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La teoria delle scelta razionale della guerra civile è rilevante per i calcoli che fanno le parti per sostenere o rigettare la pace dopo la fine dei combattimenti. Si assume in tal caso che la guerra ricorre se l’utilità attesa della guerra sia più alta dell’utilità attesa della pace. Questo modello è stato arricchito da recenti lavori sulla ricorrenza ed il termine delle guerre civili152. Questi studi sostengono che le parti in lotta sono razionali ma non infallibili, la guerra genera guadagni privati e pubblici e perdite che sono distribuite. I guadagni di ogni fazione spiegano perché le guerre siano collettivamente sub-ottimali ed anche collettivamente irrazionali. Un modello di presa delle decisioni nel peacebuilding richiederebbe assunti limitativi, ad esempio, sulle interazioni tra i ribelli e tra questi ed il governo come pure circa le motivazioni dei ribelli, le loro dimensioni relative e la loro forza per provare a sperimentare un equilibrio di Nash-Cournot153 oppure un equilibrio di Stackelberg o della leadership154. La decisione delle parti di sostenere la pace ovvero il ritorno alla guerra potrebbe quindi essere derivata dalle funzioni di utilità rispetto alle funzioni di reazione attesa degli altri. Le motivazioni specifiche che plasmano il comportamento dei

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J. P. AZAM, “how to Pay for Peace”, Public Choice, 83, 1995, p.173-84 e P. COLLIER e A. HOEFFLER, “Greed and Grievance in Civil War”, World Bank Policy Research Paper 2355, 2000, D. MASON e P. FETT, “How Civil Wars End: A Rational Choice Approach”, Journal of Conflict

Resolution, 40, dicembre 1996, p.546-68

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P. COLLIER e A. HOEFFLER, “Greed and Grievance in Civil War”, World Bank Policy Research

Paper 2355, 2000

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combattenti sono così complessi e variegati. La trinità dei motivi legati a Tucidide e Hobbes (paura, onore e interesse) sono plasmati secondo variazioni moderne: dilemmi di sicurezza, identità etnica o fervore ideologico e loot seeking (ricerca del bottino) ed ognuno di questi è complicato da differenze potenziali tra leader e seguaci e tra fazioni e padroni. La decisione di organizzare o partecipare ad una ribellione e poi un tentativo di raggiungere una pace fattibile non è una conseguenza immediata e dipende in maniera consistente dagli attori, dalle loro motivazioni e le loro risorse. Ciò che le parti in lotta condividono comunque è un contesto politico in cui il successo di raggiungere un accordo dipende dall’intensità, le risorse disponibili per lo sviluppo, l’assistenza internazionale per colmare i vuoti. Bassi livelli di sviluppo economico ed altre deficienze di competenze locali possono spingere gli attori alla violenza dovuti ai bassi costi ed alle opportunità per guadagni privati legati alla violenza155. Le accresciute ostilità legate all’esperienza di guerra rende la riconciliazione più difficile. Per raggiungere la pace e la riconciliazione in queste circostanze Zartman156 sostiene che debbano porsi alcune condizioni: 1. riconcentrare il potere centrale (il potere deve essere riconosciuto come legittimo oppure cioè che è legittimamente considerato come potere); 2. la crescita della legittimità dello Stato attraverso la partecipazione (elezioni, power-sharing) e 3. la crescita e l’allocazione di risorse economiche in sostegno della pace. A questo aggiunge che, data la devastazione della guerra civile, le tre dimensioni sopracitate hanno bisogno di 4. assistenza internazionale, esterna oppure di un’autorità in un periodo di transizione. Eppure non tutti i Paesi

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Paper 2355, 2000

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W. ZARTMAN, The Disintegration and Restoration of Legitimate Authority, Boulder, Lynne Rienner, 1995, p.269

beneficiano di mediazione esterna o intervento nelle guerre civili. Come vedremo, alcune guerre si concludono in maniera più soddisfacente per il cambio di regime verso un governo stabile e rappresentativo se una delle parti prevale sull’altra, l’esempio classico è dato dalla guerra civile americana. Quest’ultima dimensione, del ruolo degli attori internazionali, è messa in particolare rilievo da Doyle e Sambanis157 che non intendono creare un particolare modello di presa delle decisioni e nemmeno prevedere dove le Nazioni Unite decideranno di lasciarsi coinvolgere ma, piuttosto, intendono esplorare le variabili che influenzano un peacebuilding di successo dopo una guerra civile. In questa sede si sostiene che i livelli di ostilità legati alla guerra ed il livello delle competenze locali prima e dopo la guerra interagiscono con quelle capacità internazionali per dare origine a particolari risultati successivi al conflitto. Per dati livelli di capacità e ostilità sarà identificata l’adeguata forma di assistenza internazionale per massimizzare lo spazio disponibile per la pace.

