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PER UNA TEORIA GENERALE?

2.2 IL PEACEBUILDING COME PARADIGMA TEORICO

Dopo aver definito la nozione di peacebuilding, all’inizio di questo lavoro, si può riprendere tale concetto e collocarlo in un contesto teorico più ampio.

Da un lato, sia i concetti che le politiche connesse alla ricostruzione politica post-conflitto internazionale si sono ampliati, sono più sfuggenti e più intrusivi. La concezione di peacebuilding oggi significa non soltanto impedire che compagini precedentemente nemiche ritornino in guerra, ma anche orientarsi verso le profonde radici del conflitto e favorire lo sviluppo in società postbelliche. In pratica, la Comunità Internazionale è maggiormente determinata a creare regimi politici di tipo democratico in contesti successivi ad un conflitto, ricreando le istituzioni chiave dello Stato e della società secondo un’impostazione che risente chiaramente degli

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influssi occidentali. Gli Stati donatori e le organizzazioni internazionali si sono concentrate in particolare sull’ormai classico “democratic

reconstruction model” secondo il termine coniato da Marina Ottaway, che

prevede processi di constitution making, elezioni entro due anni dalla fine delle ostilità, finanziamenti alla società civile ed un’estesa ricostruzione delle istituzioni statali. Un’agenda politica postconflitto presenta aspetti molto positivi, specialmente perché implica una tendenza crescente da parte delle superpotenze a sostenere sempre meno i dittatori per ragioni strategiche. Dall’altro lato, il modello di ricostruzione democratica appare di problematica implementazione. Dei 18 Paesi che sono stati teatro di missioni di mantenimento della pace dell’ONU con una componente di

institution-building politico tra il 1998 ed il 2002, 13 (il 72%) sono stati

classificati come forme di autoritarismo nel 2002139. Tuttavia, deve essere sottolineato come la maggior parte di questi regimi sperimentavano in queste fasi un netto miglioramento rispetto alla situazione precedente ma non riuscivano a soddisfare le aspettative degli osservatori internazionali o delle popolazioni locali.

Le difficoltà legate alla ricostruzione postconflitto pongono una serie di questioni. Esse possono essere interpretate come un fallimento della comunità internazionale a causa di risorse insufficienti oppure scelte sbagliate, o ancora una non appropriata esportazione di modelli politici occidentali tuttavia occorrerebbe semplicemente enfatizzare anche soltanto i successi parziali dal momento che sono richiesti tempi ragionevolmente

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Questi Paesi sono Afghanistan, Angola, Bosnia, Cambogia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), Timor Est, Haiti, Liberia, Rwanda, Sierra Leone, Somalia e Tagikistan. La lista delle missioni delle Nazioni Unite è tratta dal sito internet (www.un.org) da cui sono state escluse le missioni che coinvolgevano una pluralità di Stati (ad es. UNPROFOR che ha interessato Croazia, Serbia e Bosnia-Herzegovina), le missioni che non avevano componenti di ricostruzione (ad esempio, Cipro)

lunghi per abbozzare la lenta costruzione di una tradizione. Alcuni ricercatori sembrano sottostimare la presenza degli elementi economici, sociali, politici e militari interni alla società che possono contribuire a migliorare il modello. Inoltre un certo numero di ricercatori mette in luce come l’applicazione, e soprattutto la cattiva attuazione, del modello stesso possa favorire la regressione dal pluralismo, conducendo a conflitti armati o addirittura genocidi140.

La strategia politica contenuta nel mandato di peacebuilding implica un concetto di operazioni incarnato. Così come le guerre civili sono usualmente legati crolli dell’autorità statale legittime, una pace civile sostenibile confida in una ricostruzione efficace di regime. Doyle e Sambanis collocano “il peacebuilding come ciò che deve accadere nel mezzo”141, cioè tra il termine del conflitto e la costruzione di un regime democratico. Le guerre civili sorgono quando individui, gruppi e fazioni “scoprono che un poliziotto, un giudice, un soldato o un politico non parla e non agisce più per loro. Il poliziotto locale diventa un poliziotto croato, serbo e musulmano”142. Quando i cittadini delusi si mobilitano, acquisiscono le risorse per rischiare un conflitto armato, incontrano resistenza e giudicano di poter vincere, a questo segue una guerra civile. Sebbene si possano immaginare soltanto soluzioni puramente cooperative alla pace interna, la confusione e la violenza e le variazioni d’identità che caratterizzano i

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J. SNYDER, From Voting to Violence: Democratization and Nationalist Conflict, New York, Norton, 2000

141

“Peacebuilding is about what needs to happen in between”, in M. W. DOYLE, N. SAMBANIS, “International Peacebuilding: A Theoretical and Quantitative Analysis”, The American Political

Sciences Review, vol.94, n.4 (Dicembre 2000), p.779

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“discover that a policeman, judge, soldier, or politician no longer speaks and acts for them. The

local cops becomes the Croatian, Serb, or Muslim cop” in M. W. DOYLE, N. SAMBANIS,

