• Non ci sono risultati.

La dialettica tra jour e nuit nell’esperienza di guerra.

Non potendoci soffermare in tale sede sulle descrizioni delle campagne o delle piccole città del periodo di guerra, benché fondamentali per la comprensione del testo se non altro perché scenario del decisivo incontro con Robinson, siamo costretti ad acquisire in via surrettizia alcune immagini e figure sviluppate nelle pagine che precedono il rientro di Bardamu, ferito, a Parigi. È comunque opportuno, prima di procedere, mettere in luce almeno alcuni dei motivi delineati in tale parte, non solo perché ritorneranno anche nei passi qui in esame ma anche perché appaiono strettamente connessi alla dimensione urbana. Céline attraverso il suo alter ego Bardamu, maestro nei giochi di riprese anaforiche e cataforiche tessute sul filo latente della metonimia offerta dal bout, si conferma scrittore essenzialmente metropolitano, anche quando lo scenario è quello delle campagne43. Bisogna evidenziare che la narrazione, benché così preponderante, non è tale da fare del testo un romanzo a dominante narrativa. L’apparente paradosso si scioglie se si tiene in mente quanto sostenuto precedentemente, e cioè che il racconto nasce come espansione-conferma dell’ideologia del testo annunciata fin dal titolo. Tale ipotesi darebbe un senso all’affermazione di Céline stesso che, intervistato, dichiarò che il suo Voyage non era una storia ma solo un romanzo. Questa affermazione, che a prima vista suona come un’ennesima boutade provocatoria di uno scrittore ostinato nella negazione del valore letterario della sua opera, si libera dalla spire della contraddizione se si considera che la vera coerenza semantica del testo è garantita dalla metafora transdiscorsiva che lega tutti i luoghi e i tempi dell’azione nel “bout de la nuit”. Come in Tropic of Cancer, testo per il quale Miller rigetta le definizioni artistiche e che vive dello scarto tra i due canti, del presente e del ricordo, ricomposti grazie alla loro traduzione/sovrapposizione nel tessuto urbano percorso, così in Voyage au bout de la nuit, Parigi, paradigma par excellence del bout de la nuit, si erge come indiscusso personaggio, quasi sempre in funzione di antagonista rispetto ai protagonisti in carne e ossa. Il romanzo di Céline spicca tra gli altri testi ambientati nella capitale perché è uno dei pochi a considerare Parigi “testo” e non “pre-testo” e anche quando lo scrittore dichiara in un’altra intervista “ne ho bisogno, io, di questa atmosfera, per lavorare… sono in me queste, le comprendo le sento (…)mi esaltano queste tetre banlieues suburbane”, non incappa mai nella indistinzione modernista tra dentro e fuori, non riduce la città a mera cassa di risonanza dei sentimenti dei personaggi, ma traccia una consonanza tra abitante e luogo attraverso la rivendicazione di quella miseria che connota tanto lo spazio quanto l’uomo. Si potrebbe dire che Céline, più anche

43 “Moi d'abord la campagne, faut que je le dise tout de suite, j'ai jamais pu la sentir, je l'ai toujours

trouvée triste, avec ses bourbiers qui n'en finissent pas, ses maisons où les gens n'y sont jamais et ses chemins qui ne vont nulle part. Mais quand on y ajoute la guerre en plus, c'est à pas y tenir. Le vent s'était levé, brutal, de chaque côté des talus, les peupliers mêlaient leurs rafales de feuilles aux petits bruits secs qui venaient de là-bas sur nous” (Céline, L.F., op. cit. (1932), pag. 13).

170 di Miller, rinuncia totalmente all’estetica in favore della sua anti-ideologia e della sua rabbia per il male di vivere che corrode dall’interno non come un astratto cancro esistenziale quanto piuttosto come una realtà tangibile e perfettamente concreta44.

L’autore, uomo peraltro coltissimo nonostante la sua anti-poetica che gli valse spesso l’etichetta di populista al pari di Eugène Dabit o di un certo Carco, si permette qualche riferimento illustre nella spiegazione del suo testo, avendo egli – queste le sue parole – “ingoiato la minestra classica”. Benché tra i “maestri” citi esplicitamente dei medici, Follet dell’università di Rennes e Rachmann, l’allora direttore alla Società delle Nazione della lotta contro le epidemie, nei suoi discorsi, più volte, ritornano i nomi di Rabelais e Dostoevskij45.

