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RICOSTRUZIONE DEMOCRATICA

3.1 DEMOCRATIZZAZIONE E PEACEBUILDING A CONFRONTO

Come sostengono Call e Cook, “sosteniamo che non soltanto gli specialisti del peacebuilding e della democratizzazione hanno bisogno di conoscersi meglio, ma che migliori risultati sono possibili con maggiori

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risorse, più lunghi orizzonti temporali, ed attenta considerazione dei modelli di governance caso per caso”165.

I risultati del modello di ricostruzione democratica dimostrano come debba essere spesa una maggiore attenzione al contesto locale specifico ed alle necessità d’integrazione di appropriati modelli di governance esterna con pratiche locali appropriate e legittimate. Quello che può sembrare un ingenuo appello ad una maggiore partecipazione a livello locale, è in realtà il riconoscimento del complesso lavoro sotteso alla costruzione di modelli di

governance coerenti con le istituzioni locali. Al momento sembra che gli

operatori nazionali ed internazionali, limitati nell’agire da risorse scarse e scadenze, abbiano avuto la tendenza ad implementare modelli esterni senza prestare una considerevole attenzione alle opzioni offerte dalle istituzioni locali. Per questo motivo, a questo punto, gli strumenti offerti dalla letteratura sulla democratizzazione possono accorrere in aiuto. Si esamineranno innanzitutto le relazioni tra la letteratura attuale sul

peacebuilding e le idee prevalenti in tema di democratizzazione. Dopo aver

identificato questi punti di contatto, si passerà ad identificare i punti salienti di convergenza e poi divergenza tra le due letterature.

Innanzitutto entrambe le letterature fanno riferimento ad una presupposto liberale. Nonostante la convinzione del contrario, la teoria sulla democratizzazione soffre di uno dei limiti delle teorie della modernizzazione, che include la tendenza a vedere l’esperienza occidentale sia come metro normativo che come aspettativa empirica. L’assunto frequentemente proposto secondo cui le transizioni di regime dall’autoritarismo conducono

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“We argue that not only do peacebuilding and democratisation specialists need to better learn

from one another, but that improved outcomes are possible with greater resources, longer time horizons, and careful consideration of democratic governance models in each case” in C. T. CALL e

necessariamente ad una sorta di democrazia ha ricevuto una certa dose di critiche166. A questo si aggiunge una tendenza da parte della letteratura della promozione democratica a sostenerne la linearità e l’inevitabilità167. D’altro lato, anche la letteratura sul peacebuilding ha a lungo sofferto del pregiudizio secondo cui le transizioni avverrebbero in maniera lineare e che sarebbero sufficienti accordi individuali con parti economico-politiche, senza dover intraprendere politiche inclusive con gruppi sociali. A ciò si aggiunge che, nonostante alcuni accenni ad aspetti non elitari della struttura sociale del regime da costruire, la maggioranza della letteratura si è concentrata sui processi elitari.

In secondo luogo, al di là della presunzione liberale, un altro aspetto comune alle due letterature è l’assunto secondo cui “tutte le cose buone vanno insieme”168. Infatti, la letteratura sul peacebuilding dà origine a

modelli concettuali che prevedono misure che possano assicurare il sostegno popolare alle nuove strutture governative, come una nuova piattaforma di diritti, tornate elettorali, piani di disarmo, rimpatrio dei rifugiati e riforme politiche e giudiziarie. “E’ da rimarcare quanta poca attenzione è data alle contraddizioni che possono emergere da questo insieme di riforme allo Stato ed alla società”169. In effetti, gli analisti tendono

a sottostimare le connessioni tra gli interessi delle élite nel contesto di una nuova governance postconflitto e la maggiore partecipazione da parte della

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T. CAROTHERS, “The End of the Transition Paradigm”, Journal of Democracy, 13, n.1, gennaio 2002, pp.5-21; T. L. KARL, “The Hybrid Regimes of Central America”, Journal of Democracy, 6, n.3, luglio 1995, pp.72-86, L. DIAMOND, “Thinking About Hybrid Regimes”, Journal of

Democracy, 13, n.2, aprile 2002, pp.21-35

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T. CAROTHERS, “The End of the Transition Paradigm”, Journal of Democracy, 13, n.1, gennaio 2002, pp.5-21

