• Non ci sono risultati.

Paradigmi modernisti nella rappresentazione del non-luogo in Barnes e Fitzgerald.

Aragon e Miller costruiscono la loro Città sulla soglia che separa reale e immaginario e i loro racconti nascono come continuo attraversamento di questa frontiera di senso, come associazione libera di metafore a partire da questo confine metonimico. La Parigi di Fitzgerald e di Barnes è invece oltre i confini e le distinzioni, rappresentazione teatrale, a tratti barocca, di una realtà allucinatoria e onirica. Se il Paesano e la voce narrante di Tropic si trovano ancora a “casa” nel frammentato tessuto urbano è perché proprio lì¸ in quel “labirinto fangoso”, e nelle sue viscere occulte, il divino ancora abita, dopo l'esilio dal cielo. Gli nuovi dei, scappati per la tracotanza di “chi osò chiamarsi uno”, ritornano nel Caso di Aragon e nel Caos di Miller, dando all'effimero fenomenico una sostanza noumenica, al linguaggio la sua polivalenza e all'io lo spazio libero della parola. In Tender is the night e in Babylon revisited di Fitzgerald, il Caos è, invece, solo il ritorno incontrollato del represso vendicativo e distruttore mentre il Caso è solo la nuova forma che l'io, esule e apolide, ha di stare in un mondo senza più alcun fondamento etico, un limbo nel quale i personaggi vivono sospesi. In Nightwood si va addirittura oltre qualsiasi formulazione di carattere oppositivo e Parigi diventa il non luogo, come spazio di metamorfosi e di reversibilità continue e stranianti delle coppie paradigmatiche.

In Fitzgerald la descrizione rarefatta del reale urbano è proiezione del sé dei personaggi perché ancora sussiste l'Io o, meglio, l'illusione dell'Io nella sua differenza con l'altro. La Parigi dello scrittore americano è quindi rappresentazione “filmica” di un'impossibile convivenza sulla stessa scena di io e altro. Nella Barnes invece la città è il “circo” dell'ibridazione, il non-luogo dell'ambivalenza, dove l'Io è insieme, indissolubilmente, all'altro, celebrazione quasi elisabettiana del travestitismo e dell'inversione di ruoli.

Se quindi in Fitzgerald il paradigma conoscitivo è dato dalla confusione e il tema dominante è il doppio, tradotto a livello metanarrativo attraverso il ricorso costante alla finzione del cinema, nella Barnes il modulo descrittivo è, più radicalmente, quello della indistinzione, della “doppia confusione”. Il narratore di Tender e di Babylon è colui che svela il pericolo insito nell'annullamento delle differenze, razziali o sociali, che confida al lettore la sua stessa paura, quella di essere aggredito dall'altro, di essere un esule a Parigi come nella sua città interiore e privata. Il descrittore è colui che proietta l'angoscia dell' expatrié, al margine rispetto alle altre parole come a quelle sue di origine, colui che, confinato nell'irrealtà di uno scenario parigino ridotto a pura fantasmagoria, rappresenta nella città il suo non sentirsi più a casa neanche tra le mura del proprio intérieur. L'ovunque di Fitzgerald, quel suo affermare che “every place is the same” e ancora che “place itself never really

matters”1, è speculare alla perdita di possesso dell'io su di sé, al suo sentimento dell'unheimlich.

Il narratore di Nightwood è invece colui che fa dello “scandalo” l'unico paradigma conoscitivo e anche testuale, colui che, come Ulisse o come il dottor O' Connor, alter ego allegorizzato del poeta, è un “valuable liar”, i cui racconti “seemed to be the framework of a forgotten but imposing plan; some condition of life of which he was the sole surviving retainer”2. Il lettore – descrittario è colui che ascolta, come il Barone Felix, il discorso “scandalous” del narratore- descrittore, riconoscendo, pur colto da una “double confusion”3 come “the most touching flowers laid on the altar he had raised to his imagination were placed there by the people of the underworld, and the reddest was to

be the rose of the doctor”4.