Al primo, padre indiscusso della letteratura francese che per i suoi pioneristici giochi linguistici influenza la stessa poetica surrealista46, Céline si ricollega sul filo dell’immaginario per dire che “Bardamu non è più vero di Pantagruele, come Robinson non è più vero di Picrochole”47, rinforzando quell’avvertenza al lettore

44 “Ma lassitude s'aggravait devant ces étendues de façades, cette monotonie gonflée de pavés, de

briques et de travées à l'infini et de commerce et de commerce encore, ce chancre du monde, éclatant en réclames prometteuses et pustulentes. Cent mille mensonges radoteux”. (Céline, L. F., op. cit., p. 204) “La maladie la misère qui vous disperse les heures, les années, l’insomnie qui vous barbouille en gris, des journées, des semaines entières et le cancer qui nous monte déjà peut –être, méticuleux et saignotant du rectum” (Ibidem, p. 382).

45 Ci si riferisce a quanto emerge dalle dichiarazioni di Céline, perché nel romanzo i nomi di Rabelais

e Dostoevskij non compaiono, mentre della “minestra classica” vengono citati Plutarque, Montaigne [“un vieux petit Montaigne, un vrai de vrai pour un franc (…) En l’ouvrant je suis juste tombé sur une page d’une lettre qu’il écrivait à sa femme le Montaigne, justement pour l’occasion d’un fils à eux qui venait de mourir (…). Mais pour ce qui concernait Bébert, ça me faisait une sacrée journée. (…)Il me semblait qu'il n'y avait rien pour lui sur la terre, même dans Montaigne. C'est peut-être pour tout le monde la même chose d'ailleurs, dès qu'on insiste un peu, c'est le vide” (Ibidem¸ p. 289)], la Bruyère [“De nos jours, faire le «La Bruyère» c’est pas commode. Tout l'inconscient se débine devant vous dès qu'on s'approche” (ibidem, p. 397] e di Rousseau.

46 “ Abbiamo avuto campo di persuaderci (…) che non è arbitrario parlare a proposito di Rabelais

anche di surrealismo. Il punto di partenza di (…) consimili esercizi [sfilze di elenchi di giochi o vivande o di qualitativi dell’organo maschile che interrompono spesso la narrazione] sarà stato senza dubbio (…) nel gusto della dismisura, essenziale all’opera, in cui confluiva l’ingenua pompa di ricchezza lessicale che fu tipica degli umanisti (…), e, ancora, nel preciso intento di imitare il ciarlatanesco espediente dello stupire l’ingenuo ascoltatore con improvvisi torrenti di parole più o meno arbitrarie, nonché nella tradizione medievale e specialmente studentesca, del “coq-à-l’âne” (…). Ma ci sembra indubitabile che su questa strada il Rabelais, secondo le suggestioni della rima e dell’allitterazione, e ancora per la via di misteriose analogie subcoscienti, sia arrivato a risultati della stessa natura dei moderni esperimenti francesi di scrittura automatica; e, più generalmente, sfruttando a fondo il divario tra il significato originario e quello metaforico ormai invalso nell’suo comune di tante parole e locuzioni, a procedimenti ed effetti che sono senz’altro quelli del nostro surrealismo” (Bonfantini, M., Prefazione a Garantua e Pantagruele (1952), Einaudi, Torino, 1993, p. XVII).