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“all good things go together” in R. PACKENHAM è l’autore di questa espressione in Liberal

America in Third World, Princeton, Princeton University Press, 1973

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“It is remarkable how little attention is given to contradictions likely to emerge from this array of reforms to state and society” in C. T. CALL e S. E. COOK, “On Democratization and

popolazione emarginata. Sebbene, la letteratura sulla democratizzazione tenda a non incappare in questo assunto, molte prescrizioni sulla democratizzazione sostengono che la protezione dei diritti umani e degli interessi delle élite, la partecipazione delle masse e lo stato di diritto possono essere composte tra loro senza che si pongano problemi di trade-off tra le diverse dimensioni (ad es. tra certe garanzie di governabilità alle élite e l’ampia rappresentatività)170. Sembra quasi che la democratizzazione sia considerata una sorta di panacea.

Recentemente, tuttavia, sia la letteratura sulla democratizzazione sia quella sul peacebuilding hanno abbandonato i primi assunti semplicistici. Entrambi hanno riflettuto su singoli eventi oppure su processi maggiormente aperti. La letteratura sul peacebuilding, ad esempio, si è concentrata molto sul concetto di trattato di pace non più come termine finale di un conflitto armato quanto piuttosto come punto iniziale, dal momento che l’implementazione della pace ha raggiunto maggiori consensi171. La riflessione su questo aspetto deriva direttamente da una nuova concezione della ricostruzione che si pone su un continuum tra l’accordo di pace e la prevenzione dei conflitti. Similmente, l’insistenza, da parte di alcuni teorici della democratizzazione di andare oltre le elezioni come l’elemento caratteristico della democrazia. In entrambi i casi, lo spostamento del fulcro della ricerca da singoli eventi a quadri più ampi ha rafforzato l’esigenza di una teoria. Nella concezione della governance postconflitto, sia la letteratura sulla pace che sulla democratizzazione

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J. J. LINZ e A. STEPAN, Problems of Democratic Transition and Consolidation, Baltimore Johns Hopkins University Press, 1996. Per una visione che invece mette in luce la tensione tra politiche di riforma liberale e riforme neoliberali in economia si veda R. PARIS, “Peacebuilding and the Limits of Liberal Internationalism”, International Security, 22, n.2 (autunno 1997), pp.54-89

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N. BALL, “The challenge of Rebuilding of War-Torn Societies, in C. CROCKER e F. HAMPSON (a cura di), Managing Global Chaos, Washington D.C., U.S. Institute of Peace, 1996

condividono l’importanza delle tornate elettorali di livello locale. Le recenti amministrazioni ad interim in Kosovo, Timor Est e Afghanistan hanno organizzato le elezioni delle assemblee locali in precedenza rispetto alle elezioni generali, in uno sforzo di coinvolgimento della partecipazione locale, per rafforzare i diritti civili e le istituzioni prima che il governo centrale assumesse le proprie funzioni e per diffondere delle elezioni di tipo winner

takes all (metodo che presenta comunque altri problemi). I teorici del

peacebuilding stanno addirittura superando il pregiudizio secondo il quale l’unico elemento valutativo del successo di una missione consista nella riuscita delle elezioni generali. A questo i teorici della democratizzazione aggiungono una crescente enfasi sulle dimensioni della ricostruzione del sistema giudiziario e del rule of law172. Infine, entrambi i filoni sostengono che la pace e la sicurezza sono precondizioni per la democratizzazione. Sebbene le guerre spesso inneschino processi di democratizzazione, tutti gli autori concordano sul fatto che il conflitto debba essere concluso affinché il consolidamento democratico possa avere una possibilità di successo173.

In contrasto con la riflessione precedente che mirava a mettere in luce le analogie tra la ricerca sulla transizione democratica e sul

peacebuilding successivo al conflitto, possiamo tentare ora di mettere in

luce i punti di contrasto tra le due letterature.

