RICOSTRUZIONE DEMOCRATICA
3.2 IL MODELLO DI RICOSTRUZIONE DEMOCRATICA
Il modello di ricostruzione democratica emerge nei primi anni ’90, quando la fine della Guerra Fredda facilitava una serie di accordi di pace che ponevano fine a conflitti duraturi in Africa, America Centrale e Asia, quali in Nicaragua, El Salvador e Cambogia. Una caratteristica comune di questi accordi era che sancivano lo svolgimento di elezioni democratiche entro un dato periodo di tempo che era dettato maggiormente da esigenze internazionali piuttosto che da considerazioni realistiche su quanto tempo fosse necessario per compiere tutti i passi preliminari per elezioni di successo185. Un periodo di tempo di due anni venne codificato come il
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L. REYCHLER e T. PAFFENHOLZ (a cura di), Peacebuilding: a Field Guide, Boulder, Lynne Rienner, 2001
185
C. KUMAR (a cura di), Post-Conflict Elections, Democratization, and International Assistance, Boulder, Lynne Rienner, 1998
periodo di tempo necessario per preparare le elezioni postconflitto, indipendentemente da quali fossero le condizioni iniziali. Il periodo di due anni successivo alla stipula del trattato venne codificato come il periodo di tempo necessario per preparare le elezioni successive al conflitto. Le elezioni rappresentano un passaggio verso la democrazia. Nel corso della terza ondata esse sono state uno strumento per rafforzare la democrazia e deporre i regimi autoritari, quasi un veicolo ed un fine della democratizzazione. Con il diminuire della loro legittimazione e rappresentatività, i capi autoritari venivano sottoposti a pressioni sempre più forti, finché non sentivano la necessità di rinnovarsi attraverso le elezioni, credendo di poter prolungare il proprio regime e quello degli alleati. I risultati hanno tuttavia quasi sempre deluso le aspettative dei dittatori. Durante i primi quindici anni di terza ondata, le elezioni sorprendenti hanno dominato la scena in tutte le tipologie di transizione sopramenzionate: dal Brasile nel 1974 con la sconfitta del generale Geisel, all’Argentina nel 1983 con la vittoria di Raùl Alfonsìn come pure nello stesso anno in Turchia con la vittoria del partito della Madrepatria.
Questo “magico” numero di due anni e` ancora ampiamente utilizzato. Gli accordi di Lusaka che hanno sancito la conclusione del conflitto in Repubblica Democratica del Congo prevedono elezioni da tenersi entro due anni con la conclusione di un dialogo nazionale; gli accordi di Bonn sull’Afghanistan sancivano una tornata elettorale da tenersi entro due anni dalla convocazione della loya jirga. Chiaramente, questi accordi non si attagliano perfettamente alle condizioni di ogni Paese. Per come originariamente previsto, il modello di ricostruzione democratica era un affare relativamente semplice. Consisteva di due aspetti particolari: dal
punto di vista militare, la smobilitazione degli ex combattenti, alcune previsioni per il loro reinserimento nella vita civile e la formazione di un nuovo esercito nazionale186; da quello politico, la strutturazione di un regime democratico, includendo la redazione di una bozza e l’approvazione di una Costituzione, la formulazione della legislazione necessaria sui partiti politici e le elezioni, la registrazione dei cittadini con diritto di voto ed infine l’organizzazione di elezioni multipartitiche187. In alcuni Paesi, per esempio, El Salvador, il processo e’ stato grandemente favorito dal fatto che le strutture formali di un sistema democratico esistevano già e che le elezioni erano state tenute periodicamente188. In altri Paesi, come la Cambogia e nei Paesi africani, il processo doveva iniziare praticamente da zero ed un periodo di due anni era in effetti un periodo molto limitato.