47 Ci si potrebbe chiedere cosa abbia in comune Robinson con Picrochole, il principe cattivo e

171 posta come esergo al testo. Come non ricordare i versi che Rabelais dedica “ai lettori” prima di dare inizio al racconto, quei versi nei quali il poeta invita a liberarsi dalle passioni, a non scandalizzarsi, a ridere “ché rider soprattutto è cosa umana”48? E che dire di quanto scritto nel Proemio, di quella guida alla lettura perché, al di sotto del senso letterale e superficiale fatto di “cose abbastanza allegre e ben rispondenti al titolo”, si abbia la forza di interpretare in un senso più alto “ciò che credevate scritto soltanto per gioco”? Ebbene, l’invito al viaggio che Bardamu, il Pantagruele meno illuso e scanzonato del suo illustre antenato, ci rivolge, suona come una sorta di parodia-oltrepassamento di quello di Rabelais. La farsa popolaresca e immaginaria del ‘500 diventa tra le mani di Céline una messa in scena di tutte le miserie, intrisa di una “rabbia epica” e disumana che rinuncia del tutto ai toni scanzonati del genere, che, in fondo, chiede ai lettori di scandalizzarsi di fronte a tanta oscenità, di varcare il confine della Senna livida per andare direttamente dall’altra parte della vita. Céline, nonostante che dichiari di avere come unico modello di scrittura la vita e di prendere i significanti dal suono della propria e personale banlieue interiore, non poteva non avere in mente le “Sirene” allegoriche di Rabelais né appare di poco conto l’influenza, sulla sua “lingua così intenzionalmente popolare”, della lingua carnevalesca del maestro cinquecentesco, lingua costruita per lo più sul divario tra significati comuni e significati profondi, sulla rivitalizzazione grottesca delle metafore decretate morte. Del carnevale di Rabelais, Céline prende però solo quanto legato alla morte, espellendo dalla sua prosa le tentazioni alla risata, ritmando la sua non-storia sulla danza -ballata degli impiccati di Villon, perché l’uomo-scrittore-medico del 1932 non può condividere l’ansia del futuro dell’uomo-sacerdote –scrittore del 1542, perché di quel lontano progenitore non ha più la trascendenza, intesa come intuizione di un oltre diverso dall’hic et nunc di tutti i giorni. Come sostiene Bardamu sotto le armi, “celui qui parle de l'avenir est un coquin, c'est 1'actuel qui compte”49.

Con Céline si è sempre nella stessa banlieue, in una sorta di anno zero della deplorevole epoca moderna e il suo romanzo, a detta sua e qui si accetta la sua provocazione senza esserne così colpiti come il suo intervistatore, non ha veri personaggi, neanche tipi umani, “piuttosto dei fantasmi”, rievocati sempre dalla solita fantasmagorica periferia interiore per gridare forte il male del mondo. Qui interviene il genio di Dostoevskij del quale Céline non ha, e forse non vuole avere,

quale è dedicata la porzione più rilevante, in termini di pagine e capitoli, rispetto a tutto il testo. Se ciò non si può dire del Voyage, è comunque indubbio che la guerra, che occupa solo una quarantina di pagine a livello della storia, costituisca uno dei punti di riferimento costanti a livello del discorso. Robinson e Bardamu s’incontrano in guerra e, se la dichiarazione di Céline non porta a mio avviso a poter inferire un legame genetico tra i suoi personaggi e quelli di Rabelais, il richiamo intertestuale evoca una sintonia tematica e linguistica.

48 Rabelais, F., Gargantua et Pantagruel (1542), trad. it. a cura di Mario Bonfantini, op. cit. (1952),

Einaudi, Torino, 1993, p. 5.

172 la perfezione della costruzione, la forza di “entrare nella vita di nuovo per sferzare un colpo a destra e uno a sinistra”. Il suo libro lo definisce un “fallimento”, seicento pagine buttate lì senza essere state più rilette, come avrebbe fatto, invece, il grande romanziere russo. Ma d’altronde Céline non è interessato a schizzare una fenomenologia del male dell’uomo, né un profilo del super-uomo alla Raskolnikov, né si concede gli occhi dell’idiot savant Myskin, né ancora ha una visione politica chiara che lo porti a condannare i Demoni. Miller, grande amante di Dostoevskij per la “passione”, “l’altra cosa” rispetto alla mente di Gide, è animato da uno struggente desiderio di liberarsi delle sovrastrutture, dei filtri razionali, per scrivere un libro come se fosse un interminabile coito, un prolungato orgasmo nella vagina del mondo, senza mai doversi chiedere niente, ma limitandosi, piuttosto, a benedire, con Nietzsche, il “Caos vivente”, nella speranza che i lettori lo seguano sul “mozzo della ruota”, risparmiando, a se stessi e allo scrittore, la morte per cancro. Céline invece vuole semplicemente scrivere e dire ciò che ha da dire, come se la sua scrittura fosse una risposta definitiva al male del mondo e ai padroni tutti, una risposta che è generata non come in Miller da un gusto smodato per “le imprecazioni, lo slang, le prostitute, i quartieri malfamati, lo squallore, la durezza”50, ma da una naturale adesione alla propria sbandierata radice interna, da una consapevolezza, per niente estetica o letteraria, del suo posto nel mondo. Se quindi la scrittura dello straniero Miller nasce dal desiderio di appartenere a dei luoghi e si configura inevitabilmente come discorso dell’io su di sé, quella di Céline nasce più semplicemente come ascolto di ciò che gli appartiene da sempre e l’accento del suo discorso si sposta dall’ossessione sull’ego allo spazio che gli è fatalmente destinato.

