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Le superfici centrifughe di Tender is the night Immagini dal contro-esodo.

In Tender is the night l'esilio dei personaggi non raggiunge mai, se non per brevi allusioni, la meta dell'origine. Ad aspettarli sta lo spettro della mancanza, non quella cercata e di segno positivo che caratterizza il cosmo di Nightwood e che, nella forma dell'amputazione, è il primo passo verso la riunificazione in seno alla circolarità del simbolo, quanto piuttosto quella tutta negativa della perdita. Un senso di degenerazione, ben diversa da quella disvelante che corrode i personaggi di Djuna Barnes, attraversa incessantemente il romanzo: tutto e tutti perdono qualcosa, o, semplicemente, si perdono. La scena della finta partenza di Abe North dalla Gare Saint –Lazare costituisce uno spartiacque nella storia, segnando il punto di caduta degli eroi e ponendosi come una vera e propria fantasmagoria della catastrofe collettiva. La città, fino alla sera prima teatro farsesco delle messe in scene dei personaggi, diventa scenario di morte diffusa, in un rovesciamento beffardo e inaspettato che si compie attraverso la soglia enigmatica dell'alba.

La polarità luce/buio, eco della temporalità rarefatta di una storia giocata sempre sulle linee di frontiera tra il giorno e la notte, costituisce nel romanzo di Fitzgerald una sorta di trasfigurazione lirica delle soglie spaziali ottocentesche. L'alba, come momento di passaggio tra le due dimensioni, diventa quel “luogo intermediario” che nei testi realisti era la finestra (nelle sue variazioni) in quanto metafora “transdiscursive” e metalinguistica, topos che permetteva al poeta “d'écrire «sur la vitre» (Hugo), au-delà de la vitre (dilatation et co-naissance au monde), ou en deça de la vitre comme dans Paysage de Baudelaire”54.

In un mondo che non conosce più la distinzione tra le porzioni dello spazio, ma solo una spaesante continuità a tratti onirica, il passaggio si compie solo sul confine tra le notti sfrenate e i giorni lugubri. Il capitolo che precede la scena della stazione si chiude sull'immagine, filtrata ancora dallo sguardo ingenuo di Rosemary, del ritorno a casa dei “six relics” in “un'alba diffusa” nei pressi della chiesa di Saint-Sulpice, limite della città del Dottore O'Connor e rara evocazione di un luogo della rive gauche, per il resto quasi assente nella prosa parigina di Fitzgerald, legato, come si sa, ai fasti di una rive droite “americanizzata”55. Come si legge nel testo,

Later she was homeward bound at last in broad daylight, with the pigeons already breaking over Saint-Sulpice. All of them began to laugh spontaneously, because they knew it was still last night while the people in the streets had the delusion that it was bright hot morning.56

54 Hamon, P., op. cit. (1981), p. 227.

55 Per l’analisi dei luoghi parigini di Fitzgerald si rimanda a Cohen, E., Paris dans l’imaginaire

nationale de l’entre-deux-guerres, Publications de la Sorbonne, Paris, 1999.

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Non solo i reduci della notte irridono l'illusione giornaliera dei passanti dimostrando di vivere perennemente in una dimensione temporale artificiale, sfasata e riconducibile sempre da ultimo all'indistinzione, ma addirittura Rosemary identificandosi alla fine con un enorme castagno d'India, suggerisce, attraverso la mediazione di un correlato oggettivo di eco eliotiana, un'altra più temibile indistinzione: quella tra soggetto e oggetto.

