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LA COSTRUZIONE DI UN REGIME DEMOCRATICO DOPO UNA GUERRA CIVILE. Profili teorici ed empirici. BUILDING A DEMOCRATIC REGIME AFTER A CIVIL WAR. Theoretical and empirical perspectives.

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(1)

Università di Pisa

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea Specialistica in

“Politiche e Relazioni Internazionali” (cl. 60/s)

a.a. 2005/06

LA COSTRUZIONE DI UN REGIME

DEMOCRATICO DOPO UNA GUERRA CIVILE

profili teorici ed empirici

Relatori: Candidata:

Dott. Massimiliano Andretta Chiara Ruffa

(2)

“Solo in un tale recinto, qual é l’unificazione civile, queste medesime inclinazioni producono il miglior effetto: al modo in cui gli alberi in un bosco crescono forti e diritti proprio perché ognuno di essi tenta di togliere all’altro aria e sole, costringendosi a vicenda a cercare sopra di sè”1

Figura 1: Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, 1450 circa, Tempera su legno, 182 x 220 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze

1

“Allein in einem solchen Gehege, als bürgerliche Vereinigung ist, tun eben dieselben Neigungen hernach die beste Würkung: so wie die Bäume in einem Walde, eben dadurch daß ein jeder dem andern Luft una Sonne zu benehmen sucht, einander nötigen, beides über sich zu suchen”, I. KANT, Schrifen zur

Anthropologie, Geschichtsphilosophie, Politik uns Pädagogik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, p.40 , trad. it.

(3)

Si desidera ringraziare il Professor Luciano Bardi, per i suggerimenti ai fini dell’impostazione teorica del lavoro e per il sostegno dimostrato in questi anni, ed il Dottor Massimiliano Andretta, per il paziente lavoro di assistenza e supervisione.

Un insostituibile lavoro di consulenza statistica è stato svolto da Paolo Frumento (Dyno),

tra nottate in Centro di Calcolo e partite a calcio sul pratino. Un particolare ringraziamento corre a tutta la mia famiglia, in particolare a mia madre, Adriana, per la sua vitalità straordinaria, a mio padre, Giuseppe, per la sua vicinanza silenziosa e attenta, a mio fratello, Marco, per la sua buffa saggezza leggera. Si desiderano inoltre ringraziare Lara e Rosa, amiche preziose e attente di tante risate e lacrime, Gabriella, Lucas, Salvo, Mauro, Alessia, Ilaria, Leonardo e tutti coloro con cui ho condiviso questi anni.

(4)

INDICE

INTRODUZIONE_________________________________ p.1

Parte I ___________________________________p.4

1. COSTRUIRE LA DEMOCRAZIA DOPO UNA

GUERRA CIVILE: QUESTIONI DEFINITORIE___ p. 5

1.1 REGIME POLITICO E MUTAMENTO___________________ p. 9

1.2 DEMOCRAZIA: PER UNA DEFINIZIONE MINIMA

ED OPERATIVA _____________________________________p.12

1.3 DEMOCRATIZZAZIONE COME MUTAMENTO

DI REGIME __________________________________________p.19

1.4 LA NOZIONE DI GUERRA CIVILE: TRA TIPOLOGIE E

SOGLIE D'INTENSITA' _______________________________p.22

1.5 PEACEBUILDING: EVOLUZIONI ______________________p.27

(5)

DUE MODELLI TEORICI A CONFRONTO_____p.33

2.1 TEORIE DELLA TRANSIZIONE DEMOCRATICA______ p.35

1.2.1 STRUMENTI VALUTATIVI PER LA TRANSIZIONE

DEMOCRATICA ______________________________________________________p.36 1.2.2 LE DIMENSIONI “CLASSICHE” DELLA TRANSIZIONE ______________p.56

1.2.3 INNOVATIVE DIMENSIONI PER LA TRANSIZIONE: VERSO UN

PARADIGMA PIU’ FLESSIBILE? ________________________________p.62 1.2.4 LE TEORIE SULLA TRANSIZIONE E LA

QUESTIONE DEL CAMBIAMENTO ISTITUZIONALE: PER UNA TEORIA GENERALE? _________________________________________p.64

2.2 IL PEACEBUILDING COME PARADIGMA

TEORICO________________________________________________p. 69

2.2.1 LE SCELTE DEGLI ATTORI PER L’USCITA DAL CONFLITTO: LA TEORIA DELLA SCELTA RAZIONALE DELLA GUERRA CIVILE______________p.74 2.2.2 GLI ATTORI DEL PEACEBUILDING:

UN MODELLO INTERPRETATIVO__________________________________ p.81

3. PEACEBUILDING E DEMOCRATIZZAZIONE: PER

UN SUPERAMENTO DEL MODELLO DI

RICOSTRUZIONE DEMOCRATICA______________p.87

3.1 DEMOCRATIZZAZIONE E PEACEBUILDING A

CONFRONTO_________________________________________ p.87

(6)

DEMOCRATICA ______________________________________p.96

3.3 IL SUPERAMENTO DEL MODELLO DI RICOSTRUZIONE

DEMOCRATICA: QUALI PARAMETRI? _________________________p.108

Parte II________________________________ p.118

4. COSTRUIRE LA DEMOCRAZIA DOPO UNA

GUERRA CIVILE: PER UNA TRATTAZIONE

EMPIRICA _________________________________p.119

4.1 LA FORMULAZIONE DI IPOTESI DI LAVORO_________p.120

4.1.1 IPOTESI RILEVANTI RISPETTO AGLI ASPETTI INTERNI __________p.121 4.1.2 IPOTESI RILEVANTI RISPETTO AGLI ASPETTI INTERNAZIONALI __p.125 4.1.3 IPOTESI RELATIVE AL CONFLITTO _____________________________p.128

4.2 SELEZIONE DEL CAMPO D’INDAGINE ______________p.131

4.3 METODOLOGIA UTILIZZATA: L’ANALISI DI

(7)

5. LA VERIFICA DELLE IPOTESI _____________p.145

5.1 LA RILEVANZA DEGLI ASPETTI INTERNI ____________p.146

5.2 LA RILEVANZA DELLE CARATTERISTICHE DEL

CONFLITTO______________________________________________p.159

5.3 LA RILEVANZA DEGLI ASPETTI INTERNAZIONALI ___p.161

5.4 ULTERIORI DIREZIONI DI RICERCA: LA RILEVANZA DI

UNO SCOPPIO DEL CONFLITTO ULTERIORE ED IL

MODELLO DI COX __________________________________p.173

5.4.1 UN NUOVO SCOPPIO DEL CONFLITTO ____________________ p.173 5.4.2 IL MODELLO DI COX _____________________________________p.175

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE__________________ p. 180

APPENDICE 1 _____________________________________p.184

APPENDICE 2 _____________________________________p. 189

(8)

INTRODUZIONE

“Perché ciò accada impunemente, senza che scoppi una guerra civile, senza che si ritenga tutto

concluso con solenni funerali, occorre un consenso di massa interiore e profondo. (…)

Perché? Perché due non fanno tre”1

Se la propensione della democrazia verso la guerra è stato variamente studiato, è ancora una questione aperta se e come le guerre, una volta concluse, lascino spazio alla democrazia. La Politica Comparata si è infatti interrogata raramente sulla democratizzazione come processo che scaturisce da un conflitto. I classici sulla democratizzazione sono piuttosto reticenti, infatti, a concentrarsi sul rapporto tra la guerra e i regimi democratici.

Obiettivo di questo lavoro è provare a rintracciare dimensioni rilevanti per la costruzione di un regime democratico dopo una guerra civile, attraverso una trattazione teorica ed empirica di tipo quantitativo.

Dopo aver chiarito una serie di questioni definitorie, si procede pertanto ad un’analisi teorica che passa criticamente in rassegna la letteratura sulla democratizzazione e le posizioni più rilevanti degli studi sul peacebuilding. Democratizzazione e peacebuilding sono due campi recenti, gli studiosi hanno iniziato ad analizzare la terza ondata di democratizzazione nei primi anni’80 ed il termine peacebuilding è diventato

1

(9)

corrente negli anni ’90. In effetti, potrebbe essere molto utile al

peacebuilding recepire una serie di paradigmi della democratizzazione, come

pure questi ultimi potrebbero riuscire maggiormente predittivi. Messa in evidenza la necessità di chiarire meglio la relazione tra questi due concetti, si procede trattando delle teorie della transizione democratica a cui segue un’analisi dell’evoluzione del peacebuilding. Sono poi sottolineati elementi di convergenza e divergenza tra queste due teorie. Da questa riflessione, scaturiscono poi una serie di suggerimenti rispetto al possibile superamento di alcuni limiti del modello di ricostruzione democratica, ed emerge un possibile ruolo rivestito da alcune dimensioni rilevanti del conflitto, quali gli attori interni, quelli internazionali e le caratteristiche della guerra civile stessa.