Questo spazio, che assurge al rango di personaggio o di presenza fantasmagorica sempre incombente, è uno spazio molteplice in tutti i sensi e a tutti i livelli: spazio fatto di tanti e apparentemente diversi luoghi, e spazio come verità metaforica di questa eterogeneità. La reductio ad unum dell’eteroclito mira a trascendere la contiguità metonimica tra i luoghi in vista di una loro riunificazione in seno a una figura sostanzialmente monologica e monocromatica. La dialettica tra il tutto e le parti, l’uno e il molteplice, si trascende in una parossistica tautologia in quanto, se le parti sono luoghi di periferia, il tutto è l’idea molteplice di quei tanti ghetti e, se l’uno metaforico è il bout de la nuit, le parti concrete sono frammenti di questa oscurità. Bardamu non lascia dubbi al riguardo, costruendo il suo viaggio in funzione di questo universo che è la nave sulla quale egli si è imbarcato per una “croisade apocalyptique”. Benché egli dichiari che mai avrebbe potuto sospettare un simile orrore mentre lasciava Place Clichy51, si può ben a ragione dubitare

50 Nin. A., op. cit. (1986), p. 49. 51

“Comment aurais-je pu me douter moi de cette horreur en quittant la place Clichy? Qui aurait pu prévoir avant d'entrer vraiment dans la guerre, tout ce que contenait la sale âme héroïque et fainéante des hommes?” (Céline, L., F., op. cit. (1932), p. 14).

173 dell’affidabilità del narratore che, infatti, era partito proprio per vedere se la realtà della guerra seguiva la logica delle sue teorie sul potere. D’altra parte, come già si è evidenziato, il piano del discorso non è mai riflessione ex post dei fatti narrati quanto piuttosto una sorta di riflessione attiva che ha già in sé il principio dell’azione alla base della storia. Alla luce di tale considerazione si può affermare che il monologo, al quale si lascia andare Bardamu un istante prima di arruolarsi alle truppe di passaggio in Place Clichy, preannunci lo sviluppo futuro.

È la stessa trama lessicale a darcene conferma: la metafora della nave del potere usata dal locutore nella sua tirata satirico-grottesca non rimane un puro esercizio di stile né un autocompiacimento delle sue abilità oratorie. Durante l’esperienza della Guerra Bardamu confessa: “décidément, je le concevais, je m'étais embarqué dans une croisade apocalyptique”. L’uso del verbo “imbarcare” nonché l’espressione croisade apocalyptique richiamano da vicino la galère di una guerra, allora ancora solo intuita, e ora, invece, tragicamente vissuta. In altre parole, è come se il viaggio del discorso e quello della storia si sovrapponessero, come se il modulo della narrazione venisse reperito sempre a partire dalle sfacciate parole di Bardamu e come se lo scandalo storico riprendesse quasi alla lettera l’oscenità linguistica dei monologhi. È importante che il punto di partenza del voyage del racconto sia una piazza parigina, la stessa dalla quale, benché dichiari a posteriori di non aver avuto piena coscienza di quanto sarebbe accaduto, Bardamu pronuncia quelle parole, così significative, sul macello che attende gli i soldati della galera e sulle inevitabili barriere tra i poveracci che lavorano nelle stive e i padroni in alta uniforme, sensuali e dissoluti come le dieu cochon evocato qualche pagina prima.

