be in a perfect state of nature with respect to each other: as the KINGSof FRANCE and SPAIN: others, again, in a state of perfect subjection, as the HOSPODARS of WALACHIA and MOLDAVIA with respect to the GRANDSIGNIOR: others, again, in a state of manifest but imperfect

subjection, as the GERMANStates with respect to the EMPEROR: others, again, in such a state in which it may be difficult to determine whether they are in a state of imperfect subjection or in a perfect state of nature: as the KINGof NAPLES with respect to the POPE5.

3 «Hence may one and the same party be conceived to obey and not to obey at the same time, so as

it be with respect to different persons, or as we may say, to different objects of obedience. Hence it is, then, that one and the same party may be said to be in a state of nature and not to be in a state of nature, and that at one and the same time, according as it is this or that party that is taken for the other object of comparison» (Ibidem).

4 La distinzione riposa sul carattere “privatistico” della colonizzazione e alla sua storia. In un primo

momento, la soluzione giuridica adottata per promuovere le piantagioni in America del Nord (soluzione particolarmente apprezzata dagli Stuart) fu quella di concedere vasti possedimenti “in proprietà” a una singola persona (secondo una pratica evidentemente rilevante, se si tiene presente che al momento della Dichiarazione di indipendenza ben nove colonie su tredici avevano iniziato la propria vita come colonie in proprietà, ed è significativo constatare che «la “proprietà concessa” è più una giurisdizione che un pezzo di terra». Proprio per questo, tale formula viene messa in discussione e superata in seguito alla Gloriosa rivoluzione: la Carta concessa alla Georgia nel 1732, ad esempio, differentemente dai casi precedenti non concedeva una proprietà perpetua e trasmissibile ma limitata a trent’anni. L’altra via che favorì la formazione di insediamenti sulle coste dell’America del Nord fu quella che ubbidiva alla logica delle società per azioni o alla company alla quale veniva riconosciuto il monopolio del commercio con una determinata regione. Simili società ottennero dalla corona insieme al riconoscimento della loro personalità giuridica quello del privilegio o il monopolio di commerciare e sfruttare il continente (N. Matteucci, La Rivoluzione Americana, cit., pp. 188-190).

Ciascuno di questi casi storici pone il problema di stabilire quale relazione sussista tra le colonie e la madrepatria, e si vedrà più avanti che il riferimento all’Impero germanico, in modo particolare, costituisce un’arma contro il rifiuto ostinato di ogni ipotesi di subordinazione parziale o di autonomia delle colonie americane espresso dai sostenitori del governo britannico. Più in generale, tutti gli esempi elaborati da Bentham contengono rimandi più o meno espliciti alla questione imperiale, e non può stupire in questa prospettiva il suo invito a considerare, nel seno di questa riflessione,

the different shares which different persons may have in the issuing of the same command: to explain the nature of corporate action: to enumerate and distinguish half a dozens or more different modes in which subordination between the same parties may subsist: to distinguish and explain the different senses of the words ‘consent’ and ‘representation’ and others of connected import: consent and representation, those interesting but perplexing words, sources of so much debate: and sources or pretext of so much animosity6.

Con questi argomenti, Bentham si colloca pienamente nel seno dell’American Controversy: eclatante, in questo senso, è il riferimento alle «interesting but perplexing words consent and representation», ma non è meno importante il problema della corporate action, se si tiene presente che lo statuto delle corporation e la loro posizione rispetto alla sovranità parlamentare chiamano in causa uno dei temi costituzionali più dibattuti nell’ambito della controversia7. Da questo punto di vista può essere

sufficiente ricordare che proprio Bentham, analizzando le charters di Connecticut e Rhode Island per i Remarks di Lind, sottolinea che le due colonie erano state definite dalle charters alla stregua delle altre corporations inglesi, sostenendo in questo modo la subordinazione dei legislativi coloniali al potere supremo del parlamento britannico8. Se Bentham non entra nel

merito delle diverse questioni sollevate, è perché esse costituiscono piuttosto un’indicazione del contesto nel quale egli intende radicare la propria riflessione, quello del conflitto imperiale. Solo in questo spazio politico9 il

6 Ivi, p. 433.

7 Si ricorda ad esempio il problema posto da Thomas Pownall in The Administration of the British

Colonies, cit., p. 60, cfr. supra, cap. I, p. 17.

8 [J. Lind], Remarks, cit., p. 124, cfr. supra, cap. 2, p. 180.

9 Il ricorso alla categoria di «spazio politico» per riferirsi alla dimensione imperiale non ha solo a

che fare con la «concreta percezione e organizzazione dello spazio geografico di cui fa esperienza una data civiltà», ovvero con la «esplicita dislocazione dello spazio realizzata dal concreto articolarsi del potere, dei poteri, sulla scena del mondo» (C. Galli, Spazi politici. L età moderna e l età globale, Bologna, il Mulino, 2001, p. 11). Ciò che si intende con queste parole è a un tempo quell’insieme di rappresentazioni attraverso le quali «le teorie politiche formano i propri concetti, dispongono gli attori, ne organizzano le azioni, e disegnano i fini della politica in termini di collaborazione e di conflitto, di ordine e disordine, di gerarchia e di uguaglianza, di inclusione e di esclusione, di confini e di libertà, di

problema della formazione del governo può essere analizzato e compreso in tutto il suo spessore.