Il discorso di O'Connor, come di ogni narratore, è “obscenity”, è “scandalous in the higher sense”5, nel senso che la sua parole porta letteralmente al di fuori della scena, fuori dalla langue e dallo spazio fisico, perché abita l'unico (non) luogo che è il “setting” dei “renessaince theatres”, dove l'uomo però non trova più la mediazione del suo doppio divino. Se Felix è il lettore, O'Connor è lo scrittore in quanto attore incontrato magari “per strada o nel promenoir del teatro”, “dumbfounder’, or man of magic” che, seminascosto dallo “screen” della finzione autoriale, ha “the gestures of one who, in preparing the audience for a miracle, must pretend that there is nothing to hide”6. Osservato dal lettore/ spettatore, l'illusionista/ scrittore ha come “whole purpose” quello “of making the back and elbows move in a series of ‘honesties’, while in reality the most flagrant part of the hoax is being prepared”.7

L'universo testuale diventa tessuto simbolico nel quale, come nel teatro elisabettiano però senza Dio della metropoli, per il lettore come per l'uomo “non c'è appiglio che non sia mercanteggiato”. Le rare descrizioni di Parigi sono soprattutto le metadescrizioni della Città del dottore, ovvero dell'universo del testo come quel labirinto dove il Minotauro è diventato “that little Man” alla cui vista il lettore sa che sarà “shouldered from the path”8, che non avrà più un “ancrage” referenziale su cui appoggiarsi. Come osserva Jean Bessière nel suo Déracinement et littérature, l'autonomia dell'opera che in Tropic of Cancer è conservata a prezzo della negazione del progetto artistico, in Nightwood può sussistere solo a prezzo di un “effacement de la propriété verbale”. Attraverso il personaggio del Dottor O’Connor la Barnes rivendica come - prosegue il critico francese – “se vouer au langage pour être

1

Fitzgerald, F. S., The Short Stories of F. Scott Fitzgerald¸ ed. Matthew J. Bruccoli, Scribner’s, New York, 1989, p. 580.

2 Barnes, D., Nightwood (1936), Faber and Faber, London, 2001, p. 27 (trad it., Foresta di Notte,

Adelphi, Milano, 1986). 3 Ibidem, p. 32. 4 Ibidem, pp. 27-28. 5 Ibidem, p. 35. 6 Ibidem, p. 32. 7 Ibidem. 8 Ibidem, p. 29.

dans le monde, c'est accuser le défaut du monde et celui du langage, toujours mensonger, marquer la perte du sujet de cette langue”9. Seguendo, e forse sovra- interpretando quanto sostenuto da Bessière, il “sujet” della nuova lingua sarà l'uomo sradicato, l'attore elisabettiano che, come il Tiresia di The waste Land e il suo antico progenitore, scopre che la morte e la vita sono un tutt’uno, e che, in quanto portavoce del discorso letterario, trova nello sradicamento esistenziale il modello del suo linguaggio. Ritornando all'autorevole parola di Bessière, si può arrivare a una prima conclusione affermando come nella Barnes la stessa costruzione sintattica per accumulazione verbale confermi la “non position du sujet” e come lasciando sussistere “le vide de la parole habitée” neghi la possibilità di un linguaggio inaugurale. O'Connor è in questo senso la controfigura dello scrittore che sa “qu'il existe toujours un Dieu, mais faut-il ajouter, muet, et dont l'expatrié se découvre le prêtre incertain”.10

L'esperienza dell'esilio diviene modello modernista di scrittura e il luogo dell'espatriato quel non-luogo metaforico che funziona come paradigma descrittivo del reale e del suo correlato soggettivo, l'identità.11 Se in Nightwood la desituazione spaziale è pretesto per mettere in scena l'identità fluida del reale e del Soggetto e quindi dei generi testuali e della parole ibrida dello scrittore, nei testi di Fitzgerald qui analizzati la condizione dell'espatriato è la metafora della perdita di strutture di orientamento, esistenziali come letterarie. Parigi, a motivo della sua intima essenza pluralistica e molteplice e ancor di più in quanto terra di esilio, costituisce il punto di partenza ideale per la trasfigurazione dell'intera realtà, e, a livello formale, per l'applicazione delle teorie moderniste sullo spazio. Le descrizioni urbane si organizzano secondo la logica paradossale della “superposition”12 di frammenti

9

Bessière, J., Les écrivains de la génération perdue. Jeu de l’autonomie et de l’identité, in Karátson, A., Bessière, J. (a cura di), Déracinement et littérature, Université de Lille 3, Travaux et Recherches, Diffusion P.U.L, p. 103.