Per le strategie internazionali del peacebuilding il cosiddetto concetto delle operazioni dovrebbe essere strategico nel senso ordinario del termine. Sebbene la strategia debba essere designata per indirizzarsi ad una situazione particolare, devono essere identificati degli ampi parametri che s’identificano con la maggior parte dei conflitti. Tutte le strategie dovrebbero indirizzare le risorse locali di ostilità, le capacità locali per il cambiamento ed il grado specifico di coinvolgimento internazionale utilizzabile per assistere il cambiamento. Si possono concepire queste dimensioni come tre dimensioni di un triangolo la cui area è lo spazio politico o la capacità effettiva per costruire la pace. Questo suggerisce che le dimensioni si

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M. W. DOYLE e N. SAMBANIS, “International Peacebuilding: A Theoretical and Quantitative Analysis”, The American Political Science Review, vol.94, n.4, (dicembre 2000), p.779-801

possono sostituire, soprattutto parzialmente. Intensità delle ostilità meno estreme corrispondono probabilmente a capacità locali deboli o ad un minor coinvolgimento internazionale. Il coinvolgimento internazionale interagisce con le capacità locali o le ostilità di fazione per plasmare uno spazio triangolare. Pochi piani di peacebuilding lavorano senza vicini regionali o altri attori internazionali significativi che desistono dal sostenere la guerra e iniziano a supportare la pace. In Cambogia, per esempio, era piuttosto importante per le prospettive di pace che insieme la Cina sospendesse di erogare il proprio supporto agli Khmer Rossi e l’Unione Sovietica, il regime di Huri Sen di Vietnam e l’Occidente alle forze realiste. Mancando un sostegno esterno ogni fazione trova le negoziazioni per la pace più attraenti. La fine della guerra fredda è stata sicuramente una precondizione per l’evoluzione del peacebuilding nei primi anni ’90.

Al di là del minimo identificato con il peacebuilding internazionale anche la tipologia fa la differenza in quattro tipi di operazioni con mandato. In primo luogo, la missione di monitoraggio o di osservazione è un accordo

ad interim usato nei conflitti violenti con il consenso dello Stato sovrano. In

questi conflitti non esiste una determinazione formale di aggressione, l’obiettivo è di monitorare una tregua ed aiutare a pervenire ad una pace negoziata attraverso la presenza di osservatori militari e civili. In secondo luogo, un peacekeeping tradizionale coinvolge il dispiegamento di unità militari e ufficiali civili per facilitare la transizione negoziata di un conflitto. E’ basato sul consenso delle parti (normalmente) autorizzata dal capo VI della Carta delle Nazioni Unite. In realtà, a questo proposito, esiste ancora un acceso dibattito in dottrina sulla legittimazione dei mandati delle operazioni di pace, se cioè afferiscano al capo VI ovvero al VII o ancora ad

un fittizio capo VI e mezzo158. Le operazioni di peacekeeping tradizionale stabiliscono tipicamente e controllano una zona neutralizzata ed assistono alla smobilitazione ed al disarmo delle forze militari. In terzo luogo, si delinea un peacekeeping multi-dimensionale basato sul consenso e designato per implementare un accordo di pace negoziato. Questo include un insieme di strategie sostenibili, che può spaziare dal peacekeeping tradizionale a strategie per espansione delle capacità (ad esempio la ricostruzione economica) ovvero la trasformazione istituzionale (ad es. la riforma della polizia, delle forze armate, del sistema giudiziario, le elezioni, la ricostruzione della società civile). Infine, il peace enforcement è un intervento militare (di solito multilaterale) autorizzato dal capo VII della Carta delle Nazioni Unite designato per imporre un ordine pubblico con la forza se necessario, anche senza il consenso dello Stato sovrano.

Il mandato del peacebuilding internazionale deve tenere in debita considerazione le caratteristiche delle fazioni. Doyle e Sambanis lo sottolineano efficacemente: “il peacebuilding non opera su Stati stabili ma su fazioni instabili”159. Più ostili e numerose sono le fazioni, più difficile è il processo di pace e tanto più è richiesta un’autorità o assistenza internazionale per stabilire la pace. In circostanze meno ostili (meno fazioni, una situazione di stallo ma minor violenza), il monitoraggio internazionale può essere sufficiente per stabilire una fiducia trasparente ed una pace self-

enforcing. Il monitoraggio aiuta a creare trasparenza tra le parti che hanno

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