Sotto supervisione internazionale, il processo iniziale e’ stato portato avanti con relativo successo nella maggior parte dei Paesi in cui e’ stato intrapreso. La comunità dei donatori ha sviluppato velocemente una metodologia di riforma politica postconflitto che ha lavorato sufficientemente bene nel condurre i Paesi alle elezioni. Ma ci furono notevoli eccezioni: l’Angola ritornò alla guerra immediatamente dopo le elezioni189e l’Iraq non ha mai smesso di esserlo; in Cambogia, il medesimo esito venne ottenuto da una tacita decisione di approvare il precedente partito al potere attraverso un sistema inusuale ed altamente instabile di
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COLLETTA KOSTNER WIEDERHOFER, The Transtion from War to Peace in SubSaharian
Africa, World Bank, 1996
187
Post-Conflict Elections, International Encyclopedia of Elections, Washington, Congressional Quarterly, 2000
188
E. A. BALOYRA, “El Salvador: From Reactionary Despotism to Partidocracia” in C. KUMAR (a cura di), Post-Conflict Elections, Democratization, and International Assistance, Boulder, Lynne Rienner, 1998, pp.15-38
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M. OTTAWAY, “Promoting Democracy After Conflict:The Difficult Choices, International
designazione di due primi ministri190. Il fallimento del modello in due casi tanto rilevanti è una dimostrazione del fatto che le elezioni in sé non potessero essere una panacea tale da poter spazzare via i gruppi più potenti al potere. Tale riflessione fu poi confermata dall’avvento di Hun Sen che ritornò al potere con un colpo di stato. Il Mozambico subì allo stesso modo, ma in un momento successivo, questo primo momento di ricostruzione democratico. Il Paese era talmente prostrato dalla guerra che sia il partito al governo FRELIMO e la fazione armata all’opposizione RENAMO erano totalmente dipendenti dalla Comunità Internazionale e si trovavano quindi con margini di manovra molto limitati. La Comunità Internazionale colpita dalla débacle delle elezioni in Angola poco prima della data stabilita per le elezioni in Mozambico prolungò il periodo di transizione per concludere la smobilitazione degli ex-combattenti. A questo si aggiunsero le ingenti somme spese per l’organizzazione delle consultazioni elettorali e particolarmente per la riorganizzazione di RENAMO, trasformata da movimento di guerriglieri ragtag a partito politico presentabile da inserire nel gioco politico. Circa 18 milioni di dollari furono spese per Renamo, in parte per la ricostruzione politica ed in parte, come ammesso da Marina Ottaway “per dare il pane al pane, come una promessa sposa per mantenere RENAMO nel processo elettorale”191. Dal punto di vista dei risultati furono fondi ben spesi, come confermato da molti autori192. La Comunità Internazionale apprese molto circa la ricostruzione dello Stato da queste
190
F. Z. BROWN, “Cambodia’s Rocky Venture in Democracy” in K. KUMAR, Post-Conflict
Elections, Democratization and International Assistance, Boulder, Lynne Rienner, 2003
191
“To call a spade a spade, as a bride to keep Renamo in the election process” in M. OTTAWAY, “Promoting Democracy after Conflict”, International Studies Perspectives, 2003, 4, p.316
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TURNER, NELSON e MAHLING-CLARK, “Mozambique’s Vote for Democratic Governance, in C. KUMAR (a cura di), Post-Conflict Elections, Democratization, and International Assistance, Boulder, Lynne Rienner, 1998
prime esperienze e, come risultato, il modello divenne più complesso e sofisticato. Tra le lezioni apprese, vi era il bisogno di attribuire maggiore attenzione e risorse non soltanto alla reintegrazione e smobilitazione degli ex combattenti ma anche nella riforma dell’intero settore di sicurezza e nell’assicurare che l’ambito militare fosse avulso dalla politica. Il concetto di sicurezza con l’evoluzione del modello si è poi fatto più sofisticato includendo a partire dal militare anche la polizia, agenzie di intelligence e istituzioni civili193. La Comunità Internazionale ha appreso molto sugli aspetti più politici, a causa dei risultati delle elezioni successive al conflitto, ed anche rispetto all’evoluzione della letteratura sulla promozione della democrazia in generale. Si sviluppò un notevole consenso intorno alla necessita’ che le elezioni vedessero un coinvolgimento della società civile, un miglioramento delle capacita’ indipendenti dei media e la promozione del
rule of law. Dal momento che tutte le società postconflitto erano
caratterizzate da un contesto altamente centralizzato, si pose in essere la necessità di dare origine a strutture di governo decentralizzate, locali e regionali. Il modello poi sviluppò un’attenzione crescente anche nei confronti delle possibili capacità del governo nell’implementare le
performances economiche necessarie per sviluppare quella “libertà dal
