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L’Assenza e il vuoto sono i motivi usati da Jean Rhys per costruire la sua Parigi, Babilonia per gli altri, i Divers i Norths i Wales, ma non per il narratore omodiegetico del disperato Good morning, Midnight, romanzo di un’esistenza mancata per caso o distrazione e forse riacciuffata per un soffio all’ultima riga. La scrittrice, di madre creola e padre gallese, dà vita a un alter ego allegorizzato che si fa portavoce di una parola monca, balbuziente e a sussulti, quando non ebbra, della domanda di un’intera generazione: dove è finito il giorno o, meglio, parafrasando le parole di Emily Dickinson i cui versi danno il titolo al libro e compaiono nell’esergo, perché “the morn didn’t want me”? Questo romanzo, apparso nel crepuscolare 1938, è un’altra opera della notte, un’inedita ninna nanna cantata al giorno spietato che se ne è andato a letto perché, come constata rassegnata la poetessa americana, “got tired of me”. L’intero testo si può leggere come malinconico testamento della protagonista che guarda il suo Giorno russare ignaro e dà il benvenuto alla Mezzanotte rantolante delle sue peregrinazioni da un café all’altro, del suo quotidiano ritorno nella prigione di una squallida stanza d’albergo.

Figura emblematica della perdita, Sasha Jensen, questo il suo nome, non ha il rimpianto per un mondo che è finito, come i personaggi di Fitzgerald, quanto piuttosto l’impotenza, a volte ironica, a volte indolente, altre autocommiserativa, di chi ha mancato ogni possibilità di averne uno. Se le opere dello scrittore americano sono un requiem per la morte dell’America pagana e per la conseguente vendetta dell’America moralista e puritana, Good morning Midnight, così come After leaving Mr McKenzie e Quartet, sono piuttosto un addio che l’Io recita a se stesso, prendendo congedo da sé e dal suo lettore.

Nei romanzi della Rhys è di scena l’autoassassinio del Soggetto. È la stessa narratrice a confessarsi senza pudore, concedendo anche in una digressione centrale la lunga cronaca della sua attuale e rassegnata decomposizione. La parole di Sasha nasce in un punto di silenzio spettrale e notturno, in quel “deserted spot” milleriano dal quale, come l’uccello che in Tropic “has drifted to the dead centre of the ocean”33, l’Io deraciné che ha “no pride, no name, no face, no country”34 tenta un volo senza successo, avvolgendosi su se stesso in un movimento centrifugo e annichilente, “like one of those straws which floats round the edge of a whirlpool and is gradually sucked into the centre, the dead centre, where every- thing is stagnant, everything is calm Two-pound-ten a week and a room just off the Gray' s Inn Road. . . .”35. La metropoli, Londra e Parigi in Jean Rhys e la sola Parigi in Henry Miller, è non solo il luogo dove l’ego, senza più un terreno sotto i piedi, subisce un depotenziamento ontologico, diventando appunto una di quelle

33 Miller, H., op. cit. (1935), p. 186. 34

Rhys, J., op. cit. (1938), p. 38.

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straws risucchiate dal vortice della dispersione nel centro morto dove tutto è stagnant, una “straw that is tossed here and there by every zephyr that blows”36, ma è anche, a livello metatestuale, metafora di un intero spazio letterario teso tra l’ermeneutica centripeta e la genealogia centrifuga. Sia in Tropic che in Good morning, Midnight, la malattia cancerogena, che corrode l’uomo, e il narratore, dall’interno, conosce una dilazione grazie alla potenza dell’immaginario artistico, capace di sospendere per breve la corsa del mondo e del suo esile abitante- pagliuzza verso la totale disintegrazione. L’Io narrante di Tropic resiste aggrappato tenacemente, sul “mozzo della ruota”, appeso ai quadri di Matisse, dove l’immobilismo lugubre conserva ancora le tracce della vita mancata, dove l’aria che si respira è sì steady –fissa – , ma “steady with a stagnant sperm”37 . Anche Sasha ha, nello studio di un oscuro pittore, un momento epifanico, che, come in un “miracle”, la conduce oltre i confini impenetrabili della prigione - la cella egoica e miserabile - nella quale vive reclusa immersa nel passato, facendola incontrare con l’Altro. Ascoltando la voce della stessa narratrice, si legge:

I am surrounded by the pictures. It is astonishing how vivid they are in this dim light…Now the room expands and the iron band round my heart loosens. The miracle has happened. I am happy.