Per provare a trovare risultati rilevanti che possano orientare la ricerca verso un nuovo o rinnovato modello di ricostruzione democratica, è necessario procedere ad un’analisi empirica capace di tenere presente l’apporto della letteratura sulla democratizzazione e sul peacebuilding. Per perseguire questo obiettivo, sono formulate alcune ipotesi plausibili, che scaturiscono dalla trattazione teorica. A questo segue la selezione del campo d’indagine in cui verificare le ipotesi. Come posto in evidenza dall’analisi teorica, le maggiori lacune in letteratura si concentrano soprattutto negli ultimi quindici anni. I casi selezionati sono tutte le guerre civili scoppiate tra il 1989 ed il 2004. Di fronte ad una popolazione piuttosto consistente di casi, si rende necessario pertanto passare da una comparazione prevalentemente qualitativa ad una quantitativa, sorretta da un’analisi statistica.

(10)

Si procede pertanto alla formulazione di un metodo di lavoro e degli strumenti statistici da utilizzare sulla base dei casi selezionati. Per un complesso ordine di motivi, si compie la scelta metodologica di un’analisi di sopravvivenza per verificare la probabilità della durata della pace al variare di certe condizioni, come l’intervento di una terza parte nel conflitto, la matrice del conflitto, la sua durata o intensità. Per calcolare la funzione di sopravvivenza, si utilizzano il metodo Kaplan Meier ed il modello di Cox. In questo modo, si può procedere alla verifica delle ipotesi formulate e a valutarne la predittività. Scaturisce, a questo punto, la rilevanza di alcune dimensioni valutative, utili da tenere presenti ai fini della costruzione di un regime democratico successivo ad una guerra civile.

(11)

Parte I

«Ma quel che potentemente lo attirò, fu un fiore azzurro, che stava in alto vicino alla sorgente e lo sfiorava colle sue larghe foglie

lucenti”2

2

NOVALIS (F. von HARDENBERG), Einrich von Ofterdingen, “Was ihn aber mit voller Macht

anzog, war eine hohe lichtblaue Blume, die zunächst an der Quelle stand und ihn mit ihren breiten, glänzenden Blättern berührte”, traduzione italiana Enrico d’Ofterdingen, Fratelli Melita editori, La

(12)

1. COSTRUIRE LA DEMOCRAZIA DOPO

UNA GUERRA CIVILE: QUESTIONI

DEFINITORIE

La letteratura delle Relazioni Internazionali si è variamente interrogata sulla natura tendenzialmente pacifica o, all’opposto, bellicosa, delle democrazie, analizzando le guerre internazionali condotte nel sistema degli Stati3 e gli impatti sulle dinamiche di governance interna. A fronte di questa fiorente riflessione, la Politica Comparata, si è interrogata invece raramente sulla democratizzazione come processo che scaturisce da un conflitto4. I classici sulla democratizzazione sono piuttosto reticenti, infatti, a concentrarsi sul rapporto tra la guerra e i regimi democratici. La maggior parte della letteratura teorica sulla transizione democratica e sul consolidamento democratico lascia le tipologie di transizione successive ad una guerra o completamente neglette oppure sottovalutate.

Si tratta di un fenomeno piuttosto sorprendente, se si riflette sul fatto che molte nuove democrazie emergono da un contesto di guerra. Se si pensa che, delle settantatré democrazie fondate dopo il 1945 che ancora esistono, più di metà emergono nell’immediato dopoguerra o come una

3

A. PANEBIANCO, Guerrieri Democratici, Bologna, Il Mulino, 1997, p.85

4

Per collocare la disciplina i testi di riferimento sono G. A. ALMOND, Cultura Civica e Sviluppo

Politico, 2005, p.167, G. A. ALMOND e G. B. POWELL, Jr, Comparative Politics: System, Process, and Policy, Boston, Little, Brown and Company, 1978

(13)

strategia per porre fine ad un conflitto perdurante5. Anche se torneremo sulla questione in seguito, premeva tuttavia in questa sede sottolineare come la questione del rapporto tra guerra e democrazia non possa essere unicamente analizzata alla luce della presunta propensione della democrazia alla guerra ma anche nella chiave della democratizzazione successiva alla guerra. Quest’area d’indagine è in realtà oggetto d’analisi non soltanto da parte della letteratura sulla democratizzazione ma anche, dall’inizio degli anni ’90, da parte di quell’eterogenea letteratura che si occupa di operazioni di pace6.

DEMOCRAZIE

INSTAURATESI

DOPO UN

PERIODO DI

PACE

DEMOCRAZIE

INSTAURATESI

DOPO UNA

GUERRA

INTERNAZIONALE

DEMOCRAZIE INSTAURATESI DOPO UNA GUERRA CIVILE E INTERNAZIONALE

DEMOCRAZIE

INSTAURATESI

DOPO UNA

GUERRA

CIVILE

Albania Armenia Benin Bolivia Botswana Brasile Bulgaria Cile Ecuador Estonia Argentina Austria Germania Grecia Giappone Panama Bangladesh Croazia Cipro Corea del Sud El Salvador Guatemala Guinea-Bissau India Israele Italia Colombia Costa Rica Filippine Georgia Indonesia Madagascar Messico Moldavia Niger Papua N. Guinea

5

dati Freedom House Survey del 2004: i dati a cui si fa riferimento distinguono transizioni

democratiche postconflitto dalle altre in base al fatto che le prime libere elezioni si siano tenute dopo una guerra. Sono stati esclusi gli Stati caraibici e Paesi con popolazione inferiore ai 500000 abitanti. http://www.freedomhouse.org/uploads/special_report/23.pdf

6

Per una prima analisi si veda E. M. COUSENS e C. KUMAR, Peacebuilding as Politics, Boulder, Lynne Rienner, 2002 e W. KÜHNE, UN-Friedenseinsätze in einer Welt regionaler und globaler

Sicherheitsrisiken. Entwicklung, Probleme und Perspektiven, Analyse 06/05, Juni 2005, Zentrum für

(14)

Gambia Ghana Guyana Honduras Lettonia Lituania Malawi Mali Mauritius Mongolia Nepal Nigeria Perù Polonia Repubblica Ceca Romania Senegal Slovacchia Spagna Taiwan Tailandia Turchia Ucraina Ungheria Uruguay Venezuela Mozambico Namibia Nicaragua Portogallo Russia Slovenia Yugoslavia (Serbia e Mont.) Paraguay Sierra Leone Sri Lanka Sudafrica

Tabella 1: DEMOCRAZIE ELETTORALI E REGIMI LIBERI FORMATESI DOPO LA II GUERRA MONDIALE

Fonte: adattamento da A. KARATNYCKY, “The 2004 Freedom House Survey: Muslim Countries and the Democracy Gap”, 13, n.1, gennaio 2002, p.108-109.

Note: Le democrazie elettorali sono contrassegnate col colore nero o verde, mentre i regimi dichiarati liberi (in verde) secondo Freedom House sono quelli che hanno ottenuto un

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punteggio compreso tra 1 e 3 in una scala di 7 punti per i diritti politici e le libertà civili. Gli Stati caraibici e quelli con popolazione inferiore ai 500000 abitanti sono stati esclusi.

In particolare, essa si è trovata a dover rispondere alle recenti evoluzioni delle operazioni di mantenimento della pace verso più complessi obiettivi e a dover fornire una trama teorica utile sotto il profilo operativo alle organizzazioni internazionali, l’ONU in particolare, per rispondere alle domande di ricostruzione di un Paese. Naturalmente, a questo punto, il quadro si complica: non soltanto si fa riferimento ad un quadro disciplinare diverso dalla Politica Comparata, ma s’introduce un elemento contenutistico nuovo, il ruolo degli attori esterni nella ricostruzione di un Paese. Tralasciando per il momento quest’ultimo punto, occorre preliminarmente riflettere sul possibile contributo della letteratura sulla gestione delle situazioni successive al conflitto, noto come quel variegato ed un po’ indistinto universo di termini quali peacebuilding, institution building,

confidence building.