Il capitolo seguente si apre sullo scorcio di un altro luogo parigino, la Gare Saint- Lazare, la cui accennata descrizione, funzionale unicamente alla presentazione di Abe North, è un'ulteriore riconferma, non solo della riduzione dello spazio urbano a scenario evanescente della storia dei personaggi, ma anche della valenza amplificativa delle sequenze descrittive. Della Stazione viene offerto al lettore un solo dettaglio, la cupola sotto la quale sosta il personaggio in attesa di Nicole Warren, in un movimento descrittivo che sembra parodiare i procedimenti balzacchiani57. Se in un romanzo realista come Père Goriot lo sguardo del descrittore procede dalla visione generale della pensione ai suoi particolari per giustificare il luogo in quanto “cadre” dell'azione dei personaggi, qui ogni visione unitaria dello spazio è abolita. Alla consonanza realista tra segni esterni e interni subentra la confusione modernista tra ambiente e Io mentre la coesione del campo semantico si riduce alla messa in evidenza di un solo dettaglio che, parte di un referente assente e mai descritto, innesca una ricerca del significato nelle profondità del testo. La strategia ermeneutica porta però alla scoperta di un'analogia apparentemente non esplicitata dalla sineddoche “the fouled glass dome” che in realtà, lungi dal costituire il punto di partenza di un percorso puramente verticale, nasconde la comparazione tra elementi del reale. La cupola di vetro rotta è infatti un “relic of the 'seventies” nonché traccia sopravvissuta dell’ “era of the Crystal Palace”, esattamente come gli esuli festaioli sono “six relics” nonché tracce sempre più sbiadite di un passato identitario che sembra sempre più lontano. L'analogia è spinta fino alla parossistica identificazione tra uomo e spazio (dis)abitato perché il vetro sporco della cupola, la cui consunzione contagia l'intero ambiente, diventa non solo una sorta di lente ottica al contrario sotto la quale si compie la fenomenologia della consunzione dei personaggi, ma anche la superficie stessa della loro interiorità. Se si osserva più da vicino il testo, si può osservare come la narrazione venga sviluppata, in modo simile alla scena della festa in Rue Monsieur, attraverso la contrapposizione tra la “faccia scura” di Abe e la “bella superficie lucente” di Dick, tra la “cupola di vetro” sporco sotto la quale sosta North e “la bella cupola” del cappello che indossa il dottore. I due personaggi costituiscono una sorta di polarità trans-storica che si rivela, col solito procedimento antifrastico, come un gioco di

57 Come osserva Pier Luigi Pellini, “quelle dei grandi romanzi di primo Ottocento sono descrizioni

realiste ambientali, narrativamente funzionali: si propongono di riprodurre una realtà concepita come

preesistente e certa; e sottopongono al lettore dettagli solitamente trascurati, ma indispensabili per la comprensione della trama” (Pellini, P., op. cit., p. 38).

specchi che riflettono la stessa immagine di sporcizia e degrado allusa dal vetro della cupola.

Nel sistema di relazioni che si intrecciano nel luogo, forse per l'ultima volta scenario dell'incontro intersoggettivo, oltre alla coppia speculare Dick- Abe emerge la coppia antitetica Nicole/Abe, che allude, per contro, al motivo della separatezza e dell'impossibilità comunicativa. In realtà se si considera il fatto che Nicole e Dick “had become one and equal, not opposite and complementary”, e che la donna “was Dick too”58, si può considerare la figura di North come una sorta di mediazione a distanza tra i due, una specie di capro espiatorio sacrificato in nome della storia e della ideologia del testo, uno specchio sul quale si riflette la vera immagine demistificata dei due sposi.

Anche l'alternanza di punti di vista è riconducibile da ultimo alla grande metafora dello specchio. Se la prima immagine di Abe è filtrata dagli occhi del descrittore attraverso il cannocchiale della cupola, la seconda nasce dallo sguardo incrociato tra l'uomo e Nicole. Abe la vede “in cima alla scala” con un'espressione aggrottata tipica di chi “non è notato” e simile a quella di “una gatta che trattiene con la zampa i gattini”. Solo quando la donna si sente di nuovo al centro dello sguardo dell'amico, solo quando esce dalla dimensione privata del suo solipsismo, lascia andare via le tracce del malumore dal viso, rientrando nei suoi consueti vestiti pubblici e quello che vede è, per contro, la “gloomy figure” segnata da “dark circles” di Abe. L'aggettivo gloomy, tradotto dalla Pivano con “cupa”, ha tra le sue valenze semantiche anche quella di triste, malinconico e addirittura lugubre e in americano è termine familiare per depresso59. La polarità luce-buio si traduce qui, attraverso il motivo latente dello specchio, nell'apparente opposizione tra la luce del cielo e l'oscurità del volto di Abe. In realtà “the glow of the morning skylight” è sad, triste, come triste è tutta la figura dell'uomo. La consonanza emotiva tra spazio e Io è tracciata sul filo dell'antifrasi. L'analogia è realizzata dalla correlazione tra i due rapporti metonimici e quindi nel legame oppositivo tra due spazi semanticamente differenti, volto scuro dell'uomo e superficie celeste illuminata, ma l'aggettivo sad, che riprende il gloomy iniziale, rovescia l'apparente anititesi sovvertendola dall'interno. Sta al descrittario esercitare un’efficace strategia ermeneutica capace di cogliere il filo latente che lega le due entità rendendole parte di un unico referente metaforizzato, quella superficie lugubre che è tanto il mondo quanto il suo abitante. Se il volto di Abe diventa specchio di questa oscurità diffusa, la sua parola è quell'istanza metadiscorsiva capace di riflettere le crepe nascoste nelle superfici poco “corrugated” di Dick e Nicole. La recitazione della donna, benché ostinata e