Looking at the pictures, I go off into a vague dream.

Perhaps one day I'll live again round the corner in a room as empty as this. Nothing in it but a bed and a looking-glass. Getting the stove lit at about two in the afternoon - the cold and the stove fighting each other. Lying near the stove in complete peace, having some bread with pâté spread on it, and then having a drink and lying all the afternoon in that empty room - nothing in it but the bed, the stove and the looking-glass and outside Paris. And the dreams that you have, alone in an empty room, waiting for the door that will open, the thing that is bound to happen38.

Il passo contiene la verità del discorso testuale, della linea che la parola cerca di tendere oltre il reale disperato del passato, cominciato con un viaggio in treno verso Parigi e qui finito con un aborto e un abbandono, oltre l’insignificanza del presente, vissuto solo come ironica cronaca delle possibilità scivolate nel nulla: l’amore per un uomo che se ne va, per un figlio che si rifiuta di nascere, per un’esistenza sempre insopportabilmente al di la di sé. Lo spazio si riconferma la struttura predominante anche in questo romanzo, così diverso dagli altri qui esaminati, per voce narrante, temi e motivi scelti, eppure a essi legato dalla relazione genealogica di dipendenza tra rappresentazione spaziale e scrittura

36 Miller, H., op. cit. (1935), p.186. 37

Ibidem, p. 174.

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memoriale. Non è un caso che la storia sia raccontata al presente e sempre a partire da un luogo, come se fosse una ininterrotta descrizione dei ricordi che si affacciano dagli angoli bui di qualche squallido intérieur urbano, dai confini invisibili che la città traccia al suo interno. D’altronde tutto il testo sembra percorso da una latente isotopia tra la chiusura esistenziale dell’Io, dettata dalla sospensione del suo tempo storico, e chiusura, reale o figurata, delle aperture urbane. Il brano realizza il rovesciamento speculare di tale figura, presentando una rara immagine di apertura: attraverso l’accostamento metonimico tra il cuore, sede di una soggettività fino a questo momento stretta nella morsa asfissiante di una “iron band”, e il perimetro della stanza, prospetta una possibilità di salvezza. L’espansione dei confini, che si realizza come in Tropic grazie alla fuga del reale nello spazio aperto dai quadri appesi alle pareti, provoca l’allentamento dei lacci egoici. L’apertura dell’orizzonte coincide con l’ingresso in un “vague dream” dai contorni felici, dominio antitetico rispetto al “nightmare” kafkiano nel quale Sasha scivola all’inizio del testo mentre percorre, spaesata, le sale del negozio nel quale lavora, in cerca di un’incomprensibile “kise”, di qualcosa che “non significa assolutamente nulla”, che rimane puro significante orfano del suo significato, staccato da qualsiasi referente. Così Sasha si inoltra attraverso “workrooms and offices and dozens of small rooms, passages that don’t led anywhere, steps going up and steps going down”39. In questo Castello, dove inutilmente cerca di dare un volto al nome segnato sulla busta che le è stata consegnata, Monsieur Grousset, il fantomatico destinatario, rimane ermeticamente chiuso in una stanza che non si trova. Il percorso della narratrice, che si snoda attraverso “ stairs, past doors, along passages - all different, all exactly alike”40, in un tragitto nel quale non si incontra “a soul and all the doors are shut”41, sembra avere come modello un altro angosciante itinerario: quello del Signor K tra le porte, le strettoie, i passaggi di un misterioso edificio. Anche Sasha è in fondo sotto processo: il Giudice supremo rimane anonimo ma dietro gli emissari di questo potere efferato, che commina dure sentenze, si intravede lo stesso Io della protagonista. L’aula di tribunale è Parigi, la città dove, dietro l’apparente diversità delle sue parti, dell’atmosfera e persino delle donne, si nasconde il terribile fardello dell’eterno ritorno dell’uguale. “Terrible”- esclama Sasha di fronte all’affermazione sull’eterogeneità metropolitana sostenuta da un improvvisato compagno di bevute, “But I don't believe things change, much really; you only think they do. It seems to me that things repeat themselves over and over again”42.