bisogno”194 , condicio essenziale per lo sviluppo della democrazia195. Questo coacervo di prescrizioni non conteneva nulla di sbagliato o criticabile in teoria, ogni idea, presa individualmente, era basata sul senso comune. In effetti, tuttavia, le prescrizioni erano eccessive perché tentavano di dare
193
N. BALL, “Transforming the Security Sector in Weak States: The Role of External Actors”, Lessons and Strategies, Geneva, Graduate Institute for International Studies, 2000
194
A. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967
195
T. CAROTHERS, Aiding Democracy Abroad: the Learning Curve, Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, 1999
risposte alle innumerevoli domande di war-torn societies. Il modello di ricostruzione democratica divenne quasi un circolo vizioso: i Paesi dovevano intraprendere un’ampia gamma di riforme perché i loro problemi erano gravissimi, ma i problemi erano di eccessiva portata affinché i governi potessero implementare tutte le riforme. Al di la’ del circolo vizioso talvolta tuttavia vi era difetto di volontà politica. Un esempio eclatante e’ dato da un accordo firmato dal Fondo Monetario Internazionale e dal governo della Sierra Leone in una breve tregua della guerra civile del Paese nel 1999 senza alcun riguardo rispetto alle condizioni e le capacita’ del governo locale, pur nel pieno rispetto del modello di ricostruzione democratica196. In alcuni casi il Paese non aveva risorse necessarie indirettamente previste dal modello di ricostruzione democratica e la Comunità non fornì un aiuto sufficiente nel rintracciare strategie realistiche per enucleare e poi mettere in piedi le riforme e rintracciare un piano d’azione commensurata con l’abilità di ogni Paese di implementarlo. Il ruolo della Comunità Internazionale rimase centrale nel modello. In principio, esso era concepito come un’exit strategy (cioè portare velocemente il Paese alle elezioni e poi ritirarsi) ma poi l’apporto dell’assistenza internazionale divenne un requisito indispensabile. “ Tuttavia, la Comunità Internazionale continuava a prescrivere ciò che era diventato un modello massimalista per tutti i Paesi post-conflitto”197. Eppure se il ruolo della Comunità Internazionale si era fatto fondamentale, soltanto pochi Paesi ricevettero un livello di sostegno
196
International Monetary Fund, Memorandum of Economic and Financial Policies (for Sierra
Leone), Allegato alla Lettera d’Intenti del Governo della Sierra Leone al FMI, Freetown, Novembre
1999
197
“Nevertheless, the international community continued to prescribe what had turned into a maximalist model for all postconflict countries” in M. OTTAWAY, “Promoting Democracy After
commensurato alle funzioni previste. La Bosnia è il miglior esempio di un Paese in cui la Comunità Internazionale non soltanto consigliò l’applicazione del modello di ricostruzione democratica ma provvede anche risorse sufficienti all’espletazione del modello. Non ci sono standard per giudicare se le risorse internazionali erogate alla Bosnia furono sufficienti, ma erano sicuramente più ampie di quanto ricevuto da tutti gli altri Paesi per missioni di questo tipo e sicuramente più di quanto ogni Paese a quel tempo potesse sperare. Eppure i risultati furono modesti, andando ad inficiare la validità del modello. Sicuramente la Bosnia era un caso difficile, come lo sono tutte le realtà postconflitto. Le divisioni tra i tre gruppi etnici erano connesse a complesse dinamiche in cui s’intrecciavano memorie storiche, orrori recentemente perpetrati e la presenza di leader determinati a mantenere vivo il conflitto, sotto tutti i fronti. Di fronte a queste profonde fratture ma comunque determinati a tenere il Paese unito, i mediatori di Dayton concepirono una complessa struttura federale, composta da due entità, ognuna delle quali avrebbe avuto una struttura federale. Gli accordi di Dayton si potevano appoggiare su un coinvolgimento internazionale massiccio: circa 27000 peacekeepers e amministratori internazionali erano dispiegati in un Paese di circa tre milioni di persone e la loro presenza era sostenuta da innumerevoli ONG che lavoravano sul campo. Gli aiuti erogati per la ricostruzione erano anche molto ampi. A questo aspetto si somma una considerazione più generale sulla previsione da parte della Comunità Internazionale di non fissare un limite temporale rigido al proprio impegno: questo ha comportato minori incentivi per i guerriglieri a continuare nel loro gioco a fronte di un impegno indeterminato. Nonostante tutto però i risultati finora sono stati piuttosto modesti. Al di là dell’avvenuto rispetto
degli accordi di pace, questo non ha comportato significativi miglioramenti nel livello di vita, che ancora non permette un’effettiva rinascita dello Stato bosniaco né come democrazia che come altro tipo di regime. Le istituzioni federali sono ancora deboli, con le varie parti che resistono ad un effettivo sviluppo. Le elezioni organizzate dalla Comunità Internazionale hanno restituito al potere leader nazionalisti, dimostrando la determinazione perseguita dai vari gruppi di mantenere invariati i cleavages198. Sette anni