58Fitzgerald, F. S, op. cit., p. 242. 59

Oltre a queste brevi considerazioni tratte dal Dizionario bilingue inglese italiano/ italiano inglese di Giuseppe Ragazzini (Zanichelli, Bologna, quarta edizione, 2001), è forse opportuno riportare i significati di gloomy seguendo le indicazioni fornite da The Oxford English Dictionary. Alla voce

gloomy si legge: “1 Full of gloom; dark, shaded, obscure. b. of colours: Dark, blackish. obs.2 of

persons and their attributes: Affected with gloom or depression of spirits; having dark or sullen looks 3 Causing gloom or depression of spirits; dismal, disheartening” (op. cit., SV).

sorda alle parole dell'amico, lascia intravedere il backstage della sua vera vita. Nicole, donna dalle poche parole quasi come la Robin di Nightwood, e dallo sguardo spaesato e meditabondo, ritrova parole da chissà dove, alla vista di una passante, “la bella del bastimento”, che indossa un vestito che nessuno avrebbe potuto comprare, “tranne lei, la bella della crociera mondiale”. Incalza Abe, dicendogli: “See? No? Wake up! That's a story dress- that extra material tells a story and somebody on a world cruise would be lonesome enough to want to hear it”60. Ma inevitabilmente si mangia le ultime parole perché “aveva parlato troppo per essere lei e Abe trovò difficile capire dal suo viso serio che aveva parlato”. Le parole di Nicole sono “extra-material”, proprio come il vestito dell'affascinante passeggera che racconta un romanzo a chiunque sia abbastanza solo da volerlo conoscere, e il suo stentato e affannato discorso rimanda al di fuori della situazione comunicativa immediata, alludendo alla maschera che lei stessa indossa come traccia di una “story” ben più profonda. Abe rimane spiazzato dall'estemporanea e insolita loquacità dell'amica e cerca di assumere un atteggiamento che “lo facesse parere ritto, per quanto fosse seduto”.

A livello metatestuale, la scena si pone come paradigma descrittivo dell'ideologia sottesa al romanzo mimando la possibile reazione spaesata del lettore/spettatore. Tender is the Night è infatti testo decifrabile solo con lo sguardo allegorico, di eco baudeleriana, capace di sfogliare i vari livelli di significato che costituiscono, quasi in un'anticipazione della deriva post-moderna, un itinerario epistemologico e insieme ontologico. Dalla “superficie lucida della scala mobile” attraverso la “cupola di vetro sporco” si giunge agli strati più profondi del reale e della conoscenza su di esso. Anche il lettore, come i personaggi, deve essere disposto a perdere sempre qualcosa per guadagnare il senso profondo del testo, deve squarciare il sipario che come un Velo di Maya copre il setting dei protagonisti per arrivare al backstage meno lucente e più “corrugato” della storia. Per ora il romanzo prosegue in un movimento incessante dalla scena al dietro le quinte, mostrando alla volta ricche rappresentazioni e, come in una pièce di Brecht, la loro controversa fase di lavorazione mentre la parola si fa obliqua, disegnando un'iperbole di senso. Abe North è il gobbo non ascoltato che cerca senza successo di suggerire agli attori una nuova parte, di scrivere un nuovo canovaccio con “gente nuova”. Dice all'amica di essere stanco e senza più entusiasmo e che Dick e Nicole sono “più stanchi ancora” di lui, benché non se ne accorgano. La donna, dopo la breve parentesi, indossa di nuovo i suoi soliti costumi di scena: niente più vestiti o parola “extra-material”, ma, di nuovo e ancora, la recitazione ostinata della solita parte impeccabile, liscia e perfetta. E allora tra i due cala il sipario pesante dell'incomunicabilità. Come si legge nel testo:

Abe was feeling worse every minute-he could think of nothing but disagreeable and sheerly nervous remarks. Nicole thought that the

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correct attitude for her was to sit staring straight ahead, hands in her lap. For a while there was no communication between them-each was racing' away from the other, breathing only insofar as there was blue space

ahead, a sky not seen by the other. Unlike lovers they possessed no past;

unlike man and wife, they possessed no future; yet up to this morning Nicole. had liked Abe better than anyone except Dick-and he had been heavy, belly-frightened, with love for her for years.61

Il passo offre un'ulteriore riformulazione del paradigma spazio-temporale attraverso il motivo dell'incomunicabilità. Comunicare significa mettere in comune un mondo, ma quali possono essere le parole condivisibili capaci di dire l'infinito indeterminato dello “spazio blu”, quale dialogo vi può essere tra chi non ha una storia né un futuro insieme? Il cielo, trasfigurato in chiave modernista, è quella superficie metatestuale sulla quale si può leggere il destino di solipsismo, e quindi di morte, dei personaggi. Già Mallarmé si scagliava contro “l'azur” del Cielo morto, invocando la “materia”, "l'oubli de l'Idéal cruel et du Peché", decretando la fine degli Assoluti e cantando il vuoto del cervello, dell'anima e dello sguardo. L'azzurro di Mallarmé “schiaccia il poeta impotente che impreca al suo genio in mezzo a un deserto sterile di dolori” e che “fuggendo con gli occhi serrati (…) guarda con l'intensità d'un rimorso atterrante, il vuoto dell'anima”. L'avanguardia aveva già elaborato la fantasmagoria straniante del nulla, aveva già presentito l'impossibilità della fuga e forse anche dello spazio. Il modernismo va ancora oltre, perché l'uomo degli anni '20, reduce dal massacro di massa, non si pensa più come “martire” volontario impegnato nell'ultimo sforzo per rendere “bella l'idea singhiozzante”, ma come colui che ha dovuto rinunciare al Bello e all'Ideale, colui al quale, avendo assistito all'ultimo rantolo dell'Idea, non resta che dialogare col Vuoto pervasivo che lo abita e nel quale abita. Se Mallarmé ancora si chiede disperato dove sia l'uscita, dove poter ancora fuggire, i personaggi di Fitzgerald si limitano a “racing away” l'uno dall'altro nella superficie sterile dello “spazio azzurro” in “un cielo non visto dall'altro”. La domanda disperata che chiude Le Finestre, quell'interrogarsi dell'io “d'azur bleu vorace” su come “sfondare il cristallo contaminato dal mostro” e “rinascere”, oltre “le vetrate chiuse”, “come un diadema al cielo anteriore dove la Bellezza fiorisce”, quell'invocazione, che già in Mallarmé ricade nella “nausea del suo contatto”, si rovescia in Fitzgerald nella sua parodia. La parola modernista ha come referente l'Ici-bas ma il suo slancio verso l'alto si infrange inesorabilmente sulle “croisées”, incapace di andare oltre perché l'oltre è lì, nel vetro che “soit l'art, soit la mysticité” è lo specchio spietato del Vuoto di Quaggiù.