Avendo dunque ulteriormente chiarito l’oggetto dell’analisi, cioè la ricostruzione di un regime democratico in seguito ad una guerra civile, che coincide, ma soltanto in parte, con il campo d’indagine ed operativo del

peace building, occorre innanzitutto chiarire alcuni concetti, d’importanza

cruciale per lo sviluppo di questo lavoro.

Si procederà dunque con una serie di chiarimenti terminologici ed esponendo una serie di dilemmi definitori che rendono talvolta confusa la trattazione di questi temi. Procedendo con ordine, si rifletterà sul concetto di democrazia, sulla sua natura di regime politico e sul suo mutamento.

(16)

1.1 REGIME POLITICO E MUTAMENTO

Senza una precisa definizione non si riescono a comparare i sistemi politici moderni e differenziati con quelli primitivi relativamente indifferenziati, e i sistemi moderni secolarizzati con quelli tradizionali e teocratici. Occorre quindi, prima di procedere, chiarire alcuni concetti fondamentali, quali stato, sistema politico e regime.

Occorre, innanzitutto, distinguere tra Stato e sistema politico, nozioni che appartengono a tradizioni teoriche diverse. La definizione weberiana parla di “stato” in un senso del termine molto vicino all’accezione di sistema politico. “Oggi dovremmo dire: lo stato è quella comunità umana, che nei limiti di un determinato territorio- questo elemento del “territorio” è caratteristico- esige per sé, con successo, il monopolio della forza legittima. Giacché questo è specifico dell’epoca presente: a tutte le altre associazioni o persone singole il diritto alla forza fisica viene attribuito solo in quanto lo stato dal canto suo glielo conceda: è esso l’unica fonte del “diritto” e della forza”7. Se questa è la posizione di Weber, la tesi di Schapera la critica fortemente perché esclude dal novero dei sistemi politici le società politiche e indifferenziate in cui non vi è alcun monopolio dell’uso della forza fisica8. Tuttavia quali siano queste sanzioni coercitive o d’altro genere resta dubbio, come anche quali siano le strutture che le applicano. Le definizioni degli scienziati politici con inclinazioni sociologiche sono suggestive, ma sono ancora carenti ai fini della comparazione.

7

M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione”, Torino, Einaudi, 1983, p. 48

8

(17)

Forse una soluzione soddisfacente può essere rintracciata definendo meglio la nozione di potere. Lasswell e Kaplan definiscono il potere politico in questi termini: “Il potere è un caso specifico di esercizio dell’influenza: è il processo mediante il quale si influenzano le linee di condotta di altri con l’aiuto di privazioni severe (gravi o minacciate) nel caso che le linee di condotta non vengano a seguite”9. Anche in questo caso, tuttavia, l’espressione “privazioni severe” non distingue il sistema politico da altri sistemi sociali. La definizione di David Easton prevede tre componenti: il sistema politico alloca valori (per mezzo di politiche); le sue allocazioni sono imperative; queste allocazioni imperative sono vincolanti per la società nel suo complesso. Sebbene Easton sia stato criticato per la nozione d’imperatività, l’associazione di allocazione a imperatività si avvicina al tipo di strumento necessario a questo lavoro, che consiste nella comparazione tra sistemi politici di varie dimensioni e gradi di differenziazione diversi. Almond si spinge poi a precisare la definizione di Easton, formulando il suo concetto di autorità come legittima coercizione fisica, ampliando in questo modo la definizione weberiana per poter includere tipi di organizzazione politica diversi dallo stato10. “Ciò che proponiamo è che il sistema politico sia definito come quel sistema di interazioni che troviamo in ogni società indipendente, che svolge funzioni di integrazione e adattamento (sia internamente, sia nel rapporto con altre società), per mezzo dell’impiego (o della minaccia dell’impiego) di una coercizione fisica più o meno legittima”11. Avendo quindi attribuito una definizione a sistema politico, resta da chiarire un altro termine, cruciale ai fini di questo lavoro e su cui non esiste

9

H. D. LASSWELL e A. KAPLAN, Potere e società: uno schema concettuale per la ricerca politica, Milano, Etas, 1969, p.91

10

G. A. ALMOND, Cultura civica e sviluppo politico, Bologna, Il Mulino, 2005, p.181

11

(18)

in letteratura molta chiarezza. “Ci sono pochi tentativi, per esempio, di

esaminare il concetto di regime come distinto da Stato e governo”12. L‘impressione è che ognuno di questi termini sia spesso stato accettato come dato. Eppure tale concetto può essere estremamente utile perché garantisce un livello di astrazione appropriato per lo scopo e la natura dello studio del cambio di regime. Se l’obiettivo di questo lavoro è studiare una particolare forma di cambio di regime che deriva dall’uscita da una guerra civile, una trama teorica più precisa su tale concetto è un essenziale punto di partenza. In questa sede, si recepisce una definizione classica di regime come “istituzioni formali e informali che strutturano l’interazione politica”13. In

questo senso, di fronte alla questione di dover distinguere tra Stato e sistema politico, la definizione di regime è una soluzione, come suggerito da EastonAi fini della definizione stessa, è utile riflettere sul concetto di mutamento, laddove s’intende che un cambio di regime avviene quando gli attori attribuiscono nuova configurazione a queste istituzioni. Esiste tuttavia un’altra questione che diventa cruciale quando si studia il cambio di regime, in particolare nella sua accezione di democratizzazione. Di fatto, questo rimanda ad una questione tanto dibattuta quanto fondamentale: la definizione di democrazia. A questo punto, come evidenzia Daniel Levine, senza un’adeguata concezione di democrazia l’intero sforzo di comprendere il cambio di regime “si ferma virtualmente al punto di partenza”14.

12

“There is little attempt, for example, to examine the concept of regime as distinct from state or

government” in S. LAWSON, “Conceptual Issues in the Comparative Study of Regime Change and

Democratization”, in Comparative Politics, vol.25, n.2, gennaio 1993, p.183

13

“Formal and informal institutions that structure political interaction” in R. SNYDER e J.

MAHONEY, “The Missing Variable: Institutions and the Study of Regime Change”, Comparative

Politics, 32, n.1 (ottobre 1999), p. 103

14

“Stalls virtually at the starting point” in D. LEVIN, “Paradigm Lost: Dependence to Democracy”,

(19)

1.2 DEMOCRAZIA: PER UNA DEFINIZIONE

MINIMA ED OPERATIVA

Il dibattito circa il termine democrazia continua a dividere la letteratura che s’interroga e si confronta da decenni sulla questione. Giovanni Sartori, nel 1957, definiva democrazia quel “sistema etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere di minoranze concorrenti che l’assicurano”15, mentre Robert Dahl, nel 1970, poneva l’accento su elementi in parte diversi: “sono democrazie tutti i regimi contraddistinti dalla garanzia reale di partecipazione politica più ampia della popolazione adulta maschile e femminile, e dalla possibilità di dissenso e opposizione”16. Fornendo maggiori elementi, Sartori nel 1993 definisce democratico “quel meccanismo che genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale attribuisce potere al popolo, e specificamente impone la responsività degli eletti nei confronti dei loro elettori”17. Tra le possibili, si è scelto di recepire una definizione minima di democrazia18: suffragio universale, maschile e femminile, elezioni libere, competitive, ricorrenti e corrette, più di un partito, diverse e alternative fonti d’informazione. Al di sopra di queste condizioni minime, esiste poi un’ampia gamma di gradazioni possibili di realizzazione dei “due obiettivi più pieni di libertà e uguaglianza”19.

15

G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1957, p. 34

16

R. DAHL, Polyarchy: Participation and Opposition New Haven, Yale University Press, 1971, traduzione italiana Poliarchia, Partecipazione e opposizione, Milano, Angeli, 1980, p. 62

17

G. SARTORI, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 57

18

Tra le molte possibili, R. Dahl, Polyarchy: Participation and Opposition New Haven, Yale University Press, 1971, 47

19

L. MORLINO, “Spiegare la qualità democratica: quanto sono rilevanti le tradizioni autoritarie?”,

(20)

Se le elezioni sono state davvero libere e competitive, deve esserci un certo grado di libertà civile e politica all’interno dell’arena elettorale, che può permettere ai cittadini di organizzarsi. Inoltre, le istituzioni democratiche formali sono definite come sovrane cioè non dovrebbero subire pressioni, dalle élites o da potenze esterne che non siano direttamente accountable per i cittadini20.

