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controllo, Bologna, Casa Editrice Il Ponte, 2004

1.5 PEACEBUILDING: EVOLUZION

La pacificazione e la costruzione di un regime, possibilmente democratico, sono intrinsecamente connesse alla nozione di guerra civile. Le problematicità messe in rilievo nello scorso paragrafo per i conflitti sono ampliati quando si tratta della loro risoluzione. Come sottolinea con forza Wood, “Eppure c’è molto che ancora non capiamo sulle guerre civili e perciò, sostengo io, sugli accordi negoziati e sul peacebuilding”61. Dopo aver

quindi tentato un chiarimento circa ciò che, in questa sede, s'intende per conflitto interno, risulta necessario chiarire anche ciò che s’intende per

peacebuilding. Tale termine è diventato corrente negli anni ’90 ed ha

conosciuto una rapida crescita, specialmente nei circoli politici, ma senza lo stesso grado di istituzionalizzazione in ambito accademico. In realtà il termine conosce il proprio debutto ne An Agenda for Peace del 1992 di Boutros-Ghali: la priorità allora era l’estrapolazione dei bisogni e l’identificazione di quelle risorse internazionali che avrebbero potuto aiutare a soddisfare quei bisogni. Al fine della definizione di un postconflict

peacebuilding, vennero creati un General Assembly Sub-Group on Post- Conflict Peace-building, un gruppo di lavoro formato da esperti e volto a

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"Yet there is a lot we do not yet understand about civil war and therefore, I argue, about negotiated

settlements and peacebuilding” in E. J. WOOD, "Civil Wars: What We Don’t Know", Global Governance, 9, 2003, p. 247

sviluppare un inclusivo Inventory of Post- Conflict Peace-building Activities ed infine un simposio internazionale che riuniva un’ampia gamma di agenzie e unità delle Nazioni Unite e i Paesi donatori. Questo approccio trattava i conflitti come lineari. Il peacebuilding era, per questo motivo, “postconflict” e diventava necessario unicamente dopo che i tentativi di democrazia preventiva erano falliti per prevenire lo scontro armato, dopo che le procedure di peacemaking avevano stabilito una mandato volto a stabilire un accordo negoziato e dopo che il peacekeeping aveva monitorato un cessate il fuoco concordato e probabilmente facilitato il ritorno ad una forma di ordine sociale e politico. La concezione di peacebuilding prevista dall’Agenda includeva qualsiasi settore dell’assistenza internazionale, prendendo direttamente spunto dai mandati delle agenzie delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni regionali. Nei termini dell’Agenda, il

peacebuilding includeva obiettivi specifici che potevano derivare da peace agreement molto dettagliati come il disarmo delle parti, l’addestramento di

forze di polizia, la distruzione delle armi, il monitoraggio delle elezioni, il rimpatrio dei rifugiati a fini più generali quali “la restaurazione dell’ordine… l’avanzamento degli sforzi per proteggere i diritti umani, riformare o rafforzare le istituzioni governative, e promuovere processi formali e informali di partecipazione politica”62. Questo approccio fu inizialmente

molto utile per comprendere le esigenze eterogenee e complesse di una società in una fase successiva al conflitto. Tuttavia, l’approccio deduttivo rimane limitato dall’assunto iniziale, secondo cui il peacebuilding sarebbe la fase finale dell’assistenza internazionale nella risoluzione dei conflitti.

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“the restoration of order ... advancing efforts to protect human rights, reforming or strenghtening

governmental institutions and promoting formal and informal processes of political participation”, B.

Questo approccio ha facilitato una visione segmentata del peacebuilding su cui ritorneremo in seguito. Dall’approccio induttivo sono risultate ulteriore riflessioni interessanti: il peacebuilding in questo caso implica l’analisi di una costellazione di forze sociali, politiche ed economiche che conducono ad un particolare conflitto. In tal senso, le “root causes” tendono ad essere favorite in quanto tali. Eppure questa concezione tende ad offrire risposte differenziate senza dare per scontato che ogni società che esce da un conflitto armato necessiti dello stesso tipo di assistenza internazionale. Questo approccio non è comunque privo di debolezze perché non chiarisce quale importanza attribuire alle diverse cause. Anche se delle teorie sul

peacebuilding si tratterà più diffusamente in seguito, questa breve

riflessione era necessaria per poter provare a recepire una particolare definizione di peacebuilding.

Come messo in evidenza, esistono nozioni di peacebuilding ampiamente divergenti: in questa sede se ne propongono tre, da cui si tenta di estrapolare una definizione.

In primo luogo, molti studiosi fanno riferimento all’accezione data da Boutros Boutros Ghali nell’Agenda for Peace del 1992 che vede il

peacebuilding come le attività di ricostruzione sociali e politiche post-

conflitto volte ad evitare “a relapse into conflict”63. I segnali di questo

approccio sono gli sforzi in direzioni di riconciliazione ampia della società e la costruzione dello Stato in società che escono da un conflitto armato e distinguono il peacebuilding dal peacekeeping o dal peacemaking.