dopo Dayton, la Bosnia sperimenta quindi un parziale fallimento del modello di ricostruzione democratica, poiché non è possibile neppure azzardare una previsione sul momento in cui potrà avere inizio il consolidamento di un regime democratico. Eppure la Comunità Internazionale non può neppure cullarsi nella consolazione per cui la Bosnia sarebbe un paese particolarmente difficile, convinzione che si frantuma comparando questo caso con quelli di Afganistan, Iraq o Repubblica Democratica del Congo. In definitiva, il giudizio su questo modello è piuttosto severo: “la giuria è ancora concentrata sul modello massimalista di ricostruzione statale, ma finora sembra improbabile che il verdetto sarà favorevole neanche per i Paesi in cui il modello è stato più estensivamente applicato”199. La soluzione politica rintracciata in Bosnia dalla Comunità Internazionale è puramente eccezionale per risolvere una crisi. Altrove, gli Stati Uniti, il Canada ed i Paesi europei, che sono gli attori maggiormente coinvolti in questo genere di missioni, si guardano bene dal
198
A. K. TALENTINO, “Failed Prevention: Bosnia” in M.E. BROWN e E. D. ROSECRANCE, The
Cost of Conflict: Prevention and Cure in the Global Arena, Lanham, Rowman & Littlefield, 1999;
BALKAN PROJECT OF THE INTERNATIONAL CRISIS GROUP 28 ottobre 1999, 22 maggio 2001, 29 novembre 2001
199
“The jury is still out on the maximalist model of state reconstruction, but so far it does not look likely that the verdict will be favorable even for the countries where the model was most extensively implemented”M. OTTAWAY, “Promoting Democracy After Conflict:The Difficult Choices, International Studies Perspectives, 2003 (4), p.318
trovarsi coinvolti in prolungate occupazioni e amministrazione di war-torn
countries. Gli altri attori possibilmente coinvolgibili non hanno le risorse
necessarie. Il problema non è soltanto una questione di volontà politica: il livello di coinvolgimento sperimentato in Bosnia semplicemente non può essere replicato in un ampio numero di Paesi. Un calcolo semplicistico e sicuramente non adeguato, basato sulla popolazione, ha dimostrato che un mandato come quello espletato in Bosnia, svolto in Repubblica Democratica del Congo necessiterebbe di 900000 peacekeepers e amministratori. A questo Paese tuttavia andrebbero aggiunti l’Afganistan, l’Iraq ma anche l’Angola, il Sudan, la Sierra Leone, la Liberia e la Somalia. Se di fatto il modello con cui è stata ricostruito il regime politico in Bosnia non può essere utilizzato ovunque, esso rimane comunque il punto di riferimento di questi Paesi. Un esempio significativo è dato dalla Repubblica Democratica del Congo. I problemi in questo Paese sono tanto gravi quanto in Bosnia, eppure molto differenti. in Bosnia, infatti, due o tre gruppi etnici intendevano spartirsi il Paese mentre soltanto il gruppo islamico intendeva mantenere il Paese unito. A ciò si aggiunge il fatto che la Bosnia presentava infrastrutture che rendevano molto difficile la spartizione del Paese e la creazione di enclaves etniche. Nella Repubblica Democratica del Congo, invece, nessun gruppo voleva in teoria la spartizione o la secessione ma il Paese non presenta le infrastrutture né tantomeno l’organizzazione amministrativa che possa funzionare in maniera unitaria. Eppure gli accordi di Lusaka del Luglio del 1999 si fondano su una riflessione per cui il Paese possa arrivare unito ad un’unità democratica con un solo modesto apporto da parte della Comunità Internazionale. L’accordo prevede un cessate il fuoco, un dialogo nazionale per concordare un nuovo approccio
politico (inizialmente erano stati previsti soltanto 45 giorni a tal fine) e la tenuta di elezioni due anni dopo. Nel febbraio 2002 il dialogo nazionale ebbe inizio tra enorme confusione e recriminazioni e si rivelò fallimentare. Né la posticipazione della consultazione di un’altra settimana né l’intervento da parte del Presidente della Repubblica Sudafricana Thabo Mbeki riuscirono a trovare una soluzione al l’impasse. Una seconda tornata di negoziazioni seguì a questa e fu alla fine trovato un accordo, ma la sua implementazione rimase incerta fino all’inizio del 2003. Inoltre, nessun cessato il fuoco fu mai rispettato per un periodo significativo, i gruppi armati organizzati che hanno firmato gli accordi di Lusaka si sono rafforzati, ma sono comunque ancora esclusi dal dialogo politico. A ciò si aggiunge che i Paesi confinanti, che dovrebbero in teoria avere smobilitato i loro contingenti, sono ancora presenti sul territorio attraverso il sostegno armato offerto ad alcune fazioni della guerriglia. Finora la smobilitazione è stata puramente simbolica e probabilmente questa nozione stessa include soltanto coloro che sono espressamente armati escludendo perciò un numero consistente di guerriglieri. Per facilitare il processo, la Comunità Internazionale ha dispiegato un centinaio di personale civile di monitoraggio e peacekeepers delle Nazioni Unite.