Tutta l’esperienza della guerra viene raccontata in modo da rivestire con la carne dei fatti parole che a prima vista potrebbero sembrare aleatorie. Così il Dio diventa il “général Céladon des Entrayes” padrone delle “humbles tripes” del protagonista, “devenu, par l'effet des avancements une sorte de dieu précis, lui aussi, une sorte de petit soleil atrocement exigeant”52 e quella condizione innaturale metaforizzata dalla galera, terra di mezzo tra una morte per mare e una, ancora più veloce, per terra, si fa esperienza vissuta, “une espèce d'agonie différée, lucide, bien portante, pendant laquelle il est impossible de comprendre autre chose que des vérités absolues”53. Alla sospensione esistenziale dell’Io fa da pendant quella storica della Francia che “demeurait une espèce d'entité chevaleresque, aux contours peu définis dans l'espace et le temps”54. I richiami all’epopea di matrice cristiana, la crociata apocalittica di martiri forzati e coatti e l’essenza cavalleresca di un paese che ha ancora in mente Luigi IX, si fanno stringenti, a rendere ancora più forte quella sensazione di indeterminazione spazio-temporale assunta come premessa del

52 Céline, L.- F., op. cit. (1934), p. 37. 53 Ibidem, p. 52.

174 presente lavoro. Non è difficile assimilare i luoghi tra loro se tutti fanno riferimento a questo spazio abitato da fantasmi pieni dell’orrore di una morte solo differita.

L’indefinibilità spazio-temporale è premessa per la rivendicazione di un altro paradigma spazio-temporale che, presentato al lettore in forma metaforica e vaga nel titolo del libro, assume proprio attraverso il racconto di guerra una trasposizione sul piano metonimico, contribuendo a fissare, una volta per tutte, l’isotopia morte/notte e darle un valore metadiscorsivo, innescando una temporalità che si affida alla polarità giorno/notte. In realtà, ci si imbatte, analizzando il testo, in un apparente paradosso perché se Bardamu insiste sul nero e il vuoto che avvolgono i paesi della campagna francese, sull’oscurità lugubre nella quale è, suo malgrado, precipitato, nello stesso tempo la notte appare a volte addirittura “douce” e salvifica rispetto al giorno55, senza contare che Robinson, incontrato per caso a Noirceur-sur- la -Lys, conta propria sull’oscurità notturna per scampare alla morte, sostenendo che “le jour était impitoyable, de la terre au ciel”56. Sono piccole sfasature che non inficiano quanto sostenuto sopra se si considera che il livello letterale rimanda, sempre, a un livello più profondo, che la notte non è semplicemente notte così come il giorno non è semplicemente giorno. Se, infatti, le notti raccontate possono talvolta essere dolci, occasione di riposo, ciò è valido solo sul piano della storia, solo sul filo della metonimia che passa dalla notte al giorno, per poi essere convertita nella grande metafora transdiscorsiva dell’unica dilagante Notte.

Anche il giorno si presta a un simile sdoppiamento: oltre al giorno compreso dall’alba al tramonto, si profila un altro più inquietante Giorno, quello che si intravede nella luce della case bruciate e nel fuoco delle bombe, un Giorno da ultimo riconducibile alla stessa metafora della notte. Questa luce che si sprigiona sinistra dall’oscurità fa venire in mente il passo di Nightwood, analizzato nel secondo capitolo, dove viene tematizzata la figura dell’alba come confine tra due dimensioni non più concepibili secondo la tradizionale logica dei distinti. Nel testo di Djuna Barnes, però, accettare la Notte vuol dire avere il coraggio di andare in fondo a se stessi e di smascherare le bugie rassicuranti offerte dalla logica giornaliera, significa avere la forza di sostare in quella frontiera di senso che è il passaggio dal buio alla luce, dal sogno alla coscienza, rinunciando ai sistemi binari. Nel romanzo di Céline attraversare la notte fino alla linea del giorno significa più crudamente essere coinvolti in una “fuga di massa, verso l’assassinio di gruppo,

55 “La nuit, dont on avait eu si peur dans les premiers temps, en devenait par comparaison assez

douce. Nous finissions par l'attendre, la désirer la nuit. On nous tirait dessus moins facilement la nuit que le jour. Et il n’y avait plus que cette différence qui comptait(…) mais bientôt les nuits, elles aussi, à leur tour furent traquées sans merci” (Ibidem, p. 33).

175 verso il fuoco ….”. Il sole è insanguinato: ha il volto del colonnello e anche della propria morte, è quel fuoco pronto ad accendersi nella fitta oscurità57.

Una raccolta di citazioni testuali permette di ricostruire questa complessa e a tratti