Una volta che un regime politico incontra queste condizioni di base, analisi empiriche ulteriori possono mettere in luce come tale regime soddisfi i tre obiettivi di una democrazia ideale: la libertà civile e politica, la sovranità popolare (controllo sulle politiche pubbliche e i funzionari che le mettono in atto) ed uguaglianza politica (nell’esercizio di questi diritti e poteri), come pure più ampi standard di buon governo cioè trasparenza, legalità e principio di responsabilità.

Si noti inoltre, dalle definizioni sopra riportate, come si recepisca una definizione di democrazia rappresentativa: in questo senso, il ruolo della possibilità di rendere conto (accountability) diventa cruciale.

A questo punto, fissati questi criteri, s’introduce un limite minimo di esclusione dalla definizione stessa di democrazia. In primo luogo, si possono escludere regimi autoritari o “electoral authoritarian”21 che non soddisfano il primo requisito per una democrazia: la capacità di condurre elezioni fair and free. In una sorta di continuum, troveremo poi una bassa qualità della democrazia nelle “defective democracies”22, che possono essere

20

P. C. SCHMITTER e T.L. KARL, “What democracy is … and is not” in L. DIAMOND e M. F. PLATTNER (a cura di), The Global Resurgence of Democracy, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1993, p.45-46

21

L. DIAMOND, L. MORLINO, Assessing the Quality of Democracy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2005, p. xi

22

W. MERKEL e A. CROISSANT, “Formal Institutions and Informal Rules of Defective Democracies”, in Central European Political Science Review 2, Dicembre 2000, pp. 31-47

(21)

esclusive (cioè offrire soltanto parziali garanzie per i diritti politici), oppure dominate (nel favorire alcuni potenti gruppi di pressione e discriminandone altri), o illiberale (quando cioè emerge inadeguatezza nella protezione dei diritti civili e del rule of law). L’aspettativa di riscontrare un certo grado di qualità democratica è piuttosto bassa anche nelle cosiddette “delegative

democracy”23, che hanno un buon grado di competitività elettorale e relativa

libertà civile e politica ma che una volta elette rispondono soltanto molto parzialmente alle preferenze dei cittadini, costretti da altre agenzie di governo. A questa concezione di democrazia, collocata su un continuum in cui, più o meno vengono posizionati i vari regimi dai democratici agli autoritari, Stephanie Lawson, che studia i cambi di regime, preferisce un modello dicotomico. Come l’autore stesso evidenzia, “questo non è volto a negare l’utilità analitica di un modello a continuum ai fini degli studi sul cambio di regime”24. Tuttavia, un’adeguata concettualizzazione (per cui sembra necessario utilizzare il modello di continuum), richiede tipi di regimi opposti chiaramente delineati. Nell'analisi empirica di questo lavoro, sarà utilizzato il modello del continuum, che può fornire maggiore completezza esplicativa; tuttavia, laddove saranno utilizzati modelli di analisi quantitativa, si utilizzeranno piuttosto variabili dicotomiche di mera assenza o presenza di regime democratico.

Le definizioni minime cui si è giunti possono essere state utili per inquadrare il problema e per acquisire gli strumenti teorici atti a posizionare il concetto di democrazia in un continuum ed a fissare alcuni

23

G. O’DONNEL, “Delegative Democracy” in Journal of Democracy, 5, Gennaio 1994, pp. 60-64

24

“This is not to deny the analytic utility of a continuum model for regime change studies, especially in

empirical evaluations of actuals regimes” in S. LAWSON, “Conceptual Issues in the Comparative

Study of Regime Change and Democratization”, in Comparative Politics, vol.25, n.2, gennaio 1993, p.184

(22)

criteri di esclusione. Tuttavia, potrebbe risultare molto utile tentare di recepire una definizione di democrazia non soltanto minima ma anche operativa.

Traendo spunto da quella parte della letteratura politologica che si è occupata della vera o presunta indole pacifica delle democrazie, si può decidere, anche in questo caso, “preliminarmente, che si disponga di definizioni operative della guerra e della democrazia”25. Huntington riflette su tre approcci generali nel dibattito sul significato di democrazia. La democrazia può essere definita come “fonte di autorità per i governi, come fine ultimo perseguito e servito dai governi stessi e come procedura di base per l’istituzione dei governi”26. Se nelle prime due accezioni è riscontrabile una certa ambiguità e imprecisione, la terza definizione può essere utilizzata ampiamente come punto di partenza in questo lavoro e per chiarire alcuni aspetti. La procedura della democrazia consiste nella selezione dei leader attraverso elezioni competitive. In questo senso, il riferimento corre immediatamente a Joseph Schumpeter ed al suo

Capitalism, Socialism and Democracy. In tale testo, Schumpeter mette in

evidenza i limiti di quella che l’autore stesso identificava come teoria classica della democrazia, tesa a definire la democrazia in termini di volontà popolare oppure bene comune. Proponendo invece una teoria alternativa della democrazia in cui “il metodo democratico consiste in una configurazione istituzionale tesa al conseguimento di decisioni politiche, nella quale gli individui acquisiscono il potere di decidere attraverso una lotta competitiva per il voto popolare”27. Seguendo la tradizione

25

A. PANEBIANCO, Guerrieri Democratici, Bologna, Il Mulino, 1997, p.85

26

S. P. HUNTINGTON, La Terza Ondata, Bologna, Il Mulino, 1995, p.28

27

(23)

schumpteriana, le discriminanti che portano a distinguere sistemi democratici da altri sono le posizioni del decision-making ricoperte grazie ad elezioni regolari, periodiche e corrette, nelle quali i candidati possono competere liberamente e la popolazione adulta detenga il diritto di voto. Definita in questo modo, la democrazia coinvolge due elementi, cruciali per i sistemi poliarchici e democratici di Dahl: il contraddittorio e la partecipazione. Small e Singer28 adottano criteri più sbrigativi: elezioni libere, diritto di voto esteso ad almeno il 10% della popolazione maschile adulta, un parlamento che controlla formalmente il governo (nei regimi parlamentari) oppure che possiede poteri concorrenti (nei regimi presidenziali). Doyle29 richiede, invece, un suffragio esteso almeno al 30% della popolazione adulta maschile (e a quella femminile entro una generazione dalla domanda iniziale), la sovranità governativa sugli affari militari ed esteri e, infine, una continuità di regime di almeno tre anni. Come posto in evidenza da Russett30, un primo problema legato alla definizione operativa di democrazia è dato dalla necessità di tenere conto dei diversi periodi storici e di adottare criteri più o meno restrittivi. Nel caso di questo lavoro, tuttavia, questo problema non si pone perché il campo d’indagine, come si vedrà in seguito, è piuttosto limitato nel tempo e molto recente, per cui potremo mantenere un’unica definizione di democrazia.

Un ulteriore problema, particolarmente spinoso nell’analisi empirica che qui si intende svolgere, riguarda la questione del grado di

28

M. SMALL e D. SINGER, “The War-Proneness of Democratic Regimes, 1816-1965”, in Jerusalem

Journal of International Relations, I, pp.50-69

29

M. DOYLE, “Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs”, in Philosophy and Public Affairs, 12, pp.1151-1169

30

(24)

consolidamento o istituzionalizzazione del regime democratico31. Si tratta cioè di decidere di includere ovvero di escludere i regimi democratici appena nati accanto a quelli che hanno dato prova di una certa capacità di durata nel tempo. Doyle per esempio considera solo i regimi democratici con almeno tre anni di vita. Altri autori, come Ray32 e Morlino33, propongono invece criteri più severi: il consolidamento democratico richiederebbe infatti più tempo per dispiegarsi. Tutti gli autori comunque concordano sul fatto che i criteri devono essere selettivi: occorre che ci siano elezioni libere e regolari, ma anche diritti civili e politici e libertà economica effettivamente garantiti. Questo esclude dalla lista, per esempio, le pseudo-democrazie, che magari prevedono il suffragio universale ma che poi, di fatto, non garantiscono il rispetto dei diritti civili e politici. Alla fine di questa riflessione possiamo quindi proporre una definizione di democrazia che verrà utilizzata come criterio di riferimento che tutti i casi presi in esame dovranno rispettare. Tale definizione, minima ed operativa, corrisponde a quella maggiormente utilizzata in letteratura come “sistema di governance in cui i governanti devono rendere conto… ai cittadini, che agiscono direttamente attraverso la competizione e la cooperazione dei loro rappresentanti eletti”34.