La facoltà dell’immaginazione, che in Aragon come in Benjamin è il momento di arresto nel quale l’uno e i molti, immagini stratificate nello spazio e nel tempo, si riconciliano, in Jean Rhys interviene invece a svuotare letteralmente l’Io dalla sua

39Ibidem, p. 25. 40 Ibidem, p. 26. 41 Ibidem. 42 Ibidem, p. 65.

storia, passata e ingombrante, a dargli una stanza “vuota”, uno “specchio” nel quale guardarsi aspettando che la porta finalmente si apra e il destino si compia. Questa “empty room” fantasmagorica rappresenta la superficie di scrittura dei segni a venire, costituendosi in antitesi con quella “damned room (…) saturated with the past” del racconto già avvenuto, quella stanza che – dice Sasha mentre regge un dipinto arrotolato tra le mani- “ It's all the rooms I've ever slept in, all the streets I've ever walked in”. La parola discorsiva nasce da questa stanza del passato da questo “centro morto”, ma cerca di liberarsene, di proteggersi dal turbinio centrifugo che fa muovere “whole thing (…) in an ordered, undulating procession past my eyes. Rooms, streets, streets, rooms....”43.

La storia si costruisce sulla polarità tematica tra

immobilismo/chiusura/solitudine/strade-stanze scure da un lato e apertura/intersoggettività/oltre immaginario/stanza espansa dall’altro, opposizione che non solo organizza il discorso come relazione disgiuntiva tra le due serie paradigmatiche, ma innesca un movimento dialettico infelice che rende l’intero spazio letterario soglia metonimica tra la Notte urbana e ostile e il Giorno transtorico e salvifico, come se tutta la scrittura nascesse dall’invocazione disperata della protagonista di fronte alle numerose porte fatalmente chiuse. Quello che Sasha cerca, dietro i battenti, le finestre e gli usci sbarrati della Parigi “by night”, è non solo un rifugio, ma il chiarore di stanze illuminate e, soprattutto, uno sguardo, un sorriso, un Altro attraverso il quale scappare dal “centro morto” e “stagnante” dove è andato a dormire il Giorno di ieri, portandosi con sé tutti i visi mattutini del passato e lasciandola sola con il riflesso sinistro del proprio Io allo specchio, oggetto che, sempre presente nelle sue stanze attuali e oniriche44, costituisce insieme il testimone “oculare” della dispersione egoica e, come per Alice, il punto di fuga dalla realtà incombente e mostruosa. Il discorso testuale mima la stessa dialettica storica, dando vita a una parola balbuziente che cerca di oltrepassare il narcisismo di una coscienza infelice impegnata unicamente nel dialogo ripetitivo con la propria immagine o con quelle strade che, comunque, restituiscono il riflesso morente di ciò che è stato. La parola autoriale si lancia non solo, come evidenziato sopra, nella strenua ricerca di significati condivisibili e perciò scambiabili, ma soprattutto di un Tu con il quale mettere in comune questa riserva di senso, alla base della costruzione del mondo reale come di ogni universo

43 Ibidem, p. 109.

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Sarebbe interessante tracciare un confronto comparativo, che in questa sede deve purtroppo essere sacrificato per esigenze di sintesi, tra la stanza della narratrice di Good morning, Midnight e la “chambre double” abitata da Baudelaire nell’omonima prosa contenuta nella raccolta Le Spleen

de Paris. Colpisce soprattutto, oltre la connotazione iniziale di “une chambre qui ressemble à un

reverie, une chambre, véritablement spirituelle, où l’atmosphère stagnante est légèrement tintée de rose et de bleu”, l’evocazione di “terribiles mirettes” paragonati alla fiamma degli occhi che trapassa il crepuscolo, specchietti che “attirent, (…) subjuguent (…) dévorent le regard de l’imprudent qui les contemple” (Baudelaire, C., Le spleen de Paris, in Lo spleen di Parigi, edizione con testo a fronte, introduzione, traduzione e note a cura di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano, 1989, pp. 16-7).