In primo luogo, i cosiddetti peacebuilders sono più ottimisti circa il ruolo degli attori internazionali rispetto alla maggior parte dei teorici sulla democratizzazione. Alcuni, comunque, come Whitehead, O’Donnel e Schmitter hanno sottolineato la rilevanza della dimensione

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T. CAROTHERS, “The Rule of Law Revival”, Foreign Affairs, 11, n.2, Marzo-Aprile 1998, pp.95-106

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J.J. LINZ e A. STEPAN, Problems of Democratic Transition and Consolidation: Southern Europe,

internazionale174. La maggior parte della letteratura sulla democratizzazione attribuisce infatti un ruolo limitato alle agenzie internazionali oppure è apertamente scettica rispetto a queste175. La letteratura più recente ha invece prestato maggiore attenzione agli attori globali176. La letteratura sul

peacebuilding invece risente molto spesso dell’influenza dei teorici delle

relazioni internazionali che danno quasi per scontata la prospettiva che tiene presenti gli attori internazionali. La Comunità Internazionale ritiene di potersi accollare un ruolo legittimo nell’occuparsi dei problemi legati alle società emergenti dalla guerra. Ci si concentra perciò sul ruolo dei donatori internazionali affinché essi possano migliorare l’efficacia del loro aiuto. Eppure la natura egemonica di queste idee solleva un’ampia gamma di problemi legati al rapporto tra l’intervento internazionale e la sovranità, legati al principio di non interferenza interna. Poiché tale principio si trova ad essere in parte eroso dalle norme sui diritti umani e dal modello di democrazia liberale, il problema è ormai diventato non tanto se, quanto e in quale misura la Comunità Internazionale interverrà nei processi di pace in una data società. In questo senso, la letteratura sulla democratizzazione potrebbe contribuire a risolvere il dilemma del peacebuilding. Infatti, gli autori hanno spesso studiato la democratizzazione a partire da modelli elettorali diversi, divergenti posizioni circa gli equilibri tra i poteri dello Stato, i benefici del presidenzialismo rispetto al parlamentarismo e molte

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G. O’DONNEL, P.C. SCHMITTER e L. WHITEHEAD, Transitions from Authoritarian Rule, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1986

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questo vale in particolare per quegli autori che si sono occupati di transizioni democratiche in Europa meridionale e Sudamerica. Si veda ad es. G. O’DONNEL, P.C. SCHMITTER e L. WHITEHEAD, Transitions from Authoritarian Rule, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1986

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L. DIAMOND e L. MORLINO, Assessing the Quality of Democracy, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 2006, p. viii in cui si fa breve riferimento ad una possibile accountability internazionale che ricade sul regime.

possibili relazioni tra società, politica e istituzioni statali177. Questi dibattiti non risolti offrono una visione sfumata e variegata della governance, che, di fatto, viene data per scontata dalla letteratura sul peacebuilding. Un dibattito unico nel suo genere si è svolto in Sudafrica, quando grandi teorici si sono impegnati in un acceso dibattito con i leader politici del Paese per una riflessione sul possibile sistema elettorale178. Si tratta in effetti di un’eccezione, un dibattito aperto di tal genere non si è mai svolto neppure quando si trattava di un failed state e di cui occorrerebbe valutare più nei dettagli le conseguenze.

Inoltre, le teorie sulla democratizzazione hanno studiato le questioni riguardanti gli effetti della centralizzazione e della decentralizzazione in una transizione. In questo senso i pareri non sono concordi: l’implementazione della pace sembra che spesso richieda il rafforzamento dell’autorità centrale, secondo la logica per cui, senza una reale conclusione della guerra, non può esistere una saggia costruzione della democrazia. Eppure la decentralizzazione è spesso vista come uno strumento necessario per rimuovere l’eccessivo e spesso abusivo potere concentrato in un governo centrale, dando voce e potere alle popolazioni locali marginalizzate, alle diverse appartenenze etniche ed alle concentrazioni territoriali. In ogni caso, se l’autorità locale è più autoritaria di quella centrale, allora la decentralizzazione minaccia la democratizzazione. La decentralizzazione deve essere introdotta tenendo presenti le necessità del contesto specifico,

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J. J. LINZ e A. VALENZUELA (a cura di), The Perils of Presidential Democracy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1994

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si veda in generale sulla transizione in Sudafrica: A. LOLLINI, Costituzionalismo e giustizia di

soltanto in aree funzionali ed in società in cui la decentralizzazione può favorire in qualche modo la partecipazione e la pace179.