Un ulteriore problema riguarda la limitata attenzione attribuita al ruolo di importanti fattori istituzionali e agenti nel processo di democratizzazione. L’approccio di O’Donnell, ad esempio, è stato

31

S. P. HUNTINGTON, The Third Wave, Norman, University of Oklahoma Press

32

J. RAY, “Wars between democracies: rare or non-existent?” in International Interactions, 18, 3, pp.251-276

33

L. MORLINO (a cura di), Costruire la democrazia, Bologna, Il Mulino, 1991

34

“System of governance in which rulers are held accountable…by citizens acting directly through the

competition and cooperation of their elected representatives” in P. SCHMITTER E T. L. KARL,

“What democracy is and is not” in L. DIAMOND e M. F. PLATTNER (a cura di), The Global

(25)

ampiamente criticato per il fatto che i partiti politici emergono “soprattutto

dalla loro assenza”35. Anche Nancy Bermeo36 mette in evidenza, oltre a questa mancanza nell’analisi dei regimi, quella della più ampia questione della legittimazione del potere. Se la democrazia in sé deve essere vista sia come una variabile contestuale che come concetto deontologico, allora anche il concetto di democratizzazione non può essere analizzato a partire da criteri fissi ed al di fuori delle coordinate spazio-temporali. Per esempio, il semplice two turnover test afferma che una democratizzazione abbia inizio con l’uscita da un regime autoritario e finisca dopo che elezioni competitive abbiano dato seguito a due successivi e pacifici trasferimenti di governo tra due parti contendenti. Tale prova tuttavia può condurre a risultati paradossali. Ad esempio, dimostrerebbe che né l’Italia né il Giappone abbiano mai completato le loro democratizzazioni per quarant’anni dopo l’instaurazione delle loro costituzioni democratiche, né è prevedibile quando il Sudafrica raggiungerà tale obiettivo. Paradossalmente, invece, tale test dimostra come la Colombia, lo Sri Lanka oppure il Venezuela fossero qualificati negli anni ’60 come regimi democratici, quando in realtà, molti aspetti della costruzione democratica non erano rispettati. Sembra così che tale definizione della democrazia sia simultaneamente troppo permissiva in alcuni casi e troppo rigorosa per altri. In letteratura, l’alternativa più sofisticata è stata sostenere che la democratizzazione è completa quando tutti gli attori politici significativi accettano che il processo elettorale sia

35

“Mostly by their absence” in D. LEVIN, “Paradigm Lost: Dependence to Democracy”, World

Politics, 40, 1988, p.379

36

(26)

diventato, secondo l’espressione di Linz e Stepan, “l’unico gioco in città”37

per riallocare le funzioni pubbliche. Tuttavia anche questa possibilità può condurre a paradossi: si potrebbero escludere dal novero dei Paesi democratizzati regimi come la Spagna per la presenza di attori politici significativi (come i separatisti baschi) che non accettano le regole del gioco e nel contempo includere democrazie di certo incomplete come l’India o il Venezuela. A questo punto per meglio comprendere questo passaggio e necessario spostare l'oggetto dell'analisi dai Paesi democratizzati alla transizione, la democratizzazione.

1.3 DEMOCRATIZZAZIONE COME

MUTAMENTO DI REGIME

La prospettiva alternativa scelta da autori come Whitehead38 cerca di non utilizzare parametri troppo rigidi, come il two turnover test per evitare di cadere in paradossi e propone un approccio interpretativo, secondo cui la democratizzazione dovrebbe essere concepita come un processo complesso, di lungo periodo, dinamico ed aperto, consistente in un progresso verso un tipo di politica maggiormente basato sulle regole, più consensuale e più partecipativo. Come il termine democrazia, la democratizzazione include una variegata commistione tra aspetti fattuali e valoriali.

37

“The only game in town” in J.J. LINZ e A. STEPAN, Problems of Democratic Transition and

Consolidation: Southern Europe, South America, and Post-Communist Europe, Baltimore, Johns

Hopkins University Press, 1996, p.15

38

L. WHITEHEAD, Democratization, theory and experience, Oxford University Press, Oxford, 2002, p.27

(27)

Sul concetto di democratizzazione si è avuto un dibattito meno acceso. Il campo della democratizzazione era, fino a dieci anni fa, conteso tra coloro che invocavano una democrazia politica contro i critici che cercavano una più ampia definizione di democrazia che incorporasse anche condizioni economiche e sociali39. L’approccio della democrazia politica è diventato progressivamente egemonico, almeno come strumento di analisi comparata della democrazia. Per questo motivo si recepisce in questa sede un significato minimo di democratizzazione, oltre che di democrazia. Si intende cioè indicare quali siano i pochi aspetti, immediatamente controllabili ed empiricamente essenziali, che consentano di reperire una soglia per escludere i regimi non democratici e non democratizzati. Per quanto riguarda la democratizzazione, le ragioni di una definizione minima sono legate ad una migliore comprensione ma anche la possibilità di esaminare le relazioni causali con le variabili socioeconomiche. A questo punto si pone, un problema non irrilevante cioè se includere o meno anche la dimensione socioeconomica. A questo si connette naturalmente un problema di tipo terminologico dato da una preferenza data a governabilità ovvero governance40. Poiché tuttavia la dimensione socioeconomica del

problema non è certo irrilevante, in questa sede si sceglie di fare riferimento, in generale, “all’esercizio dell’autorità politica, economica e sociale in una società”41. Dopo aver definito il concetto di governance,

39

tra gli altri questa posizione è sostenuta da C. T. CALL e S. E. COOK, “On Democratization and Peacebuilding”, Global Governance, 9, 2003, p. 235

40

Per riflettere su tale distinzione si veda G. PASQUINO, Sistemi Politici Comparati, Bologna, Bononia University Press, 2005, p.177

41

"To the exercise of political, economic, and social authority in a society". Questa definizione è tratta da UN Development Programme, "Good Governance and Sustainable Human Development", New York, UNDP, 1997, p.7 e differisce profondamente da altre definizioni che recepiscono la

governance come strumento di risoluzione dei conflitti W. ZARTMAN, Governance as Conflict Management:Politics and Violence in West Africa, Washington, D.C., Brookings Institutions, 1997

(28)

emerge quella che sarà la nozione del concetto di democratizzazione in questo scritto: la transizione da un tipo di regime ad una democrazia. In questo senso, letteratura si è concentrata soprattutto sul passaggio da un regime autoritario ad uno democratico ed, in particolare su quest’ultima forma di regime42. Questo è in realtà un punto di partenza che tradisce la varietà di regimi non democratici esistenti, che si collocano sul continuum avente agli estremi democrazia ed autocrazia. Morlino, per esempio ne identifica sei: regime personale, militare, civile-militare, di mobilitazione, totalitarismo, pseudo-democrazia43. In questa sede, tuttavia, ne dobbiamo aggiungere un altro: la democrazia stessa. Come vedremo nell'analisi empirica, si tratta di un caso raro eppure può accadere che il regime precedente allo scoppio della guerra civile fosse democratico. Ci si limiterà quindi a recepire una definizione davvero minima di democrazia intesa da un tipo di regime (non importa quale) alla democrazia.

La letteratura sulla democratizzazione descrive l’associazione tra guerra e transizione democratica come ampiamente positivo. Inoltre, le guerre sembrano associate alla transizione democratica quando lo Stato in questione è vinto, vittorioso oppure un alleato in una guerra inconclusa. Come affermato da Bermeo, “è ironico che una sconfitta devastante sembri essere un contesto particolarmente propizio per il compimento di una transizione”44. Eppure una parte della letteratura ha suggerito prove

schiaccianti a favore di questa tesi, definita ironica da Bermeo. Ad esempio, Stepan ricorda che “la grande maggioranza degli esempi storici di

42

Si veda, ad esempio, L. MORLINO, Democrazie e Democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2003

43

L. MORLINO, Democrazie e Democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2003, p.83

44

“it is ironic that a devastating defeat seems to be an especially propitious setting for a transition to

be made” in N. BERMEO, “What the Democratization Literature Says- or Doesn’t Say- About

(29)

ridemocratizzazione di successo sono quelli in cui la guerra e la conquista rivestono una parte integrante”45 e che anzi la conquista da parte di un

potere democratico permette di smantellare istituzioni politiche e militari problematiche. A questo proposito, Huntington ricorda che la sconfitta militare ha contribuito al crollo o all’indebolimento di almeno cinque regimi autoritari tra il 1974 e il 198946. Inoltre, le sconfitte in guerra spesso permettono quei ricambi di élite al potere che sono una condizione necessaria per le democrazie durature47.