La riflessione di Bentham è guidata dalla necessità di individuare quelle «congiunture» in cui l’habit of obedience possa avere luogo o venir meno, tenendo presente che un gruppo di uomini che in un certo momento si trovano tra di loro in uno stato di natura possono, in un altro momento, trovarsi in una condizione politica e che, soprattutto, «at certain juncture it may take place and cease»10. Anche questo è un chiarimento importante,

perché colloca l’habit of obedience in una dimensione temporale e tradisce la necessità di adeguare la categoria descrittiva all’orizzonte del mutamento. Su queste basi, Bentham avanza diverse ipotesi, la prima delle quali riguarda il caso particolare degli indiani d’America: tra loro, l’habit of obedience emerge in tempo di guerra, quando la necessità di organizzarsi contro un nemico comune induce la tribù a unirsi sotto un capo, e viene meno quando, restaurata la pace, ogni guerriero ritorna alla sua originaria indipendenza11.

L’esempio è rilevante perché, chiamando in causa la storia, esprime l’esigenza di definire strumenti analitici capaci di dare ragione della sua complessità, e tuttavia non è in grado di indicare un «characteristic mark» attraverso cui distinguere una società nella quale l’abitudine all’obbedienza sia presente e tale da costituire una condizione di governo, da una società nella quale quell’abitudine sia assente. Un segno, precisa Bentham, «which shall have a visible, determinate commencement; insomuch that the instant of its first appearance shall be distinguishable from the last at which it had not as yet appeared»12. Un’altra ipotesi è che tale momento si verifichi con

«the establishment of names of offices: the appearance of a certain man, or set of men, with a certain name, serving to mark them out as objects of obedience»13. Si tratta di una risposta plausibile ma non ancora esaustiva,

soprattutto se si considera l’eventualità di «an uncontestable political society, sedentarietà e di nomadismo, di marginalità e di centralità» (Ibidem), oltreché le «forme e deformazioni reali dello spazio politico», i «conflitti che nascono da dinamiche di inclusione e di esclusione, di appartenenza o di espulsione», che rendono lo spazio politico comprensibile «come arena della prassi, come teatro del potere reale» (Ivi, p. 15).

10 «In the same manner, also, it may be conceived, how the same set of men considered among

themselves, may at one time be in a state of nature, at another time in a state of government» (J. Bentham, Fragment, cit., p. 433).

11 «Instances of this state of things appear not to be unfrequent. The sort of society that has been

observed to subsist among the AMERICANINDIANS may afford us one. According to the accounts we

have of those people, in most of their tribes, if not in all, the habit we are speaking of appears to be taken upon only in time of war. It ceases again in time of peace. The necessity of acting in concert against a common enemy, subjects a whole tribe to the orders of a common Chief. On the return of peace, each warrior resumes his pristine independence» (Ivi, p. 434). Probabilmente, Bentham mutua questo esempio da David Hume (Id., Trattato, cit., vol. II, p. 572).

12 J. Bentham, Fragment, cit., p. 434. 13Ibidem.

and that a large one, formed; an from that a smaller body to break off». Ammettendo che il corpo più piccolo possa rompere l’unione politica senza nominare governanti con nuovi nomi, che nel nuovo Stato il popolo [the

people] riceva i comandi da quei governanti che prima erano subordinati e ora

sono supremi e che questo passaggio abbia luogo per gradi, quale potrebbe essere il segno caratteristico che stiamo cercando?14 L’ipotesi trova riscontro

nella vicenda delle province olandesi, un tempo parte della monarchia spagnola, in una condizione di unione politica rispetto ad essa e soggette a un singolo governante, il re di Spagna, ora indipendenti. In questo caso, si domanda Bentham, «at what precise juncture did the dissolution of this political union take place?»15.

Invocando la realtà storica, Bentham produce un radicale scarto discorsivo. Il problema della formazione del governo, la domanda su quale sia il segno caratteristico capace di distinguere una condizione di assenza da una condizione di presenza dell’habit of obedience assume una declinazione specifica e politicamente cruciale nel contesto dell’American Controversy:

At what precise juncture is it, that persons subject to a government, become, by disobedience, with respect to that government, in a state of nature? When is it, in short, that a revolt shall be deemed to have taken place; and when, again, is it, that that revolt shall be deemed to such a degree successful, as to have settled into independence?16.

Se si considera che l’intero progetto politico e morale di Bentham riposa sulla necessità di riformare il linguaggio per comprendere la realtà, la scelta delle parole non può passare inosservata. Nel 1776 parlare di disobbedienza, di rivolta o indipendenza, significa parlare di America, e nel momento in cui si riconosce che è questo l’orizzonte storico del Fragment on Government, la critica benthamiana al contrattualismo blackstoneano assume un significato politico. In questione non è solo il fondamento del governo legittimo e con esso dell’obbedienza, ma anche e soprattutto il discorso adottato dagli americani per giustificare la propria resistenza al governo britannico. Più radicalmente, è anzi possibile affermare che Bentham non critica affatto il

14 «What means shall we find for ascertaining the precise juncture at which this change took place?