Dalle esperienze analizzate finora emergono alcuni elementi che sono mancati al processo di pace intrapreso in Repubblica Democratica del Congo: in primo luogo, manca la volontà politica da parte dei partiti congolesi di negoziare seriamente, senza organizzare al primo fallimento grandi contestazioni, e un impegno da parte della Comunità Internazionale di far cessare le ostilità, come ha fatto in Bosnia. Nonostante la carenza di coinvolgimento da parte di tutti gli attori coinvolti, la Comunità
Internazionale non ha abbandonato i proprio obiettivi di ricostruire in RDC un regime democratico. Come sottolinea Ottaway, “più che un obiettivo, questo è semplicemente un pensiero speranzoso”200. Se la DRC è stata considerato come un modello di partenza cui applicare il modello di ricostruzione democratica, a questo non è seguito un coinvolgimento concreto da parte della Comunità Internazionale.
La validità del modello di ricostruzione democratica come strategia per costruire la pace dopo un conflitto è in corso di verifica anche in Afganistan. Anche in questo caso, tuttavia, il modello è costantemente sotto pressione, non soltanto per la limitata erogazione da parte della Comunità Internazionale ma anche perché l’andamento della guerra si è evoluta in direzione contraria alle previsioni. Gli accordi di Bonn del dicembre 2001 contenevano gli elementi fondamentali: in primo luogo, essi non prevedevano un cessate il fuoco basandosi sulla convinzione che gli Stati Uniti avrebbero posto una fine al conflitto ma richiedeva la messa in piedi del governo ad interim per i primi sei mesi. Questa formazione avrebbe richiesto alla loya jirga di elaborare un consenso circa il futuro sistema politico del Paese ed avrebbe portato alla nomina di un nuovo governo che avrebbe condotto alle prime tornate elettorali due anni dopo la stipula del trattato di pace. I due anni si sono conclusi con la corsa finale della discussione e approvazione di una costituzione, della legislazione e amministrazione necessaria a mettere in piedi le elezioni. A tal fine è stato utilizzato come modello l’International Foundations Election System che
200
“More than a goal, this is simply a wishful thinking” in M. OTTAWAY, “Promoting Democracy
fornisce la trama teorica di come devono essere svolte le elezioni201. Questo accordo dovrebbe essere implementato dagli Afgani stessi, indubbiamente con un notevole sostegno esterno e senza il beneficio di una peacekeeping
force. Anche i piani che prevedevano di estendere la presenza della forza
internazionale da Kabul alle maggior città del Paese è stata rigettata. Questo significa che gli accordi di Bonn saranno posti in essere dalle fazioni armate e dai warlords perché non è stato previsto alcun programma di disarmo202. Questi gruppi hanno conosciuto una storia di continui combattimenti nell’era precedente all’avvento dei Talebani, tensioni che si sono fatte più violente con l’avvento di questo regime. Questa parziale “responsabilizzazione” delle fazioni armate (in assenza di un consistente apporto internazionale) dettata dal modello di ricostruzione democratica stride evidentemente con la storia pregressa dell’Afganistan. A peggiorare la situazione è intervenuto un recente fenomeno nel Paese: il rafforzamento di quelle fazioni e warlords di cui gli Stati Uniti hanno assoluto bisogno per