Dopo aver quindi rintracciato definizioni operative utili per democrazia e democratizzazione, queste ultime riflessioni conducono ad un chiarimento su ciò che si intende per guerra civile.

1.4 LA NOZIONE DI GUERRA CIVILE: TRA

TIPOLOGIE E SOGLIE D'INTENSITA'

Non possiamo prescindere da una preliminare definizione di guerra. Eppure anche questo tentativo sembra quanto mai arduo, “per quanto appaia difficile crederlo, le nostre conoscenze sulla guerra sono straordinariamente limitate e tanto più scarse quanto più invece parrebbe importante riuscire ad approfondire quello che è, nella storia dell’umanità, l’evento a più alta concentrazione di valore che si possa immaginare”48. Se

45

“the great majority of historical examples of successful redemocratization are ones in which

warfare and conquest play an integral part” in A. STEPAN “Paths towards Redemocratization” in G.

O’DONNEL, P. C. SCHMITTER e L. WHITEHEAD (a cura di), Transition from Authoritarian Rule:

Comparative Perspectives, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1986, p.65

46

S. HUNTINGTON, La Terza Ondata, Bologna, Il Mulino, 1995, p.54

47

M. DOGAN w J. HIGHLEY, Elites, Crisisand the Origins of Regimes, Lanham, Rowman & Littlefield, 1998, p.8

48

(30)

quanto affermato da Bonanate sembra essere uno dei principali problemi sulla definizione di guerra, occorre tuttavia tentarne una definizione. Un primo tentativo può essere fatto proponendo la definizione di von Clausewitz, che pure andrebbe letta nella più complessa analisi clausewitziana. “La guerra è dunque un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”49. Come von Clausewitz mette in evidenza, ancora nel primo capitolo, la guerra si configura come un vero camaleonte, proprio per evidenziarne la mutevolezza, il polimorfismo, l’imprevedibilità ed in quanto tale se ne possono evidenziare tre tendenze fondamentali: il cieco istinto, la libera attività dell’anima e la pura e semplice ragione50. Questi ultimi tre aspetti sono stati fondamentali per la costruzione del modello di conflitto trinitario, secondo il termine utilizzato da Aron51 e poi utilizzato come paradigma interpretativo delle guerre occidentali e non ed infine presupposto critico per i teorizzatori delle nuove guerre52.

La soluzione quasi universalmente accettata nella letteratura politologica si rifà ai criteri stabiliti da Small e Singer53. La guerra è definita come un conflitto armato tra unità politiche sovrane (Stati riconosciuti diplomaticamente come tali dalla maggioranza degli altri Stati che costituiscono la Comunità Internazionale) che registri un numero di caduti in combattimento non inferiore a mille. Questo limite minimo serve a stabilire una soglia ragionevole che separi episodi isolati di conflitto violento (scaramucce, incidenti di frontiera) dalle guerre vere e proprie. Anche

49

K. Von CLAUSEWITZ, Della guerra, trad. it. Mondadori, Milano, 1970, I, I, 2, p.19

50

K. Von CLAUSEWITZ, Della guerra, trad. it. Milano, Mondadori, 1970, I, I, 2, p.11

51

R. ARON, Penser la guerre. Clausewitz, 2 voll., Paris, Gallimard, 1976 52

M. DUFFIELD, Guerre postmoderne: l’aiuto umanitario come tecnica politica di

controllo, Bologna, Casa Editrice Il Ponte, 2004

53

(31)

questa definizione non è scevra da problematicità: il criterio della sovranità innanzitutto, che implica forme di accreditamento diplomatico reciproco esclude dal novero le guerre civili. Inoltre, non sono incluse in tale definizione neppure le guerre coloniali, cioè quei conflitti armati, anche ad alta intensità, che hanno costellato le diverse fasi dell’espansionismo e dell’imperialismo europeo, nonché le guerre di liberazione proprie della decolonizzazione. Si tratta cioè di una definizione, pur operativa, di guerra che ha un’indubbia valenza eurocentrica e che può risultate utile unicamente per identificare le guerre combattute in seno al moderno sistema degli Stati. Al fine di perseguire l’obiettivo proposto, non ci si può di certo accontentare: la definizione di Small e Singer del 1972 rimane comunque un chiaro punto di riferimento.

Poiché in questo scritto verrà analizzata la questione della ricostruzione di un regime politico, nei termini definiti sopra, preme, in questa sede, definire più nei dettagli quella particolare tipologia di guerra definita come interna, civile o intestina, secondo la terminologia di Bonanate54, con cui s’intende un conflitto che veda tra gli attori coinvolti non soltanto lo Stato ma anche gruppi. Nella classificazione di Bonanate, le guerre civili si possono distinguere in due tipologie. La prima comprende le guerre partigiane, quando gli scontri tra le fazioni avvengono in una condizione di totale o parziale assenza o dissoluzione di un’autorità centrale, come nel caso di certi casi di collapsed States in Africa, quali la Repubblica Democratica del Congo o la Sierra Leone o ancora civile in Cina tra il 1945 e il 1949. La seconda è costituita dalle guerre civili

internazionalizzate, quando le parti in lotta mirino alla separazione ed alla

54

(32)

costituzione di nuove entità sovrane, come nei casi della guerra del Vietnam o in Jugoslavia. Ai fini tuttavia di una trattazione empirica non ci si può accontentare di questa definizione. In effetti, la situazione appare più complessa quando si getta uno sguardo sulle vicende più recenti che vedono in alcuni Stati opporsi una o più fazioni distinte in lotta per il potere, autorità governative opposte a fazioni, fazioni e autorità governative alleate contro opposte fazioni che cospirano per la presa del potere ed infine una guerra civile non conosce necessariamente un intervento esterno ed in ogni caso l’intervento esterno può essere molto diversificato. A tal fine, pur recependo la trama teorica offerta da Bonanate possiamo tentare di affiancare un’ulteriore definizione di guerra civile, maggiormente operativa. A tal fine, il riferimento immediato corre allo “Stockholm International Peace

Research Institute”55 ed all’“Uppsala Conflict Database”56 che si occupano di monitorare lo svolgimento dei conflitti armati nel mondo. Il SIPRI adotta una definizione secondo cui un conflitto armato maggiore deve comprendere almeno mille morti dovuti a scontri armati nell’arco di un anno. Evidentemente, tale indicazione di mille morti l’anno, impiegata anche da Sirvad (1996) oltre che dal Sipri è arbitraria. L’Uppsala Conflict Database definisce invece un conflitto armato maggiore come “un’incompatibilità contestata che riguarda il governo e/o territori in cui l’uso della forza armata tra due parti, di cui almeno una è il governo di uno Stato, risulta in almeno 25 morti in battaglia in un anno”57. Si noti come la stima del

numero di conflitti dipende in larga misura dalla scelta della soglia

55 http://www.sipri.org/contents/conflict/ 56 http://www.pcr.uu.se/database/definitions_all.htm#c 57

“a contested incompatibility that concerns government and/or territory where the use of armed

force between two parties, of which at least one is the government of a state, results in at least 25 battle-related deaths in one calendar year” in http://www.pcr.uu.se/database/definitions_all.htm#c

(33)

impiegata, eppure questo può essere un'utile base di partenza operativa. L’Uppsala Conflict Database provvede poi a distinguere abbastanza chiaramente tra conflitti inter e intrastatuali. I conflitti del primo tipo sono “due o più governi… le parti centrali, o, le parti in lotta principali, che per prime hanno dichiarato l’incompatibilità, devono essere parti governative, l’esistenza di parti governative su entrambi i fronti di un conflitto non è sufficiente per concludere che abbiamo a che fare con un conflitto interstatale, dal momento che può essere intrastatuale con coinvolgimento esterno”58. I conflitti del secondo tipo invece si svolgono tra un governo ed una parte non governativa, senza interferenza da parte di altri Paesi. A questo si aggiunge una sottocategoria definita come un conflitto intrastatuale con intervento esterno, cioè la concezione operativa di guerra civile internazionalizzata di cui parla Bonanate59. Tuttavia, se tale definizione sembra essere accettabile e chiara, il SIPRI, in un recente rapporto60, mette in luce come la distinzione tra conflitti intrastuali e interstatuali volta a categorizzare e studiare i conflitti armati contemporanei diventi irrilevante. sono categorizzate come conflitti interni, così come appare dai conflitti perduranti negli ultimi anni. D’altro canto anche un eccessivo stiramento del concetto di guerra civile rischia poi di non essere più un utile strumento analitico.