What shall be taken for the characteristic mark in this case? The appointment, may be said, of new governors with new names. But no such appointment, suppose, takes place. The subordinate governors, from whom alone the people at large were in use to receive their commands under the old government, are the same from whom they receive them under the new one. The habit of obedience which these subordinate governors were in with respect to that single person, we will say, who was the supreme governor of the whole, is broken insensibly and by degrees. The old names by which these subordinate governors were characterized, while they were subordinate, are continued now they are supreme. In this case it seems rather different to answer» (Ivi, pp. 434-435).

15 Ivi, p. 435. 16Ibidem.

contrattualismo di Blackstone, che si riduce solo a un pretesto per una presa di posizione di respiro ben più ampio. Bisogna infatti tenere presente la peculiarità del discorso sviluppato nei Commentaries: qui Blackstone nega risolutamente che un contratto sia stato stipulato in modo formale al momento dell’istituzione dello Stato, e tuttavia ritiene che «in nature and reason must always be understood and implied, in the very act of associating together». Si tratta di ipotizzare un accordo in virtù del quale la comunità si fa garante dei diritti dei suoi membri, che da parte loro si sottomettono, in cambio di questa protezione, alle leggi della comunità stessa. Senza questa subordinazione nessuna protezione sarebbe possibile, ed è per questo che si può affermare che «when civil society is once formed, government at the same time results of course, as necessary to preserve and to keep that society in due order»17. Il ricorso al contratto da parte di Blackstone rivela però una

funzione politica ben determinata, quella di fornire una giustificazione consensuale del sistema sovrano del King in Parliament. Infatti, nell’introduzione ai Commentaries presa in esame da Bentham l’ipotesi della resistenza è invocata solo in un caso, quello dell’alterazione del legislativo: poiché è legittimo solo quel governo che abbia origine dal consenso e persegue il fine della preservazione della società, e poiché si presume che il legislativo britannico sia il prodotto di un ipotetico «general consent and fundalmental act of the society», i vincoli del governo sarebbero distrutti nel caso in cui subisse una trasformazione. In una simile eventualità, afferma Blackstone, «the people are […] reduced into a state of anarchy, with liberty to constitute themselves a new legislative power»18.

Bentham muove una sola critica al discorso di Blackstone: quest’ultimo parla come historical observer ma agisce come Censor, esprimendo i propri sentimenti di approvazione19. Il suo intento non è quello di descrivere

l’origine del governo, ma di giustificarla perché vantaggiosa e necessaria a preservare gli uomini in una condizione ordinata20. Tuttavia, la sua ipotesi

non solo non fa i conti con la storia, non riesce cioè a giustificare l’esistenza di quei popoli primitivi che sono ancora fuori dalla condizione di governo, ma non ha storia21. Come tutti i giuristi che tessono le lodi del contratto

17 W. Blackstone, Commentaries, cit., pp. 35-36. 18 Ivi, p. 38.

19 J. Bentham, Fragment, cit., p. 437.

20 «In short, what the meant, perhaps, to persuade us of, was not that ‘government’ does actually

‘result’ from natural ‘society’; but that it were better that it should, to wit, as being necessary to ‘preserve and keep’ men ‘in that state of order’, in which it is of advantage to them that they should be» (Ibidem).

21 Se fosse vero quanto affermato dall’autore dei Commentaries, per cui una volta che sia formata

una società – si suppone una società naturale – il governo ne risulta necessariamente, allora una qualunque società politica dovrebbe essere stata istituita in tempi remoti in tutto il mondo. Sulla verità di questa affermazione, «let any one judge from the instances of the Hottentots, of the Patagonians, and

originario, Blackstone sarebbe incapace di aprire «that page of history in which the solemnization of this important contract was recorded». Il contratto stesso è solo una finzione, «but the season of Fiction is now over», afferma Bentham perentorio; «the indestructible prerogatives of mankind have no need to be supported upon the sandy foundation of a fiction»22. Così,

prosegue Bentham, «I bid adieu to the original contract: and I left it to those to amuse themselves with this rattle, who could think that they need it»23. Il

contratto originario, in breve, non è all’altezza della necessità di fondare scientificamente il discorso sul governo, eppure Bentham non rinuncia a passare al setaccio la sua logica interna, con una presa di distanza dal testo dei Commentaries che rivela chiaramente il suo effettivo referente polemico.

In questione è, in primo luogo, la possibilità di considerare il contratto (compact o contract), che Bentham definisce come un paio di promesse fatte reciprocamente da due persone l’una in considerazione dell’altra24, come il

segno caratteristico che permette di individuare il principio o il venir meno

dell’abitudine all’obbedienza. Questa presunzione si fonda sull’assunto che i patti si devono rispettare, e che se una parte non corrisponde alla parola