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In secondo luogo, a partire dai lavori di Galtung64 e dal campo dei

peace studies, un’altra concezione del peacebuilding enfatizza la prevenzione

dei conflitti e le iniziative di risoluzione al di sopra oppure al di sotto dello Stato. Se nella prima accezione analizzata, ci si concentra in particolare sul ruolo delle élites, in questo caso invece un ruolo di primo piano è attribuito ai processi non elitari. Questa nozione concettualizza le dimensioni sociali, psicologiche e religiose di processi di risoluzione dei conflitti concretizzati a livello comunitario o locale.

In terzo luogo, ed in contrasto con le prime due accezioni, una parte degli studiosi usa il termine con un riferimento ampio al peacekeeping,

peacemaking e prevenzione dei conflitti. In generale, infatti, questi

obiettano, almeno implicitamente, che le attività di prevenzione nelle società postconflitto differiscano sostanzialmente dalla prevenzione dei conflitti e dei processi di conclusione della guerra da qualsiasi altra società. Sarebbe perciò difficile distinguere la letteratura che si occupa di peacebuilding dalle ricerche più ampie sul peacekeeping ed il termine di una guerra civile.

In questa ricerca, ci atterremo alla prima accezione, che è la più utilizzata in letteratura, senza tuttavia trascurare le ultime due definizioni. Da un lato, infatti, si prenderanno in considerazione quegli elementi psicologici e sociologici fondamentali per la ricostruzione di una società postconflitto, enucleando alcune variabili, come la differenziazione etnica. Dall’altro lato, occorre ricordare il ruolo cruciale esercitato dal tipo di ricostruzione postconflitto dall'attività di prevenzione dallo scoppio di una nuova guerra civile. A questo proposito, preme sottolineare come non

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J. GALTUNG, “Three Approaches to Peace: Peacekeeping, Peacemaking and Peacebuilding”, in J. GALTUNG, Peace, War and Defense-Essays in Peace Research, vol.2, Copenhagen, Christian Eljers, 1975, p.282-304

esistano fasi distinte tra ricostruzione e prevenzione, ma che il

“peacebuilding as politics”65 risulterà cruciale quando si tenterà di prevedere

l’indice di sopravvivenza degli accordi di pace. Alcune definizioni di peacebuilding sono così ampie da includere virtualmente tutte le forme di assistenza internazionale a società che hanno vissuto oppure sono a rischio di conflitto armato. Ad esempio, nel suo Report of the Secretary-General on

the Work of the Organization, Kofi Annan descrive varie attività di peacebuilding svolte dall’ONU che includono la decentralizzazione, la

riforma fiscale, gli investimenti sociali, lo sviluppo rurale, i diritti umani, le riforme della giustizia, le istituzioni di sicurezza e l’assistenza negli sforzi di costruzione della nazione66. Altre definizioni sono più precise ma mostrano un maggiore interesse rispetto ai mandati internazionali piuttosto che alle condizioni per una pace durevole, altri ancora intendono piuttosto concentrarsi su un’analisi comparata tra i vari tipi di approccio internazionale, contrapponendoli alle iniziative interne. In generale, invece, si può rilevare come il peacebuilding sia stato trattato seguendo due assi diversi. Il primo descrive le capacità messe a disposizione dalla comunità internazionale organizzata. Il secondo, descrive un particolare conflitto in questione, la sua natura, la sua intensità, la densità dell’appoggio sociale. Cousens e Kumar distinguono questi due approcci utilizzando il termine deduttivo per il primo, quando il contenuto del peacebuilding è delineato dalle esistenti capacità e dal mandato delle agenzie e organizzazioni

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K. KUMAR (a cura di), Rebuilding Societies after Civil War, Boulder, Lynne Rienner, 1997, E. M. COUSENS e C. KUMAR, Peacebuilding as Politics, Boulder, Lynne Rienner, 2000

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internazionali e induttivo67 per il secondo, quando il contenuto è tratto dalle capacità e bisogni di ogni singolo caso.

In conclusione, quindi si recepisce un’accezione ampia ma delimitata di peacebuilding intesa come “efforts to transform potentially violent social

relations into sustainable peaceful relations and outcomes”68. Questa definizione implica una pace positiva e negativa ed approcci elitari e non elitari. Enfatizza in particolare ciò che unifica gli sforzi del peacebuilding sul terreno: sforzi volti a normalizzare la violenza, ma né il mantenimento della pace nel breve periodo (peacekeeping) né la trasformazione della violenza in non violenza.

Da questo tentativo di dirimere le questioni definitorie maggiormente problematiche emerge innanzitutto una straordinaria convergenza delle teorie sulla democratizzazione con gli scritti, a vocazione maggiormente operative del peacebuilding. Si tratta di un elemento non casuale, che merita di essere affrontato da un punto di vista innanzitutto teorico: si tratterà di ciò nel prossimo capitolo.

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E. M. COUSENS e C. KUMAR (a cura di), Peacebuilding as Politics, London, Lynne Rienner Publishers, 2001, p.5

68

J. P. LEDERACH, Building Peace: Sustainable Reconciliation in Divided Societies, Tokyo, United Nations University Press, 1994, p.14

2. IL PEACEBUILDING E LA

DEMOCRATIZZAZIONE: DUE MODELLI