Può essere utile allora tentare di utilizzare le definizioni proposte di cui sopra per conflitto interno, tenendo presente che si tratta di una

58

“between two or more governments …the central parties, or, the primary warring parties, which

first stated the incompatibility, have to be governmental parties, the existence of governmental parties on both sides of a conflict is not enough to conclude that we are dealing with an interstate conflict, as it can also be an intrastate with foreign involvement” in

http://www.pcr.uu.se/database/definitions_all.htm#c

59

L. BONANATE, La guerra, Bari, Editori Laterza, 2005

60

SIPRI, Patterns of Major Armed Conflicts, 1990-03, M. ERIKSSON e P. WALLENSTEEN, 2004 http://www.sipri.org/contents/conflict/

(34)

definizione operativa e con evidenti limiti. Dopo aver messo in evidenza la problematicità delle definizioni proposte di conflitto, non si può procedere senza sottolineare l'ulteriore complessità degli strumenti volti alla pacificazione ed alla transizione democratica.

1.5 PEACEBUILDING: EVOLUZIONI

La pacificazione e la costruzione di un regime, possibilmente democratico, sono intrinsecamente connesse alla nozione di guerra civile. Le problematicità messe in rilievo nello scorso paragrafo per i conflitti sono ampliati quando si tratta della loro risoluzione. Come sottolinea con forza Wood, “Eppure c’è molto che ancora non capiamo sulle guerre civili e perciò, sostengo io, sugli accordi negoziati e sul peacebuilding”61. Dopo aver

quindi tentato un chiarimento circa ciò che, in questa sede, s'intende per conflitto interno, risulta necessario chiarire anche ciò che s’intende per

peacebuilding. Tale termine è diventato corrente negli anni ’90 ed ha

conosciuto una rapida crescita, specialmente nei circoli politici, ma senza lo stesso grado di istituzionalizzazione in ambito accademico. In realtà il termine conosce il proprio debutto ne An Agenda for Peace del 1992 di Boutros-Ghali: la priorità allora era l’estrapolazione dei bisogni e l’identificazione di quelle risorse internazionali che avrebbero potuto aiutare a soddisfare quei bisogni. Al fine della definizione di un postconflict

peacebuilding, vennero creati un General Assembly Sub-Group on Post-Conflict Peace-building, un gruppo di lavoro formato da esperti e volto a

61

"Yet there is a lot we do not yet understand about civil war and therefore, I argue, about negotiated

settlements and peacebuilding” in E. J. WOOD, "Civil Wars: What We Don’t Know", Global Governance, 9, 2003, p. 247

(35)

sviluppare un inclusivo Inventory of Post- Conflict Peace-building Activities ed infine un simposio internazionale che riuniva un’ampia gamma di agenzie e unità delle Nazioni Unite e i Paesi donatori. Questo approccio trattava i conflitti come lineari. Il peacebuilding era, per questo motivo, “postconflict” e diventava necessario unicamente dopo che i tentativi di democrazia preventiva erano falliti per prevenire lo scontro armato, dopo che le procedure di peacemaking avevano stabilito una mandato volto a stabilire un accordo negoziato e dopo che il peacekeeping aveva monitorato un cessate il fuoco concordato e probabilmente facilitato il ritorno ad una forma di ordine sociale e politico. La concezione di peacebuilding prevista dall’Agenda includeva qualsiasi settore dell’assistenza internazionale, prendendo direttamente spunto dai mandati delle agenzie delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni regionali. Nei termini dell’Agenda, il

peacebuilding includeva obiettivi specifici che potevano derivare da peace agreement molto dettagliati come il disarmo delle parti, l’addestramento di

forze di polizia, la distruzione delle armi, il monitoraggio delle elezioni, il rimpatrio dei rifugiati a fini più generali quali “la restaurazione dell’ordine… l’avanzamento degli sforzi per proteggere i diritti umani, riformare o rafforzare le istituzioni governative, e promuovere processi formali e informali di partecipazione politica”62. Questo approccio fu inizialmente

molto utile per comprendere le esigenze eterogenee e complesse di una società in una fase successiva al conflitto. Tuttavia, l’approccio deduttivo rimane limitato dall’assunto iniziale, secondo cui il peacebuilding sarebbe la fase finale dell’assistenza internazionale nella risoluzione dei conflitti.

62

“the restoration of order ... advancing efforts to protect human rights, reforming or strenghtening

governmental institutions and promoting formal and informal processes of political participation”, B.

(36)

Questo approccio ha facilitato una visione segmentata del peacebuilding su cui ritorneremo in seguito. Dall’approccio induttivo sono risultate ulteriore riflessioni interessanti: il peacebuilding in questo caso implica l’analisi di una costellazione di forze sociali, politiche ed economiche che conducono ad un particolare conflitto. In tal senso, le “root causes” tendono ad essere favorite in quanto tali. Eppure questa concezione tende ad offrire risposte differenziate senza dare per scontato che ogni società che esce da un conflitto armato necessiti dello stesso tipo di assistenza internazionale. Questo approccio non è comunque privo di debolezze perché non chiarisce quale importanza attribuire alle diverse cause. Anche se delle teorie sul

peacebuilding si tratterà più diffusamente in seguito, questa breve

riflessione era necessaria per poter provare a recepire una particolare definizione di peacebuilding.

Come messo in evidenza, esistono nozioni di peacebuilding ampiamente divergenti: in questa sede se ne propongono tre, da cui si tenta di estrapolare una definizione.

In primo luogo, molti studiosi fanno riferimento all’accezione data da Boutros Boutros Ghali nell’Agenda for Peace del 1992 che vede il

peacebuilding come le attività di ricostruzione sociali e politiche

post-conflitto volte ad evitare “a relapse into conflict”63. I segnali di questo

approccio sono gli sforzi in direzioni di riconciliazione ampia della società e la costruzione dello Stato in società che escono da un conflitto armato e distinguono il peacebuilding dal peacekeeping o dal peacemaking.

63

(37)

In secondo luogo, a partire dai lavori di Galtung64 e dal campo dei

peace studies, un’altra concezione del peacebuilding enfatizza la prevenzione

dei conflitti e le iniziative di risoluzione al di sopra oppure al di sotto dello Stato. Se nella prima accezione analizzata, ci si concentra in particolare sul ruolo delle élites, in questo caso invece un ruolo di primo piano è attribuito ai processi non elitari. Questa nozione concettualizza le dimensioni sociali, psicologiche e religiose di processi di risoluzione dei conflitti concretizzati a livello comunitario o locale.

In terzo luogo, ed in contrasto con le prime due accezioni, una parte degli studiosi usa il termine con un riferimento ampio al peacekeeping,

peacemaking e prevenzione dei conflitti. In generale, infatti, questi

obiettano, almeno implicitamente, che le attività di prevenzione nelle società postconflitto differiscano sostanzialmente dalla prevenzione dei conflitti e dei processi di conclusione della guerra da qualsiasi altra società. Sarebbe perciò difficile distinguere la letteratura che si occupa di peacebuilding dalle ricerche più ampie sul peacekeeping ed il termine di una guerra civile.