Sia in Nightwood che in Tender is the Night il mondo è concepito fenomenologicamente come “immagine del mondo” ma, se nel romanzo di Djuna Barnes il mondo nasce dall’incrocio di sguardi, nel testo di Fitzgerald è lo straniante gioco di riflessi tra superfici il principio genealogico dello spazio. Così Nicole e

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Dick, che a livello metadiscorsivo rappresentano il nuovo paradigma spazio- temporale possono guardarsi “at each other directly, their eyes like blazing windows across a court of the same house”.62 Questa “stessa casa” è lo spazio di tutta la storia e di ogni parola, il non-luogo che, sia ospedale o stazione, intérieur o scenario urbano, è sempre da ultimo un “cortile” racchiuso tra “finestre accese” e tra “specchi mal tagliati”, un’effimera e artificiale “scala mobile lucida” sulla quale i personaggi camminano senza più trovare neanche l’ancoraggio estremo dell’artista resistente di Tropic of Cancer “who becomes more solidly fìxed and anchored, more centrifugal as the process of dissolution quickens”63. Non c’è più nessun “mozzo della ruota” al quale aggrapparsi per vivere e per scrivere, perché tutto, in alto e in basso, in ogni luogo e in ogni tempo, è ormai solo “cielo non visto dall’altro”, spazio dove fuggire inutilmente, spazio che è in sé fuga continua perché assenza di fondamento.

La stazione rappresenta un topos ricorrente usato, non solo in Fitzgerald ma in molti altri testi modernisti, per tradurre in via metonimica la perdita di radici e più in generale di un mondo. La Gare Saint Lazare si porta via Mona, lasciando a Miller un ultimo presagio di morte e di malattia, in quel sorriso enigmatico e impercettibile che scandisce tutte le partenze e tutti i ritorni. E la stessa stazione si porta via in Tender is the Night un po’ tutti i personaggi, tra il rumore strascicato dei treni e quello sinistro e secco degli spari, echeggiando l’inconsapevole fantasmagoria che già aveva colto Dick quando, all’inizio della sua storia personale ma al centro dell’intreccio, giunto in un’altra “platform with spring twilight gilding the rails and the glass in the slot machines (…) began to feel that the station, the hospital, was hovering between centripetal and centrifugal”64. La rappresentazione visionaria e derealizzante del luogo fisico diventa metafora dell’intero spazio letterario, percorso dalla stessa dialettica tragica tra le superfici centrifughe di distributori automatici, vetri mal tagliati e insegne luminose e il centripeto “blue space” del cielo, tra incontri artificiali e dispersioni stranianti o, ancora, da ultimo, tra esilio e ritorni impossibili. Chi parte sulle “rotaie” illuminate dal crepuscolo straniero non ritorna mai da dove era partito, rimanendo per sempre su una scala mobile lucida, senza più un mondo, chiuso nella solitudine irrimediabile causata dalla perdita di ogni riferimento oggettivo, nella indeterminazione spettrale dello “spazio azzurro”.

Nella lunga scena alla stazione la dialettica tesa tra dispersione centripeta e raccoglimento centripeto è, come si accennava prima, rappresentata dal triangolo Abe-Nicole-Dick in quanto paradigma transtorico del dramma dell’esodo, tema principale dell’intero romanzo, e Figura della coscienza infelice. I tre personaggi, nella loro complicata e trasversale relazione, mettono in scena il motivo della separazione dell’Io. Mentre Abe e Nicole separano letteralmente se stessi, il primo nell’ubriachezza per sfuggire alla noia mortale, la seconda nelle crisi psicotiche per non affrontare la tragedia dell’incesto, Dick si separa dalle sue radici etiche,

62 Ibidem, p. 243.

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Miller, H., op. cit. (1935), p. 168.

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geografiche e conoscitive. Il Vuoto dispersivo, che fonda l’immanenza del mondo presente e costituisce l’istanza verticale e trascendentale che sovrasta i personaggi dall’alto come una sorta di potere imperscrutabile e anonimo, è anche il Vuoto della distanza incolmabile che si staglia tra le varie coscienze. Il sistema di relazioni intersoggettive mima il rapporto intransitivo che l’Io intrattiene a “casa” sua con il Sé, inquilino incontrollato, ingombrante e ignorato mentre gli sguardi tra i personaggi, ciechi come finestre inutilmente illuminate, sono speculari allo sguardo che l’Ego minimale rivolge all’assenza dell’Alterità assoluta attraverso gli specchi del cielo. Il drammatico lamento di Hölderlin sulla vacanza del divino e le grottesche considerazioni di Nietzsche sulla morte degli dei per il gran ridere di fronte all’assurda dichiarazione di chi si proclamò l’Uno, risuonano in Fitzgerald all’interno di una tragedia modernista che rivisita il motivo fenomenologico della Coscienza