Così come la letteratura sul peacebuilding ha prestato limitata attenzione alla partecipazione ed alla democratizzazione, la letteratura sulla democratizzazione ha prestato scarsa attenzione alla guerra ed alle sue conseguenze. Come affermato da Nancy Bermeo180, i lavori principali sulla democratizzazione hanno riconosciuto il ruolo della guerra e delle sue conseguenze ma non ne hanno fatto un trattamento sistematico. La sfida concettuale rimane quella di assicurare che la governance a livello locale e nazionale delle società war-torn sia localmente legittimata, sostenuta ed efficace. Call e Cook denunciano come “studiosi del peacebuilding e della democratizzazione non hanno effettivamente posto una base concettuale per questi sforzi”181. Appare lecito interrogarsi su quali elementi debbano essere

implementati dalle due letterature affinché i limiti dei due modelli possano essere smussati.

La sfida iniziale per gli studiosi del peacebuilding è la precisione concettuale. Le variegate accezioni del termine rendono necessaria una certa chiarezza nella sua definizione. Il termine rinvia agli sforzi volti a trasformare le relazioni sociali e politiche violente in relazioni pacifiche e sostenibili.

Un secondo elemento di divisione concettuale riguarda la natura delle società postconflitto. Il peacebuilding infatti non dovrebbe essere

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D. RUESCHEMEYER, E. H. STEPHENS e J. D. STEPHENS, Capitalist, Development and

Democracy, Cambridge, Polity Press, 1992

180

N. BERMEO, “What the Democratization Literature Says-or Doesnt’ Say about Democracy”, in

Global Governance, 9 (2003), p.165

181

“Scholars of peacebuilding and democratization have not effectively laid a conceptual foundation for these efforts either”C. T. CALL e S. E. COOK, “On Democratization and Peacebuilding”, Global Governance, 9, 2003, p. 237

limitato a società postconflitto, anche se questo contesto enfatizza la necessità della costruzione della pace. In realtà, il peacebuilding dovrebbe essere considerato come un concetto indipendente dalla particolare situazione postbellica. Molti fattori distinguono i Paesi che conoscono una situazione postconflitto rispetto a “non-postwar societies”: un alto numero di combattenti smobilitati, la diffusione di armi leggere, le carenze infrastrutturali e di altre risorse necessarie per la produttività economica, un’abitudine sociale ad una risoluzione violenta dei conflitti, massicci spostamenti delle popolazioni. In ogni caso, l’ampio numero di democrazie postconflitto182 giustifica empiricamente la maggiore attenzione attribuita alle dinamiche di transizione dai conflitti armati, distinguendoli concettualmente dalla transizione democratica o altre forme di transizione di regime183. Comunque, l’utilizzo del termine peacebuilding deve essere contestualizzato. In alcune società, gli spostamenti forzati, la violenza o la situazione di guerriglia non è percepita come fuori dall’ordinario oppure “post-qualcosa”. Naturalmente più le caratteristiche di una società si avvicinano a quelle di una situazione post-conflitto, pur non essendolo, meno ritorna utile quella trama concettuale che ha il proprio fulcro nel termine peacebuilding.

Un terzo elemento concettuale problematico del peacebuilding è quello tra i processi elitari e di livello locale e quelli non elitari. I ricercatori stanno analizzando in misura crescente le esperienze a livello di comunità, includendo progetti di formazione alla risoluzione dei conflitti, allo sviluppo di leadership nella risoluzione dei conflitti, in iniziative di dialogo di

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si veda la Tabella 1 a pag.3

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C. T. CALL, “War Transitions and the New Civilian Security in Latin America”, Comparative

comunità e conferenze e commissioni di pace184. Eppure non si riscontra alcun tentativo di sintetizzare le conoscenze tra queste esperienze di livello locale e la ricerca sulle élite. Probabilmente una traslazione delle esperienze di livello locale ad un più ampio livello nazionale potrebbe aiutare le politiche centrali a rispondere meglio alle realtà locali.

Dopo aver comparato peacebuilding e democratizzazione, è necessario analizzare i limiti del modello di ricostruzione democratica, per poter valutare in che modo le due teorie analizzate possono contribuire a migliorarlo.

3.2 IL MODELLO DI RICOSTRUZIONE