In questa ricerca, ci atterremo alla prima accezione, che è la più utilizzata in letteratura, senza tuttavia trascurare le ultime due definizioni. Da un lato, infatti, si prenderanno in considerazione quegli elementi psicologici e sociologici fondamentali per la ricostruzione di una società postconflitto, enucleando alcune variabili, come la differenziazione etnica. Dall’altro lato, occorre ricordare il ruolo cruciale esercitato dal tipo di ricostruzione postconflitto dall'attività di prevenzione dallo scoppio di una nuova guerra civile. A questo proposito, preme sottolineare come non

64

J. GALTUNG, “Three Approaches to Peace: Peacekeeping, Peacemaking and Peacebuilding”, in J. GALTUNG, Peace, War and Defense-Essays in Peace Research, vol.2, Copenhagen, Christian Eljers, 1975, p.282-304

(38)

esistano fasi distinte tra ricostruzione e prevenzione, ma che il

“peacebuilding as politics”65 risulterà cruciale quando si tenterà di prevedere

l’indice di sopravvivenza degli accordi di pace. Alcune definizioni di peacebuilding sono così ampie da includere virtualmente tutte le forme di assistenza internazionale a società che hanno vissuto oppure sono a rischio di conflitto armato. Ad esempio, nel suo Report of the Secretary-General on

the Work of the Organization, Kofi Annan descrive varie attività di peacebuilding svolte dall’ONU che includono la decentralizzazione, la

riforma fiscale, gli investimenti sociali, lo sviluppo rurale, i diritti umani, le riforme della giustizia, le istituzioni di sicurezza e l’assistenza negli sforzi di costruzione della nazione66. Altre definizioni sono più precise ma mostrano un maggiore interesse rispetto ai mandati internazionali piuttosto che alle condizioni per una pace durevole, altri ancora intendono piuttosto concentrarsi su un’analisi comparata tra i vari tipi di approccio internazionale, contrapponendoli alle iniziative interne. In generale, invece, si può rilevare come il peacebuilding sia stato trattato seguendo due assi diversi. Il primo descrive le capacità messe a disposizione dalla comunità internazionale organizzata. Il secondo, descrive un particolare conflitto in questione, la sua natura, la sua intensità, la densità dell’appoggio sociale. Cousens e Kumar distinguono questi due approcci utilizzando il termine deduttivo per il primo, quando il contenuto del peacebuilding è delineato dalle esistenti capacità e dal mandato delle agenzie e organizzazioni

65

K. KUMAR (a cura di), Rebuilding Societies after Civil War, Boulder, Lynne Rienner, 1997, E. M. COUSENS e C. KUMAR, Peacebuilding as Politics, Boulder, Lynne Rienner, 2000

66

(39)

internazionali e induttivo67 per il secondo, quando il contenuto è tratto dalle capacità e bisogni di ogni singolo caso.

In conclusione, quindi si recepisce un’accezione ampia ma delimitata di peacebuilding intesa come “efforts to transform potentially violent social

relations into sustainable peaceful relations and outcomes”68. Questa definizione implica una pace positiva e negativa ed approcci elitari e non elitari. Enfatizza in particolare ciò che unifica gli sforzi del peacebuilding sul terreno: sforzi volti a normalizzare la violenza, ma né il mantenimento della pace nel breve periodo (peacekeeping) né la trasformazione della violenza in non violenza.

Da questo tentativo di dirimere le questioni definitorie maggiormente problematiche emerge innanzitutto una straordinaria convergenza delle teorie sulla democratizzazione con gli scritti, a vocazione maggiormente operative del peacebuilding. Si tratta di un elemento non casuale, che merita di essere affrontato da un punto di vista innanzitutto teorico: si tratterà di ciò nel prossimo capitolo.

67

E. M. COUSENS e C. KUMAR (a cura di), Peacebuilding as Politics, London, Lynne Rienner Publishers, 2001, p.5

68

J. P. LEDERACH, Building Peace: Sustainable Reconciliation in Divided Societies, Tokyo, United Nations University Press, 1994, p.14

(40)

2. IL PEACEBUILDING E LA

DEMOCRATIZZAZIONE: DUE MODELLI

TEORICI A CONFRONTO

Il collasso delle istituzioni statali in Somalia, il colpo di stato ad Haiti e le guerre civili in Bosnia, Cambogia, El Salvador, Guatemala e altri Paesi hanno tratteggiato i contorni distintivi dei conflitti del secolo scorso. Le risposte della comunità internazionale a queste emergenze, nonostante alcuni sforzi, sono stati contrastanti: successi occasionali nel restaurare l’autorità legittima si uniscono a brucianti fallimenti nel farlo. L’intervento degli Stati Uniti e dell’ONU in Somalia è sembrato essere privo di direzione. In Cambogia, l’ONU ha intrapreso un’operazione multidimensionale che ha prodotto una pace parziale nel 1993, rivelatasi oltremodo fragile dal momento che nel 1997 un nuovo colpo di stato ha compromesso la transizione. Ad El Salvador, in Guatemala, Namibia, Croazia e Mozambico, la pace è più stabile ma le prospettive di lungo periodo per un’integrazione sociale rimangono problematiche. In Bosnia, la spartizione de facto sembra resistere in tutto il Paese e l’attuale stabilità relativa è una funzione diretta del peacekeeping della NATO. La Comunità Internazionale ha assunto una sovranità temporanea in Kosovo e Timor Est e le politiche di ricostruzione sono state appena intraprese. Di fronte ad un numero crescente di conflitti intrastatuali e ad un consistente coinvolgimento della Comunità Internazionale, sembra che manchi da un lato, una sufficiente capacità di

(41)

previsione nelle strategie di ricostruzione che possa trarre riflessioni e contributi anche dalla letteratura sulla transizione.

Democratizzazione e peacebuilding sono due campi recenti d’analisi, non esistevano vent’anni fa. Gli studiosi hanno iniziato ad analizzare la terza ondata di democratizzazione nei primi anni’80 ed il termine

peacebuilding è diventato corrente negli anni ’90. “Nondimeno, è

sorprendente come gli specialisti di relazioni internazionali abbiano iniziato soltanto recentemente a prestare un’attenzione più rigorosa al rapporto tra

peacebuilding e governance politica e, più specificamente, alla ricerca

estensiva sulla democratizzazione”69. In effetti, potrebbe essere molto utile al peacebuilding recepire una serie di paradigmi della democratizzazione come pure le teorie sulla democratizzazione potrebbero riuscire maggiormente predittive. Questo pone una serie di problemi metodologici e di disciplina. Messa in evidenza la necessità di chiarire meglio la relazione tra questi due concetti, si procederà trattando delle teorie della transizione democratica a cui seguirà un’analisi dell’evoluzione del peacebuilding. Saranno poi sottolineati elementi di convergenza e divergenza tra queste due teorie.

69

“Nevertheless, it is surprising that international relations specialists only recently began to pay

more rigorous attention to the relationship between peacebuilding and political governance and, more specifically, the extensive research on democratization” in C. T. CALL e S. E. COOK, “On

(42)

2.1 TEORIE DELLA TRANSIZIONE

DEMOCRATICA

L’evoluzione di un regime democratico è stato variamente studiato e ne sono state enucleate quattro fasi: transizione, instaurazione, consolidamento e crisi70. Perseguendo l’obiettivo di studiare la ricostruzione di regime successivo ad una guerra civile, e le condizioni endogene ed esogene necessarie alle possibilità di instaurare una democrazia, le dimensioni interessanti ai fini di questo lavoro sono in effetti tutte e quattro. La transizione e l’instaurazione sono tuttavia le uniche due fasi cruciali perché concernono, in senso stretto, il delicato passaggio tra la conclusione di un conflitto intrastatuale, la stipula di un accordo di pace e l’effettiva instaurazione democratica.

La transizione è rilevante nella misura in cui essa si origina da un conflitto interno. In questo lavoro, si prende cioè in considerazione una particolare tipologia di transizione. In tal modo, utilizzando in questo senso il modello, si escluderanno poi nello studio empirico tutte le transizioni dall’autocrazia alla democrazia avvenute in modo pacifico ed ampiamente studiate dalla letteratura71: si pensi ad esempio all’Europa orientale con l’abbandono del modello sovietico oppure alle più recenti transizioni in Europa meridionale (Spagna, Portogallo e Grecia). A queste transizioni si aggiungono anche tipologie differenti: si pensi ad esempio ai passaggi inversi cioè dalla democrazia all’autocrazia attraverso l’avvento di una

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L. MORLINO, Democrazie e democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2003, p.115

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L. MORLINO, Democrazie e democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2003; J. J. LINZ e STEPAN,

Problems of Democratic Transition and Consolidation. Southern Europe, South America, and Post-Communist Europe, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1996

Figura

Tabella 1: DEMOCRAZIE ELETTORALI E REGIMI LIBERI FORMATESI  DOPO LA II GUERRA MONDIALE
Figura 1: La prima democratizzazione: la scatola di Dahl
Tabella 3: RIASSUNTO DEI CASI INCLUSI NELL’ANALISI KAPLAN MEYER DURATA/REGIME  PRECEDENTE      Chi-Square  Df  Sig
Figura 1: Funzione di sopravvivenza KM al variare del regime precedente allo scoppio del  conflitto.
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