“International Peacebuilding: A Theoretical and Quantitative Analysis”, The American Political

conflitti perduranti e le condotte delle guerre civili non sembrano delle circostanze promettenti per la cooperazione razionale tra le fazioni. Eppure, lo stabilizzarsi di una pace civile sembra richiedere il venire meno sia degli incentivi difensivi che aggressivi che motivano i leader delle fazioni (ed a volte i loro seguaci). Gli incentivi di sicurezza si trasformano in dilemmi di sicurezza interna. Non appena emerge l’anarchia (dovuta al collasso dell’autorità centrale), ogni gruppo o fazione cerca di armarsi per protezione e comunque ogni armamento difensivo costituisce una minaccia per altre fazioni143. Gli incentivi offensivi sorgono perché le fazioni e i loro leader vogliono imporre alla loro ideologia o cultura, falciare le spoglie del potere statuale, appropriarsi della proprietà dei rivali, sfruttare le risorse pubbliche per guadagni privati. La pace perciò richiede l’eliminazione, gestione o controllo dei saccheggiatori144 oppure degli impresari di guerra145. La conquista da parte di una fazione può risolvere il problema, ma anche in questo caso la ricostruzione politica e sociale può essere vitale per una maggiore legittimità e stabilità. La pace attraverso gli accorsi può prevedere la separazione delle popolazioni e le partizioni territoriali per indirizzare incentivi146. Le guerre civili possono trasformarsi in conflitti internazionali, come quello tra Etiopia ed Eritrea, oppure configurarsi come equilibri di potenza stabili e relativamente sicuri come a Cipro. Come sottolineano Doyle e Sambanis, questo però “in molte guerre civili, il contesto è oltre a

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B. POSEN, “The Security Dilemma in Ethnic Conflict” in M. BROWN (a cura), Ethnic Conflict

and International Security, Princeton NJ, Princeton University Press, 1993, p.105

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S. STEDMAN, “Spoilers problems in PeaceProcesses”, International Security, 22, autunno, 1997, p.12

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R. DEFIGUEREIDO e B. WEINGAST, “The Rationality of Fear: Political Opportunism and Ethnic Conflicts”, in B. WALTER e J. SNYDER, Civil War, Insecurity, Intervention, New York, Columbia University Press, p.263

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C. KAUFMANN, “Possible and Impossible Solutions to Ethnic Conflicts”, International Security, 20 (primavera), 1996, p. 140

chi o a quale ideologia controlla un singolo ordinamento”147. Inoltre in alcune guerre etniche i costi della pulizia etnica potrebbero sembrare troppo alti oppure una base comune insufficiente per costruire una cittadinanza civica. I combattenti in queste circostanze hanno ancora continue dispute sugli interessi materiali, su chi e quali regole scegliere e sulle condizioni di sicurezza. Ogni parte ha sperimentato distruzioni devastanti (sebbene in vario grado) e sia i leader che i seguaci verosimilmente potranno covare profondi risentimenti per le perdite subite. Essi sperimentano allo stesso modo i costi della guerra e possono arrivare ad un “hurting stalemate”148 (uno stallo dannoso) in cui nessuna fazione sembra possa vincere ed ognuno percepisce gli alti costi di una lotta continua149. In queste ultime circostanze la pace sostenibile ha bisogno dell’autorità statale come punto di partenza per superare i problemi di sicurezza. Per tentare di definirla possiamo ricordare come nel “Leviatano” di Thomas Hobbes, la sovranità statale o l’autorità ricopre il ruolo di ristorare il potere legittimo150. A questo si può aggiungere che l’Oxford English Dictionary definisce l’autorità come “diritto di comandare”, “potere d’influenzare l’azione”, “potere d’influenzare le opinioni degli altri”151.

Definita la nozione di autorità, è necessario analizzare il comportamento degli attori, appartenenti alle diverse fazioni, utilizzando gli strumenti analitici forniti dalle teorie della scelta razionale.

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“in many civil wars the contest is over who or what ideology controls a single polity” in M. W. DOYLE, N. SAMBANIS, “International Peacebuilding: A Theoretical and Quantitative Analysis”,

The American Political Sciences Review, vol.94, n.4 (Dicembre 2000), p.779

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E. M. COUSENS e C. KUMAR, Peacebuilding as Politics, Boulder, Lynne Rienner, 2002

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W. ZARTMAN, Ripe for Resolution: Conflict and Interventions in Africa, Oxfrod, Oxford University Press, 1985

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“right to command”, “power to influence action”, “power over the opinions of others” si veda

anche H. ARENDT, “What is authority”, Between Past and Future, New York, Viking, 1961, p.91- 141

2.2.1 LE SCELTE DEGLI ATTORI PER L’USCITA DAL

CONFLITTO: LA TEORIA DELLA SCELTA RAZIONALE DELLA