possibile. Chi può stabilire dei certi confini egoici, scongiurando la dispersione moltiplicante dei propri incontrollati riflessi, chi può dire Io, evitando di ricadere nell’infinito tautologico e non storico della morte, chi ha il diritto di fare tutto ciò, se non chi ha davanti a sé lo sguardo complice e accorto dell’altro e chi ha a disposizione la parola mediatrice dell’altro? La scrittura di Jean Rhys sembra nascere dal desiderio dell’Altro, di un lettore esterno per quella storia solitaria che si costituisce come mise en abîme di questa stessa ricerca di complicità. Come Sasha, alter ego dell’autore, cerca qualcuno con il quale inaugurare un nuovo racconto, uno sguardo che la guardi vivere, così Jean cerca un lettore che la aiuti ad aprire la porta per liberare il Giorno significante e scongiurare l’incubo del centro morto. È forse questa aspirazione a imporre la scelta del presente indicativo istantaneo e cronachistico (a parte che nella digressione centrale condotta al past simple), come se la narratrice, e con lei l’autrice, fossero impegnate hic et nunc nella costruzione della storia, come se l’opera nascesse dalla dialettica tra immobilismo memoriale e progressione immanente/imminente, come se, infine, fosse l’atto congiunto della scrittura/lettura ad aprire il varco nell’ultima pagina. La parola, come specchio di questa indecisione temporale e come soglia tra reale e immaginario, mette in scena la propria disequazione costruendo un discorso paradossale: quello di un Io che, pur parlando alla prima persona e pur ponendosi come centro della storia, è in realtà l’oggetto-preda della città notturna. Si riaffaccia l’ipotesi, avanzata all’inizio del presente lavoro, di una letteratura, per così dire, di filone urbano, che soggettivizza Parigi non solo per esemplificare la relazione intransitiva tra metropoli e abitante-expatrié, ma anche per mettere in scena il dramma dell’Io che, spodestato del suo trono secolare, si ritrova addirittura a dover fuggire da quel mondo che fino al Giorno prima pensava di dominare incontrastato.

La città della Mezzanotte, attraverso le sue arterie scure e le sue orecchie sorde, prende vita in una fantasmagoria dai toni allucinatori e visionari, un “nightmare” kafkiano del quale cade vittima Sasha e con lei numerosi altri personaggi-uomo del ‘900, in quel decennio crepuscolare che aspetta la catastrofe e traghetta al nuovo Giorno questi erranti personaggi- straws, destinati poi a diventare i personaggi-numero di un certo post-modernismo. La protagonista di Good morning, Midnight si trova in questa terra di nessuno e, nell’attesa che la porta del suo “vague dream” si apra, attraversa i fiumi infernali della città buia, affidandosi al Caronte che, di volta in volta, accetta di traghettarla sulle sponde di qualche bar. L’ultimo Caronte sarà quello decisivo che, forse, la riporterà a sé, permettendole di compiere fino in fondo il desiderio dell’altro. Ma, per cogliere i lineamenti di questo ennesimo mondo infernale allestito da uno dei tanti testi luciferini degli anni ’30 parigini, è opportuno ritornare al testo e ripercorrere tutti i “deserted spots” disseminati dalla storia e legati tra loro dai motivi dell’oscurità e della chiusura.

protagonista ancora senza nome: “quite like old times, the room says - Yes? No?”. Segue la descrizione dell’intérieur squallido di uno di quei “cheap hotels” il cui odore “faint (…) almost imperceptible” e immediatamente dopo un’immagine della strada, “narrow, cobble-stoned, going sharply uphill and ending in a flight of steps”45, che si intravede dietro le tende rosse. Il referente che vibra dietro il discorso della Stanza anonima e squallida è ”what they call an impasse”, un vicolo senza via d’uscita che ben presto il lettore imparerà a conoscere come immagine onnipervasiva che, dal piano metonimico dello spazio, diventa metafora dell’esistenza senza sbocchi della protagonista e addirittura rappresentazione metatestuale dell’unica storia ancora raccontabile dall’esilio parigino degli anni ‘30.