10

Ibidem, p. 104.

11

J. C. Kennedy nel suo nel suo Imagining Paris: Exile, Writing and American Identity (Yale University Press, New Haven, Conn. London, 1993), propone di interpretare lo stesso modernismo di Barnes e di Fitzgerald “as an exile”. Partendo dall'affermazione di Gertrude Stein secondo cui gli scrittori e gli artisti modernisti convergono a Parigi perché "Paris was where the 20th century was", la città assunta unanimemente come segno geografico del moderno, Kennedy dimostra come la capitale dell’esilio abbia subito una massiccia derealizzazione, diventando soprattutto lo scenario par

excellence dove verificare e applicare le nuove teorie dello spazio e del tempo. Accogliendo

pienamente in tale sede le ipotesi del critico americano, si può tornare all'assunto di partenza del presente lavoro e confermare come la categoria del tempo, problematizzata e alterata dalla rivoluzione modernista insieme a quelle correlate della percezione e del pensiero, assuma nella letteratura del "confine" e dell’esilio sempre più una forma "spaziale". Per dirla con Kennedy e con la Stein, è come se “the temporal had assumed a spatial form which might be located and occupied” (Ibidem, p. 185).

12

McFarlane individua, nel suo The mind of Modernism (in Bradbury, M., McFarlane, J., eds.

Modernism: 1890-1930, Viking Penguin, Harmondsworth, 1976, pp. 71-93), tre livelli nella

riformulazione della realtà secondo i paradigmi modernisti. Dall’iniziale enfasi posta sulla “fragmentation” e sulla progressiva disintegrazione di tutti i sistemi e assoluti concettuali dell’800, si passa alla ristrutturazione delle parti, al “re-relating of fragmented concepts”, al “re-ordering of linguistic entities” per arrivare infine all’ultimo stadio: “a dissolving, a blending, a merging of things held to be forever mutually exclusive” (Ibidem, pp. 80-81). Tale procedimento corrisponde sul piano

concettuali e visivi che, decontestualizzati dal luogo di appartenenza e anche dai loro sistemi critici di riferimento, si fondono in un continuum di senso dove diventa difficile ripristinare le antiche opposizioni. L'esule, in quanto sradicato dai suoi luoghi e dai suoi sistemi di credenze e di linguaggio, può “dire” meglio di chiunque altro la “nuova” realtà metropolitana che è la stessa realtà riconfigurata dal modernismo come “elusive, indeterminate, multiple, often implausible, infinitely various and essentially irreducibile”13. A motivo del disintegrarsi della primaria distinzione tra osservatore e osservato, la descrizione della città si costruisce secondo un doppio movimento speculare perché Parigi è, da ultimo, lo stesso sguardo estraniato dell'Io che la guarda.

La visione della realtà oggettiva è nella Barnes cortocircuito dello sguardo perché il reale descritto è già in sé circo, che il lettore/Felix, ebreo errante senza luogo, coscienza infelice ripiegata sulla memoria del passato, non può “mai toccare, e perciò mai conoscere”. Il per sé dello spettatore è speculare all'oggetto visto e anche, più radicalmente, allo sguardo della “gente di teatro”, “drammatica e mostruosa come una partita di merce" per la quale non è mai possibile "fare un'offerta”. Scrittore e lettore, descrittore e descrittario possono comunicare solo a prezzo di una rinuncia alla presunzione di classificazione tassonomica del mondo e all'illusione dell'Ego come soggetto di conoscenza.

In Fitzgerald, la visione del mondo è la proiezione riflettente delle scoperte drammatiche che il Soggetto fa nella sua “casa” privata e il narratore extradiegetico, che in Nightwood è in realtà la stessa parole polivalente dei personaggi e quindi del romanzo, diventa in Tender quell'istanza ermeneutica che permette di rappresentare la disintegrazione del reale e dell'Io senza pregiudicare la leggibilità del testo e la sua coerenza semantica.

formalista al passaggio tra quelle fasi che Roger Shattuck descrive come “fragmentation” “juxtaposition” e “superposition” (Shattuck, R., The Banquets years: The Origins of the Avant-garde

in France, 1885 to World War I, Vintage, New York, 1958, pp. 340-45).

13