Viene spontaneo il richiamo intertestuale al “blind alley” milleriano, tragica scoperta fatta, sulla scia di un’illustre letteratura infernale, oltre lo splendore abbagliante della Ninive-Parigi, vicolo cieco dove “the air is chill and stagnant, the language apocalyptic” meta di un itinerario illusorio e urbano “at the end of which is a scaffold”. Il patibolo che Miller evoca solo nei momenti extratemporali e transtorici è da Jean Rhys lasciato senza pudore sulla scena, come meta ostentata di una storia nerissima, che si snoda a partire da quella prima impasse metonimica attraverso “more dark rooms, more red curtains”, in una sinistra ripetizione dell’identico stagnante e lugubre. Se in Tropic of Cancer la narrazione nasce negli intervalli tra i sogni, in Good morning, Midnight il racconto è invece descrizione di un incubo, vissuto Hic et Nunc: nell’Adesso istantaneo di un presente che, in quanto figura del cattivo infinito, assorbe in sé passato e futuro, e nel Qui di un labirinto fatto di tanti vicoli ciechi, un labirinto che, a differenza di quello di Aragon disabitato dal Minotauro, è pieno di mostri46. La narratrice è prima di tutto descrittrice di questo spazio: prima viene la rappresentazione del luogo, solo dopo, e in rapporto di dipendenza, l’esile racconto della “pagliuzza” che lo abita in via negativa e nella forma della disappartenenza. Il motivo del labirinto è tematizzato sin dall’inizio attraverso il flash onirico del primo significativo incubo avuto in terra londinese, modello di costruzione dell’edificio kafkiano parigino. Ascoltando la voce di Sasha si legge:

I am in the passage of a tube station in London. Many people are in front of me; many people are behind me. Everywhere there are placards printed in red letters: This Way to the Exhibition, This Way to the Exhibition. But I don't want the way to the exhibition - I want

45 Rhys, J, op. cit. (1937), p. 9. 46

Come osserva Shari Benstock nel già citato studio sulla folta presenza di scrittrici a Parigi, “unlike Sabina [personaggio di House of Incest di Anaïs Nin], who flees in fear form the terrors of the external world, or Robin Vote [personaggio di Nightwood] who is “a beast turning human”, Sasha Jensen lives in the present world, caught by the cold realites of her existence” perché “Ryhs dialectic of self and world, like that of Auden’s later poetry, grounds itself in the everyday, reveals its vision in personal disappointment and discouragement” (op. cit., p. 441).

the way out. There are passages, to the right and passages to the left, but no exit sign. Everywhere the fingers point and the placards read: This Way to the Exhibition……47

Le similitudini con il passo di Tropic of Cancer analizzato nel primo capitolo48 si fanno qui palesi, riscontrabili nella cifra aporetica e claustrofobica che connota questa, come tutte le altre immagini spaziali, rinviando a una concezione insieme gnoseologica e ontologica, segnata dalla mancanza di possibilità, siano esse conoscitive o esistenziali, teoretiche o pratiche.

Un ulteriore livello di lettura che parta dall’espressione, comune ai due testi, “no exit sign”, qui posta al corsivo, permette di rintracciare un’affinità di pertinenza metadescrittiva o, più in generale, metatestuale: è lo spazio letterario a configurarsi secondo i paradigmi usati per la rappresentazione/trasfigurazione dei luoghi. La scrittura diventa operazione, spesso votata allo scacco, di riscrittura intellegibile dei segni urbani, percorso simbolico di ricerca di senso a partire dalla disseminazione delle tracce sovrapposte sul tessuto metropolitano, nonché tentativo di “uscita” dall’impasse storica e linguistica, a partire dalla ricomposizione/sovrapposizione dei frammenti geometrici dello spazio. Il testo si costituisce come trasgressione della norma monistica e rigida imposta dai sistemi